< Cuore infermo < Parte Quinta
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Parte Quinta - IV Parte Sesta


V.


Sul largo pianerottolo del grande scalone, nel vestibolo di San Carlo, già si riunivano i giovanotti e quelli che ancora la pretendevano ad essere creduti giovani; sotto i lunghi soprabitoni s’indovinava la tenuta di gala. Essi aspettavano là le signore che tardavano a giungere; difatti, i battenti della porta di mezzo, foderati di pelle rossa imbottita, con l’occhio ovale di cristallo opaco, non si schiudevano ancora. Le porte di fianco, spalancate, lasciavano passare il pubblico minuto, dalle file superiori, che viene a piedi, che viene prima del tempo, per godersi lo spettacolo del vedere riempirsi lentamente la sala: uno stropiccio di suole forti si accentuava per le scale di marmo. I giovanotti non trovavano di meglio a fare che discutere il lenzuolo-cartellone, disteso sul muro, accanto ad una nicchia dove stava seduta una Iside bianca, marrone ed oro. Uno di essi si dichiarava pel Meyerbeer: la maggioranza s’accordava con lui. Uno solo osò dichiarare che le famose sedici battute dell’Africana lo avevano sempre trovato dormente. Gli altri si scandolezzarono: lui, con la lente infissa nell’occhio destro e mantenuta lì da una contrazione spasmodica, col bastoncino nero con cui batteva sul ferro della ringhiera, continuava a sostenere che anche quella sera avrebbe dormito. L’impresario era uno sciocco ad aprire il teatro con quel narcotico. Si calmò solo quando gli assicurarono che la prima donna era molto seducente. Meno male: c’era da turarsi le orecchie, ma da aprire gli occhi.

La sfilata del pubblico grosso continuava. Tutte quelle persone, provinciali, dall’aria stordita, borghesi, borghesone e borghesine, dal contegno gravemente stupido, forestieri serii e stecchiti, coll’occhialino ad armacollo, venendo dal freddo rigidissimo della via ed entrando nell’ambiente già riscaldato dei corridoi, provavano un senso di soddisfazione. Davanti al guardaroba vi era folla. I venditori dei libretti salivano e scendevano, offrendo la loro merce con la voce stridula ed insistente; la gente fine passava, con un moto di disprezzo, senza comprare; gli ingenui, quelli di buona fede, che non capiscono la musica senza le parole, si fermavano e contrattavano. Due fioraie giravano, con le panierine piene di gardenie, destinate all’occhiello degli eleganti. Qualche dama giungeva. La porta di mezzo era schiusa. Di sopra, dalla piattaforma, si vedeva una ruota arrestarsi, abbassarsi una staffa, un piedino calzato di raso bianco posarsi lievemente sulla staffa ed in un piccolo balzo essere sullo scalino. Una donna compariva avvolta nel largo mantello di lana bianca, ricamato, a pieghe molli, sotto cui è nascosto l’abito, sotto cui si nasconde lo strascico; una dama appoggiata al braccio di un marito, di un fratello, d’un padre. Dietro, un servo, portando qualche scialle, l’occhialino, il ventaglio. Le giovanette passavano due a due, nei loro abiti bianchi, tenendosi pel braccio, guardando alla sfuggita dal lato dei giovanotti, fingendo sorridere fra loro, mentre l’angolo del sorriso andava altrove. Ma l’arrivo era scarso; ed è spettacolo molto minore della partenza. Le più belle, le più aristocratiche signore giungono quando la musica è principiata da un pezzo: trovano lo scalone libero. Poi è buon genere arrivare tardi. La piattaforma era ingombra; vi si faceva un vocìo insolente. Un marchesino aspettava la sua fidanzata che era in ritardo. Un semplice cavaliere attendeva la sua amante col marito, che era un suo amico affezionato: e borbottava contro le insopportabili pretese delle donne maritate. Gli amici attorno scherzavano e si burlavano di ambidue. In un angolo si faceva della grossa maldicenza sulle signore che passavano; si narrava qualche storiella indecente, frammezzata da grosse risate.

Quella personcina bionda, dall’abito azzurro, dall’aria verginale, dal corpo slanciato che parea volesse volare al cielo? Tre innamorati, un quarto in aspettativa, un quinto che avrebbe sposato. E quelle due giovanette in rosa, con gli occhi neri, le roselline fresche nei capelli castani? Oh! quelle due, angioli di virtù: i maldicenti prendevano un aspetto serio e composto, come gente che sa fare le debite eccezioni in favore degli angioli. Si diceva ancora che l’Africana sarebbe fischiata. La Commissione teatrale era incapace. Gli abbonati dovevano farsi sentire. Nel piccolo caffè un rumorìo di bicchieri e di vassoi, gli ordini rapidi dei camerieri che s’incrociavano, coprivano quasi il vocìo dello scalone e dei corridoi. Di fuori giungeva il grido acuto di un monello che offriva il Piccolo agli spettatori in ritardo. Qualche uomo grave leggeva il giornale sotto il becco a gas, tutto assorto nella lettura, senza accorgersi della folla che lo investiva. Poi la gente diventava più scarsa; il teatro la inghiottiva, con le sue molteplici bocche. Rimanevano nel vestibolo, discorrendo ancora, aspettando, fumando, gli spettatori annoiati, quelli che si davano la posa di scettici, quelli che non potevano soffrire le sinfonie; rimanevano certe figure grame, dal vestito di un colore dubbio, figure che si vedono in tutti gli atrii, sorci di teatro, che aspettano lo spettacolo sia cominciato, per sdrucciolare nella sala senza biglietto, con un ammicco fra il confidente ed il supplichevole al bigliettinaio della porta.


Alle dieci, quando si levò il sipario sul secondo atto, sul vascello dove Vasco di Gama va al naufragio, la sala era piena. Nella platea non un posto; non un posto nelle poltrone d’orchestra; nei piccoli corridoi, nei vani delle porte di fianco, gente in piedi. Dalla prima alla sesta fila, non un palco vuoto. Come numero di pubblico, la riapertura era un successo. Il piccolo Caranni assicurava nelle poltrone che l’abbonamento della prima dispari, la serata per eccellenza, la serata di tutte le prime rappresentazioni, era ottimo: sosteneva che vi erano riunite tutte le bellezze napoletane. Un giornalista prendeva nota dei nomi più vistosi e delle acconciature più clamorose, sicuro che l’indomani avrebbe venduto un grande numero di copie per le signore che volevano riconoscersi nella cronaca. Le distinzioni per fila rimanevano come quelle degli altri anni. La prima prediletta alle madri che hanno fanciulle da marito, perchè i giovanotti le veggano più da vicino. In seconda fila riunito tutto il blasone napoletano; dame giovani e vecchie, matrone, signorine; qua e là un piccolo screzio, qualche nome dell’alta finanza. In terza cominciava la ricca borghesia, quella che ha le pretese al buon gusto; qua e là una ballerina, una fioraia alla moda, una etèra in abito smagliante e provocante. Poi la quarta, la quinta, borghesia quadrata, profonda, colori atroci, fiori enormi, guanti feroci, dodici persone in ogni palchetto, bimbi, servi, nutrici, nonne, zii, cugini, assiepati, rovesciati, gli uni sugli altri, col viso rosso dal piacere e gli occhi sbalorditi. In alto, in altissimo, nel lubbione, il popolino melomane, i soldati, gli studenti. La sala era bellissima. Il suo oro appannato, quasi bruno, lo stucco ombrato, senza fulgore, il rosso cupo delle tappezzerie, tutto il fondo del quadro di un gusto così sobrio, così severo, così artistico, faceva maggiormente risaltare la vita di quella folla multicolore, di quella platea a grandi macchie nere interrotta da un abito roseo o giallo. Nei palchi era uno sfolgorìo di gemme, di occhi, di spalle opulente, di braccia bianche e nude. La seconda fila era splendida di colori, delicati, vivaci, di riflessi serici. Una leggiera nebbia, un polverìo rosso, si sollevava nella sala. I ventagli si agitavano come ali bianche e dorate. Nell’aria si appesantivano vaghi sentori di fiori, di polveri profumate, di belle donne scollacciate, di aliti innamorati ed accesi. L’ambiente si viziava; i novellini ci respiravano a fatica, provavano uno stordimento alla testa, un languore stupefacente. Ma i pallidi fiori della nobiltà vi si rialzavano più rigogliosi, quasi che la luce del gas fosse il loro sole, quasi che quell’aria li ristorasse. Le guancie smorte delle giovanette pallide si coloravano lievemente: gli occhi già stanchi di tanti spettacoli, dalla palpebra plumbea, si accendevano d'un raggio: le spalle bianche delle signore si marmorizzavano di roseo, come se ondate di sangue salissero a dar loro l’aspetto di un frutto fragrante e maturo. Dei busti perfetti e modellati nelle corazze attillatissime, si avanzavano sul davanti del palco, con un’audacia tranquilla e sicura. Il rossetto di certi volti diventava quasi delicato, quasi naturale. Sotto il fuoco degli sguardi desiderosi che passavano attraverso le lenti degli occhialetti dalla platea, le gole rotonde e piene rimanevano immobili e provocanti. Certi sapienti sorrisi schiudevano le conscie labbra. Certe treccie si abbandonavano, quasi scomposte, sopra un seno senza gioielli. Certi capelli neri si rialzavano energici sopra una testa giunonica, denudando una nuca forte, dove segnavano una riga nera come l’inchiostro.

Beatrice Sangiorgio era nel suo palchetto con suo zio il conte Domenico. Il vecchio galante, nella tenuta di rigore, con la lente d’oro, le basette bianche all’inglese, si ringalluzziva nella compagnia di una bellissima donna come sua nipote. Invero la duchessa era meravigliosa quella sera. Portava il suo abito di raso bianco, quello delle nozze, che non aveva mai più messo e che aveva indossato quella sera, per uno strano capriccio. Il busto era basso e semplicissimo, ornato alla scollatura da una lieve trina bianca. Due dita di maniche solamente. Ma dalla gola sul petto, sulle spalle, scendeva una riviera di brillanti; una pioggia lucida in tanti fili vividi folgoranti; sul capo un diadema a margherite di brillanti, come un’aureola; alle braccia, ai polsi, i braccialetti di brillanti come una zona di luce; la mano sinistra, nuda, fidiaca, aveva le dita piene zeppe di anelli gemmati e luminosi. Era un abbigliamento, un fuoco liquido, uno sfolgorìo. Come ella si moveva, dei fasci di luce partivano da lei. In mezzo a tanto fulgore la carnagione pareva trasparente, di un luccicore latteo d’opale; gli occhi raggiavano, con uno sguardo fino fino; le labbra scarlatte si schiudevano come la polpa rossa di un fiore carnoso. I molti gioielli non la offuscavano, nè essa li vinceva; non vi era lotta fra loro. La luce della bellezza si fondeva con quella delle gemme.

Era giunta alle nove. Appena seduta al suo posto, girando lo sguardo intorno, era stata salutata ed aveva salutato. Tutte le sue amiche erano colà, in giro. Amalia Cantelmo, in lilà — colore di rimorso — coi fiori rosa, e con Roberto Giordano che aveva ricominciato a farle la corte. Fanny Aldemoresco, in rosso arrabbiato, con un aspetto serio, accanto a sua suocera che era con lei; la Giansante, in stoffa turca, col fazzoletto turco sui capelli; la Filomarino, scollacciata fino alla follia, con la sua grand’aria innocente e superba di donna tizianesca; la San Demetrio, vecchia, disfatta, con le spalle curve e rugose, le braccia molto fresche; la Massanzio in un palchetto di Corte; le signorine Mormile, dall’aria candida e stupida; ed altre ed altre ancora. In un palco, sola, vestita semplicemente di raso nero, con preziosi merletti bianchi, busto chiuso al collo, un abbigliamento sobrio e ricco, Lalla D’Aragona, pallida, gli occhi incavati, labbro stirato da uno spasimo nervoso. Lalla si teneva un po’ indietro, nella penombra. Come vide comparire Beatrice, rimase incantata a guardarla; quella luce l’affascinava. Qualcuno che si nascondeva nel fondo del palco, le dovette chiedere qualche cosa, perchè ella rispose senza volgere il capo. Beatrice vedeva tutto questo: più che vederlo lo sentiva. Ella ricercò suo marito nelle poltrone di orchestra: vi era suo padre, tutti gli amici, tutte le conoscenze, Marcello no. Tornò a guardare nel palco di Lalla e le parve scorgere, molto in fondo, il profilo di suo marito. La sorte dunque li riuniva un’altra volta come sempre.

Allora, con un’energia virile, riuscì a conservar sulle labbra il suo sorriso, riuscì a rimanere serena, raggiante nei suoi brillanti. Coperta di gioie, nel trionfo della sua bellezza, nel suo abito candido, ella conservò lo stesso volto, mentre dentro aveva il tumulto della battaglia. Prendeva e lasciava l’occhialino, si faceva vento, si volgeva con una grazia mirabile; discorreva con suo zio, nell’intervallo aveva ricevuto due o tre visite, conversando con tutti, amabilmente, al suo solito. S’interessava anche alla rappresentazione, alla faccia color di rame della prima donna. Ogni tanto, quando il suo sguardo s’incontrava con quello di un’amica vi era uno scambio di sorrisi, un piccolo cenno amichevole della testa. Aveva detto a Checchino Filomarino che San Carlo aveva in quella sera un bell’aspetto; aveva chiesto al conte Màrgari se i teatri dei suoi tempi riunivano tante belle donne come quelli d’adesso; ed il conte le aveva risposto galantemente di no. Poi s’era rivolta di nuovo alla scena. Tutto questo sentendo fisso su di sè lo sguardo di Lalla, sguardo assiduo, immobile, ardente; supponendo, dietro Lalla, suo marito, attirato fatalmente anche lui a guardarla. Ella aveva il coraggio di non voltarsi da quella parte. Immaginava che Lalla, che Marcello dovessero molto soffrire, argomentando da quello che soffriva lei. Già erano condannati al medesimo triplice dolore. Principiava ad avere paura da capo.

  — Non possiamo rimanere insieme. Essi fuggiranno... — ritornava a pensare.

Le pareva di essere la più impotente, la più passiva delle tre persone che formavano quello strano nodo. Forse stava in lei lo spezzarlo; forse avrebbe dovuto fare atto di volontà. Le venne un desiderio forte di combattere, di agire, dovesse anche nascerne uno scandalo. La sua ragione si offuscava. Perdeva il sentimento della realtà. Dimenticava di essere innanzi al pubblico. Si voltò con tutta la persona, e determinatamente si rivolse verso il palchetto di Lalla, sbarrandovi i suoi grandi occhi: la vide scuotersi, farsi indietro come si arrestasse davanti ad un pericolo. Si salutarono col capo. Beatrice sorrideva, ostinatamente, con una espressione muta di tutta la fisonomia. Cercava di discernere Marcello, ma lo vedeva confusamente. Trovava un piacere cattivo in quello che faceva. Si straziava il cuore in quei momenti, ma sapeva che il contraccolpo poteva scorgerlo sul volto di Lalla.

— Voglio vedere se giungo a far comparire Marcello — disse fra sè, con quel calcolo freddo e paradossatico di chi perde il giudizio.

Continuava a guardare là. La mano di Lalla, abbandonata in grembo, stringeva convulsivamente il fazzoletto.

— Toh! come si guardano la D’Aragona e la Sangiorgio — disse Mimì D’Alemagna ad Alessandro Aldemoresco, nelle poltrone.

— Infatti la cosa è graziosissima — rispose l’altro.

— E si sorridono. Non c’è che dire; sono due donnine di spirito.

— Preferisco la Sangiorgio.

— Anch’io questa sera.

— Vedi, vedi, nel palchetto della D’Aragona c’è Marcello. È comparso ora sul davanti.

— È il colmo, caro Mimì; vi è dell’ardimento.

— Bah! non accadrà nulla. Marcello si ritira.


La porta del palchetto di Beatrice si socchiuse; Marcello entrò, salutò la moglie. Ma non sedette, nè posò il cappello.

— Eccoti finalmente! — esclamò lo zio. — Dove ti eri ficcato?

— Laggiù... — rispose egli facendo un cenno vago con la mano.

— Nelle poltrone?

— No, no. Ti diverti tu, Beatrice?

— Moltissimo — rispose lei, fissandolo bene. — E tu?

— Moltissimo. Hai troppi brillanti stasera.

— Ti pare? Non li ho neppure messi tutti.

— Fanno male alla vista — disse Marcello, con voce stanca, quasi veramente fosse affaticato per averli guardati.

— Hai torto, caro nipote. L’acconciatura di Beatrice è bellissima; tutti sono stati dello stesso parere.

— È il mio abito da sposa — disse lei, lasciando cadere con noncuranza le sue parole.

Marcello aggrottò le sopracciglia. L’impressione aveva dovuto esser penosa.

— Perchè l’hai indossato? Vai a nozze forse questa sera?

Ella non parve aver inteso.

— Perchè non siedi? — gli chiese invece.

— Non voglio.

— Sì, sì, siedi — confermò suo zio. — Io esco un momento a prendere una boccata d’aria, a fumare un sigaro. Beatrice non può rimaner sola.

E gli cedette il posto di fronte a Beatrice. Marcello fu costretto a sedervisi. Non era che un semplice cangiamento di scena. Adesso toccava a Lalla vedere Marcello accanto a sua moglie. I due rimanevano in silenzio.

— Dite qualche cosa dunque, Beatrice. Ci guardano. Non possiamo fare da statuette di caminetto, che si contemplano senza parlare. Siamo ridicoli, in fede mia.

— Io no, duca — rispose ella, freddamente, facendogli intendere quanto la offendesse.

— Hai ragione. Scusami. Sono ammalato questa sera. Se venisse zio Domenico, andrei via.

— Vuoi che andiamo?

— Dove?

— A casa.

— Quale casa?

— La casa nostra.

— Ah!... la casa nostra. No.

Tacquero di nuovo. Marcello era irrequietissimo, tormentava i suoi mustacchi.

— Questo teatro è opprimente — mormorò — il mondo è opprimente, il cielo è opprimente...

A lei le parole correvano sulle labbra, ma le labbra non osavano schiudersi. Ogni minuto che volava via, le pareva un tesoro perduto. Un’idea le tormentava la mente: «se non parlo, egli parte questa sera». Ma non poteva parlare, Marcello era così lontano, così lontano da lei! Quella donna glielo aveva tolto così intieramente!

— Me ne vado — disse egli improvvisamente, alzandosi.

— Non ritorni più?

— Non credo. C’è zio Domenico che ti accompagna.

— A che ora vieni a casa?

— Non so. Addio.

Ed uscì. Lei impallidì come la cera. Le aveva detto addio, non a rivederci. Partiva, era chiaro. Nè ella aveva avuto il coraggio di dirgli la parola: rimani. Comprese che ritornava da Lalla, quando vide che costei volgeva il capo verso l’uscio; comprese che le s’era seduto alle spalle, e che le parlava a lungo. Doveva dirle sicuramente qualche cosa di molto importante, perchè Lalla ascoltava con attenzione. Qualche volta approvava lievemente col capo, qualche volta faceva un cenno di diniego.

— Partiranno, partiranno — diceva fra sè Beatrice, palpitando sotto i suoi brillanti.

— Avete osservato, Giordano? — diceva nel suo palchetto, Amalia Cantelmo al suo corteggiatore. — Sangiorgio è stato prima dalla D’Aragona, poi è andato da sua moglie. Che ve ne pare di questa partita in tre?

— Una commedia mediocre.

— Non è drammatica?

— Così, così.

— Siete incontentabile, Giordano.

— No, signora — rispose lui, guardandola con intenzione.

Dalla platea s’impose silenzio. Cominciavano le tanto aspettate sedici battute, che furono coronate da un fragoroso applauso. Poco dopo la bruna Selika moriva d’amore e di gelosia per Ines la spagnuola, sotto il tetro Manzanillo.


Nelle scale si riversava la folla da tutte le parti, da tutti gli anditi, da tutti i corridoi. Gli eleganti delle poltrone erano usciti i primi, anche prima che lo spettacolo terminasse, disturbando chi voleva udire fino all’ultima nota; erano usciti i primi per conquistare il loro posto sullo scalone, in due file, in due siepi di teste arricciate e odorose, di petti candidi tirati a lucido, di marsine nere dallo scollo a cuore. Era il grande momento della partenza, il trionfo degli innamorati, delle bellezzine, degli sfaccendati. Il pubblico delle file superiori scendeva impaziente, preso dal disgusto del troppo divertimento, con la testa intronata, le gambe aggranchite, una stanchezza sul volto. Le ragazze borghesi avevano gli occhi pieni di visioni, per tutte le fantasmagorie vedute, e già fantasticavano di volere anch’esse amare liricamente e selvaggiamente come Selika; mentre la gente distinta veniva via pian piano, per nulla impressionata. Le signore lasciavano per terra gli strascichi, per tenere a distanza chi veniva dietro. I veli vaporosi coprivano le teste bionde e brune, le pelliccie coprivano i busti scollacciati; ma sulle guancie rimaneva ancora una traccia del calore fittizio del teatro; gli occhi erano ancora pieni di seduzione e di promesse; i fiori si appassivano, qualche foglia se ne staccava e cadeva. Qualche parolina veniva scambiata, passando. Una mano era stata presa nella folla e stretta. I saluti si incrociavano. Un ventaglio era caduto, per caso, ed era stato raccolto. Una damigella aveva perduto un guanto ed un giovanotto, naturalmente, lo aveva ritrovato. Per lo scalone di destra, scendendo al braccio di suo zio, Beatrice aveva visto suo marito discendere da quello di sinistra, dando il braccio a Lalla D’Aragona.

La vedova era ravvolta in un grande mantello di pelliccia nera, il capo avvolto in uno scialle di trina nera; si appoggiava a Marcello, abbandonandosi, quasi lasciandosi trascinare, ma in realtà trascinandolo. Le due mani erano attaccate al braccio, come un nodo. Ella lo guardava di sotto in sopra, parlandogli a fior di labbro, con la sua aria di uccellino nero ammalato. Egli l’ascoltava ad occhi bassi.

— Lo porta via — mormorò Beatrice.

— Che dici? — le chiese lo zio.

— Nulla; vorrei fermarmi per raccogliere la coda; me la calpestano.

Ma in verità ella non voleva incontrarsi a’ piedi dello scalone con suo marito e Lalla. Fu impossibile però arrestarsi. La gente di dietro spingeva e già le due coppie si trovarono di fronte.

— Buona sera, signora duchessa.

— Buona sera, signora contessa.

— Una piacevole serata, nevvero?

— Piacevolissima; buona notte.

— Buona notte.

E si lasciarono. Beatrice passò nello stretto e disadatto foyer ad aspettare la sua vettura. Altre signore erano là. La circondarono, facendole dei complimenti sulle sue gioie. Ella soffocata, rispondeva col capo, senza parlare.

Nella carrozza, nel breve tragitto sino a Monte di Dio, il conte Domenico le chiese:

— Perchè Marcello va con la D’Aragona?

— Dicono che sia la sua amante, zio — rispose ella freddamente.

— Diamine! non sarà vero. Con una moglie come te!

— La gente è maligna, zio.

A casa perdette un quarto d’ora per liberarsi di suo zio, della Giovannina. S’impazientiva; voleva rimanere sola. Non sarebbe tornato Marcello a casa, neppure per un momento? Questa speranza ancora la confortava. Che avrebbe fatto allora? Non lo sapeva. Nell’impazienza, aveva buttato in un canto il mantello, ma non aveva pensato a svestirsi. I suoi brillanti luccicavano ancora nella penombra. Nessun rumore nella camera accanto; era vuota. Forse Marcello non sarebbe più venuto. Forse a’ piedi dello scalone del San Carlo era l’ultimo istante in cui lo aveva visto. Oh, Dio! come era possibile questo? Andava su e giù per la camera, trascinandosi dietro la coda del suo abito bianco come un lenzuolo. Avesse almeno saputo dove egli era in quel momento! Da Lalla? Se ne andavano dunque, se ne andavano? Ed egli non sarebbe ritornato un momento? Non aveva dimenticato nulla? Una lettera, un portafogli, un gioiello?

Un rumore improvviso: egli tornava. Lodato Iddio, egli tornava. Sarebbe stato assurdo che non tornasse. Accendeva il lume, girava per la camera... ma a Beatrice non bastava più l’origliare, non la soddisfaceva. Tolse la chiave e guardò pel buco della serratura. Marcello apriva il tiretto della scrivanietta e ne cavava le lettere di Amalia. Poi passò nella parte della camera che Beatrice non vedeva; là v’era il caminetto.

— Brucia le lettere — pensò.

Diffatti un sottile odore di carta arsa si sentì. Dopo cinque minuti, Marcello ricomparve. Cercava qualche cosa sulla mensola dello specchio.

— Vuole il suo anello, forse...

Dopo aver ricercato inutilmente, egli venne alla sua scrivania. Beatrice lo vedeva benissimo. Egli apriva i cassetti, leggeva le carte, le lacerava. Prese un portafogli e lo mise in tasca. Poi prese un foglietto da scrivere. Ma non scrisse subito; rimase con la penna sospesa. Ogni tanto volgeva il capo verso la porta. Poi la penna volò veloce sulla carta.

— Scrive a me...

La chiave girò nella serratura e Beatrice comparve dinanzi a Marcello, meravigliato. Ella, con molta calma, prese una seggiola e si assise presso la scrivania; Marcello, col capo appoggiato alla mano, la guardava.

— Tu parti? — ella chiese.

Marcello non pensò neppure un momento a negare.

— Sì, parto.

— Quando?

— Fra poche ore.

— Dove vai?

— Non so. Lontano...

— Ritorni presto?

— Non so...

Un silenzio. Ella si guardò attorno, come distratta.

— Perchè parti?

— Qui la vita è divenuta insoffribile.

— È vero...

Poi ella esitò un minuto secondo. Era proprio decisa di giungere sino al fondo, ma le parole le bruciavano le labbra.

— Parti con lei?

— Con lei — affermò Marcello, chinando il capo, come rassegnato.

— Devi amarla molto.

— Oh! no — esclamò, con un supremo accento di verità. — No, io l’odio.

— Io non comprendo — osservò ella lentamente, quasi interrogasse sè stessa.

— Naturalmente. Che sai tu di amore o di odio?

— Nulla — disse lei sottovoce.

— Qui si muore giorno per giorno — riprese Marcello, senza dirigersi alla moglie, come se spiegasse a sè medesimo le ragioni della sua partenza — qui non vi è via di salvazione. E mentre io mi cruccio, lei si strugge... questa sera mi ha supplicato di condurla via, se non voleva la sua morte... ella è molto infelice...

— Giacchè è così, fate bene a partire. Il vostro piano è salutare. Altrove ritroverete la pace. Va bene. Ma avete provveduto a tutto? Siete sicuri di non lasciare nulla, di non dimenticare nulla?

— Certamente.

— Proprio sicuri?

— Proprio sicuri. Chi o che cosa abbiamo potuto dimenticare?

— Ma a chi scrivevi tu dunque? — domandò ella, ergendosi dinanzi a lui.

— ... a te — balbettò Marcello.

— Vedi bene — rispose Beatrice, ricadendo sulla sedia, con un’aria di trionfo — vedi bene che avevi dimenticato qualcuno.

Marcello le rivolse un’occhiata smarrita. Lo riprendeva la fatalità di quel legame in tre, che invano tentava spezzare.

— Che vuoi tu dire? — mormorò.

— Se voi partite, io rimango, Marcello.

— Ebbene?

— Sono tua moglie. Non te ne ricordi più?

— È vero, tu porti il mio nome. E poi?

— Questa partenza spezza tutti i nostri legami. Tu abbandoni volontariamente tua moglie, la duchessa di Sangiorgio. Tu distruggi, senza esitare, la tua famiglia, la tua casa. Tu offendi in me il tuo onore ed il tuo nome. Quanto può esser sacro ad un uomo, ad un gentiluomo, tu lo violi. Io mi domando se tutto ciò è onesto,

— ... prosegui.

— Che farò io? Che risponderò io a mio padre, a tuo zio, ai tuoi amici, alle mie amiche? Che dirò alla gente che mi domanderà? Come giustificherò l’offesa che mi fai? Lascerò che indegni sospetti si aggravino su me, per salvare te? Io mi domando, io ti domando se questo è giusto.

— Ah! tu vuoi saperlo? Ah! tu sei mia moglie? Ebbene, te lo dirò io. Io ti risponderò. Quello che ti scrivevo, te lo dirò. Parto per te. Sei tu che mi rendi così profondamente infelice; tu hai infranto il mio cuore tu hai desolata la mia vita; tu sei la fonte di ogni mio dolore. Quanta felicità può godere un uomo, tu me l’avresti data col tuo amore. M’hai respinto. Ebbene, ti amo come allora. Ti amo e parto. Ti fuggo. Parto con una donna che odio, che m’odia, legati dall’odio. Non so dove andrò, non so che farò. Ma purchè io non ti vegga, purchè io sia lontano da te, tutto accetto. Tu, mia moglie? Ah! tu firmi col mio nome, tu abiti nel mio palazzo, il mondo ti crede mia moglie? Non la sei. Mi sei estranea. Non ti conosco.

E rimase fiero, sdegnato, senza volgere il capo dalla parte di lei.

— Sicchè tu partirai? — chiese Beatrice, brevemente, con voce secca.

— Partirò.

— Se ti prego pel tuo onore, pel tuo nome, Marcello, rimani?

— Che m’importa di ciò? Era per me tutto, l’amore.

— Se ti scongiuro per la memoria di tua madre, per quella dello stesso tuo amore, rimani?

— Desisti. Io debbo partire.

— Marcello, io non voglio che tu parta — disse ella, rizzandosi in piedi.

— T’inganni, io partirò — rispose lui, imitandola.

— Io non lo voglio — ripetette Beatrice, prendendogli le mani, parlandogli nel volto.

— Non toccarmi, non guardarmi così!

— Te ne supplico, non andartene. Se parti, ti seguo. Dovunque vai, vengo. T’amo, non lo comprendi? Sei mio, non ti lascio, non ti cedo.

E gli si avvinghiò al collo, con una stretta frenetica. Marcello le riversò il capo, la guardò negli occhi, ansiosamente, come se là solo fosse l’immensa verità.

— Non lo vedi che t’amo? — replicò ella affannosamente. — Sono io la tua Beatrice, la tua sposa; ho la mia veste bianca. T’amo.

— O mio amore, o mia sposa, o mia donna adorata! — disse lui, prendendola sul suo seno.





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