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Parte Sesta Parte Sesta - II


I.


D
’un colpo, il passato era scomparso. S’era inabissato senza lasciare traccia. Beatrice e Marcello vivevano in un raggio di sole, circonfusi di luce; un raggio di sole che penetrava nel cuore, portandovi l’ardore, risvegliandovi il tumulto della vita; un raggio di sole che riscaldava ed abbruciava il sangue ricco della gioventù; un raggio di sole che ricercava e carezzava i nervi, dando ad essi sensazioni calde, lucide, fulgide. Chiudevano gli occhi, sorridenti, abbagliati; ma attraverso le palpebre, vedevano sempre quella grande luce giallo-rosea. Non la vedevano solamente: la respiravano nell’aria vivificata, leggera, benefica: ne odoravano il profumo che solleticava l’olfatto; ne sentivano il sapore pungente e delizioso sulle labbra; ne provavano il calore sulla pelle, nei capelli, sulle palme brucianti delle mani. Avevano nel medesimo tempo la sensazione di un grande rinnovellamento e di un grande struggimento, come se quella fiamma li facesse rivivere della loro consumazione. All’alba delle loro notti d’amore, all’imbrunire delle loro giornate d’amore, taciti, pallidi, col cuore sfinito, la volontà abbattuta, le labbra arse, disseccate dai baci, in un lento giro del pensiero, essi percepivano una sola idea, un sol desiderio strano, vagante, mormorante: morire... morire... Poi, in quell’accasciamento, in quella mollezza, in quell’aspirazione indistinta ad un riposo lungo, eterno, l’anima si quietava, riprendeva alla inesausta sorgente la sua forza e la sua freschezza, si ritemprava, per risorgere giovine ed energica col bisogno prepotente di amare ancora.

Del cattivo passato, nulla. Erano entrati nella festa immensa delle loro nozze, giovani, nuovi, con la sola esuberante coscienza di amare. Un amore che aveva goduto solitariamente le sue albe grige, un po’ fredde, che appena si coloravano di roseo, le sue incipienze delicate, gentili, i suoi turbamenti primaverili, la sua vita nascente; un amore che aveva atteso, accumulandosi e profondandosi, il suo meriggio appassionato, quando la sensazione e l’espressione non si possono staccare più, quando la forma e la materia dell’amore si compenetrano, quando realtà e idealità si fondono in una sola manifestazione. All’alba argentina non pensavano più, si trovavano nell’oro biondo del mezzogiorno. E non era che un balbettìo incomposto, interrotto, profondo della passione che cresciuta, cresciuta, soffocata, soffocata, trova malagevolmente la via dell’espansione e si contorce in isforzi prodigiosi, tutti interni, e pare voglia spezzare violentemente il debole involucro delle fibre: simile al cupo brontolìo della lava vulcanica che scuote i fianchi del monte in convulsioni orribili, fino a che possa sgorgare da tutte le parti in ruscelli fiammeggianti che incendiano la montagna, l’aria ed il cielo. Essi non sapevano, non potevano in principio trovare quell’altissima forma che esprimesse la concentrazione del loro amore; nè parola, nè grido, nè singhiozzo la poteva rendere intera. Non dicevano neppure: t’amo; quella parola per cui si sfoga, si espande di fuori, diminuisce e si dilegua l’amore. Neppure uno ne chiedeva all’altro. Non erano ancora divisi in due, ognuno amando per proprio conto, con le differenti inclinazioni, dominati dalle influenze speciali. Al contrario rimanevano uniti da una forza unica, assorbito l’individuo, senza conoscenza di nome, di tempo, di spazio, nella sublime inutilità di queste cose.


Ma alla vertigine degli altissimi pinnacoli, alla temperatura corruscante, dove tutto arde, alla nota estrema della gamma dove tutto vibra, al termine insostenibile della passione dove tutto crolla, non resiste che brevemente la natura umana. L’anima ardente, vibrante, vi s’infrangerebbe, ed allora quella parte d’amore che acuirebbe la sofferenza di un cuore sino alla morte, trabocca, si espande, torna nell’aria, nel sole, nella natura, donde era venuta. Così Beatrice e Marcello. Parve veramente ad essi di morire in uno spasimo dilettoso, in quella prima settimana del loro amore; parve ad essi di cadere, in giri lenti e voluttuosi, da altezze incommensurabili, senza mai toccare il fondo. Non si vedevano, non si riconoscevano più, tanto era completa l’immedesimazione. Ma un momento si guardarono con una muta e fitta interrogazione, e quando essi ritrovarono la prima parola del loro amore, un grido di gioia scoppiò, una felicità più larga, più viva, più duratura incominciò per essi. Si fissavano, beati, come se avessero trovata la prima perla di un tesoro inesauribile. Con una sorpresa crescente che li stordiva di gioia, pensavano alle gemme splendide che esistevano per essi. D’un tratto l’orizzonte si spalancava ed essi ne diventavano il centro irradiatore; spaziavano con lo sguardo in una vastità ridente. Riappariva la nozione del tempo, dello spazio, della vita quotidiana, ma perché ognuna di queste cose servisse all’amore, riflettesse l’amore, fosse impregnata d’amore. Poi si riconoscevano, si ritrovavano con un diletto infinito; l’amore non faceva più scomparire la persona amata. Niente che a chiamarsi per nome, nelle intonazioni languide, nei soffii di voce che sembrano baci, nei baci che sembrano parole, provavano un novello gaudio, il preludio soave di quelli che li aspettavano. Si facevano cauti, avari, innamorati, dinanzi al loro tesoro. Morire, morire! Perché avevano voluto morire? Perché aver voluto condensare l’amore in un sol giorno, in una sola ora, per morirne soffocati? Quella fiamma viva che scorreva per le vene, che lambiva la pelle, che precipitava le pulsazioni del cuore, non era morte, era colmo di vita, era gioventù ed amore. Quell’incendio dolce non distruggeva, vivificava. Per intuito si sentivano dinanzi ad una grande rivelazione; ma rimanevano ancora deliziosamente ignoranti, non volendo indagarla per serbarsi la contentezza di nuove meraviglie; comprendevano, chiamandosi sommessamente, l’alta ragione dell’esistenza. Per amare, bisogna amar bene, amar sempre; trovare tutte le forme, tutte le apparenze, tutte le parvenze dell’amore; amarsi internamente, nel segreto del cuore, pienamente, abbruciando l’olibano profumato dell’affetto; amarsi esternamente, nella piena luce, nell’azzurro della terra o nel nero del cielo; prendere l’amore da tutto e ridonarlo a tutto; essere l’individuo, l’anima solitaria ed eletta, lo spirito schiavo e superiore; ed intanto essere una particella della circolazione umana, svolgersi, sdoppiarsi, fare la vita, creare. Quando questa verità lampeggiava innanzi ad essi, essi tremavano di gioia, confusi in una dolcezza infinita, in un piacere taciturno, poichè il loro amore era tanta parte dell’immenso amore che anima il mondo.


Il triste passato era sparito. Eppure era stata l’epoca travagliata e dolorosa in cui aveva gemuto lo spirito, combattente le sue lotte disperate; l’epoca in cui la materia aveva avuto le sue mortificazioni, battuta, tormentata, schiacciata dall’anima padrona. Erano le mattinate fangose, sporche della vita, quando la noia mortale prende il color bigio, l’odore nauseante, la pesantezza greve della nebbia autunnale; quando il sole diventa una lanterna fumicante, a metà spenta, i fiori appassiscono, le frutta imputridiscono, le guance delle donne sembrano cenere, la mano degli uomini pare di sughero, la città putisce di acquavite e la campagna di siero. Erano state le ore livide e rabbiose della vita in cui si debbono celare i drammi tumultuosi, nelle apparenze semplici e gaie di una esistenza tranquilla; allora le lagrime bruciano le labbra, bruciano il sangue, soffocano la gola, arroventano le palpebre, ma non vengono fuori; i singhiozzi straziano il petto, senza sollevarlo. Erano state le giornate lunghe, stagnanti, verdastre, della gelosia nascosta, che nella profonda palude del cuore fermenta e fa inaridire tutte le belle e generose fonti del bene; quando dalle piegoline riposte, dai meandri finissimi, dai piccolissimi recessi si distilla lentamente, ma continuamente, una gocciolina di fiele che si aggiunge all’altra, all’altra, senza posa; quando tutti i segreti istinti di malvagità si sviluppano, s’ingrandiscono e mormorano alla mente smarrita i consigli feroci. Erano state le notti nere, cupe, senza un raggio, senza un barlume, in una continuità disperata di ombra e di silenzio, quando parrebbe amabile la luce di un villaggio che abbrucia o il fracasso di una valanga che precipita, pur di spezzare la eterna atonia del buio e del silenzio; allora l’anima si sprofonda nell’immobile annientamento, sentendo aggravarsi sul capo il cielo, e tutte le nere potenze del male crearle attorno quella notte. Erano state le giornate terribili, tempestose, con tutti gli elementi della vita fuor di posto, sconvolti; quando la noia, trascinata lungamente, il tormento sottile, la rabbia sorda, la collera celata, la triste gelosia, il dolore compresso, la disperazione subìta tacitamente, si sfogano, si scatenano in una bufera spaventosa. Tutto questo, che è pure il retaggio dell’amore, era stato nel passato. Solitariamente, divisi, inconsci l’uno dell’altro, avevano sopportato la loro sofferenza, senza che alcuna gioia venisse a confortarli; solitariamente avevano resistito all’urto fiero a cui molti cedono o soccombono. Ed usciti salvi dalla battaglia, li attendeva un premio inapprezzabile, più unico che raro: avere esaurito la fatale parte di dolore che è nell’amore; avere dinanzi, senza ombre, senza amarezze, senza tempeste, la parte pura di gioia che è nell’amore.


Si ricordavano talvolta di essersi visti altrove, confusamente. Sorridevano di quelle apparizioni lontane, di quei fantasmi evanescenti. Pareva a loro non aver vissuto in quel tempo che in una aspettazione paziente, sentendo maturare in sé stessi la potenza dell’evocazione; erano stati simili a bambini che si sentono crescere ed attendono il momento in cui vivranno completamente. Forse in quel tempo avevano amato, ma difettosamente, incapaci, ancora indegni di amare. Lentamente le ore erano cadute sulle ore, i giorni sui giorni, i mesi sui mesi, con un lavorìo di eliminazione e di assimilazione, togliendo via tutte le cose estranee all’amore, accogliendo tutte quelle che gli erano necessarie. Gli spiriti si erano forbiti, temprati in quell’attesa, in quel lavorìo: avevano accumulato e preparato le loro forze; ogni tanto, in un miraggio rapidissimo, era passata la cara figura ancora velata e dietro di essa i sorrisi biondi, i fiori in pioggia, le risa trillate, la ridda dei colori, gli sbuffi dei profumi, i baci sonanti: una visione che faceva fremere di ansietà quegli spiriti insaziati, che si provavano a rievocarla in sforzi energici ed inutili. Il tempo non era giunto ancora. Di nuovo, ore, giorni e mesi; poi, ad un momento solo, i due amanti si trovavano insieme, vivi, reali, abbracciati. Ebbene, non sapevano dire: come t’ho amato, cuor mio; ma sapevano dire: come ti amo. Il sogno, il desiderio, l’aspirazione, per quanto lunghi, per quanto straordinari, non valevano un sol minuto del fulgido presente; la realtà era mille volte superiore alla loro splendida visione. Ed è per questo che quei ricordi impallidivano, impallidivano sempre più, i contorni diventavano sempre più indefiniti ‒ e da capo pareva ad essi essersi visti una volta in un sogno, in una nuvola, in un velame di nebbia. Mentre viveva molto latente il ricordo in essi, si prendevano come persone nuove, con le mille curiosità ardenti dell’amore, con le scoperte che fanno gittare un piccolo grido di gioia, con le invenzioni delicate, con le deliziose e fresche impressioni di un amore nuovo. Ogni giorno si conoscevano meglio, si apprezzavano di più, si adoravano maggiormente; ogni giorno la rivelazione cangiava, si completava, assumeva forme diverse, li immergeva in uno stato di stupore soddisfatto. Si guardavano negli occhi per leggersi nel pensiero ‒ e le novelle che vi leggevano, erano meravigliose e stupende, senza fine, piene di sorriso e di luce.


Poi nel mondo che li circondava, tutto era pronto per il loro amore, nulla si opponeva, tutto cedeva, tutto si metteva all’unisono, tutto anzi congiurava ad aiutare, a perfezionare la loro unione. Certo ha le sue aspre voluttà l’amore in contrasto con la miseria, con le infermità, con l’ambizione delusa, con le durezze della vita; ma quale profonda e completa voluttà l’amore senza contrasto alcuno! Avere il proprio nido nei contorni lucidi del raso imbottito come l’interno di una scatola di confetti, nella lana morbida dei tappeti dove il piede si affonda ed il rumore del passo si affoga, nelle forme arrotondate e seduttrici delle poltroncine che vi tendono le braccia con un invito quieto e taciturno; fare del talamo un altare dove il luccicore dell’oro si appanna, dove la finezza del legno odoroso è vinta dalla nobiltà del lavoro, un altare bianco, nella mollezza delle piume, nelle tele trasparenti, nei merletti fioccosi, nelle nuvole della mussola; vivere in quel nido, nella mitezza dei colori, nella calma addormentatrice del lusso, nella sicurezza cosciente della ricchezza, nella quiete delle porte intarsiate, che lasciano fuori il freddo, la negra cura, il chiasso della gente, nell’ombra delle cortine che escludono la via; trovare la donna che s'ama nei profumi che macerano sottilmente la pelle e le danno un fascino irresistibile e vertiginoso, nelle batiste ricamate come una spuma, nei merletti lievi come un soffio, nella lana carezzosa e lusinghiera, nella seta dal fruscìo solleticante, dall’odore leggermente inebbriante, coi gioielli che aggiungono un punto fulgido alla sua persona; trovarla così, sempre bella, ma sempre nuovamente bella, con le mille seduzioni che aggiunge il lusso, nel doppio trionfo della bellezza naturale che si completa con quella artificiale, nella ricercatezza, nella delicatezza più alta dell’eleganza; e poter vivere inseparati, in tutte le ore, senza altri doveri, altri obblighi, capovolgendo l’ordine della giornata, sconvolgendo le regole convenzionali, ridendo delle difficoltà vinte con quella grande forza che è il danaro; anzi buttandolo via per capriccio, per follìa, per soddisfare un piccolo desiderio, semplicemente per vedere la bella pioggia bionda delle monete d’oro, dal tintinnìo squillante, o per godersi la bella fiammata delle carte bianche e rosse che mandano un lieve fumo bianchiccio; consolati, se una parte di quel denaro possa procurare anche un sorriso all’amore. Godere del sole che riscalda le giornate invernali, della pioggia che costringe ai pensieri dolci, ai baci piccini, alle minuterie dell’amore; del cielo azzurro o del cielo bianco, dei fiori freschi che imbalsamano, o dei fiori di serra che snervano, della solitudine amabile, o della compagnia che fa anelare di nuovo a render più bella la solitudine, del giorno breve o della notte breve, della grande via dove ride la luce o del piccolo salotto ove la luce muore; godere di tutto, mettere in tutto l’impronta dell’amore, mordere avidamente coi denti bianchi della salute, con l’appetito forte della gioventù, nel frutto maturo e magnifico della vita.

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