< Cuore infermo < Parte Sesta
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Parte Sesta - I Parte Sesta - III


II.


Marcello, seduto accanto a sua moglie, leggeva ad alta voce; ella lo ascoltava, distesa sulla poltrona, con le belle braccia incrociate dietro il capo, mandandogli ogni tanto un sorriso. Qualche volta la lettura si interrompeva, un piccolo giro di conversazione si annodava.

— Che bel sole, Beatrice! Andiamo fuori?

— No, no, caro, restiamo — rispondeva ella, con un senso di languidezza beata. — Leggi dunque.

E la lettura ricominciava. Ma dopo un momento:

— Amore, sei forse stanco di leggere?

— Proprio, proprio ne sono stanco — e si chinava a baciarla nel collo, dietro l’orecchio, sulla nuca, tirandole qualche capelluccio coi denti, strappandole un piccolo grido di falsa collera.

— Lasciami, lasciami quieta, Marcello.

— No, no — esclamava lui con un bel riso sonoro, stuzzicandola, soffiandole in volto, mentre lei si dibatteva, chinando il capo, ansando un pochino.

— Riprendi il tuo libro e leggi, amore.

— Ti assicuro che non posso. Hai là un abito troppo seducente.

— Proprio seducente?

— Seducentissimo.

— Tanto meglio. Così, domattina, te lo farò trovare in camera tua, come un grazioso dono.

— Lo accetto con entusiasmo, purchè la mia signora si degni di esservi dentro.

— No, mio signore. Se l’abito vi piace, basterà quello.

— Confesso di essermi sbagliato. Sei tu che mi piaci.

— Bah! io lo so — rispondeva lei con un’aria maliziosa.

— Mi piaci assai, assai, enormemente.

— Leggi.

— No.

— Leggi, leggi; io sto a sentire.

— No, no; il libro è stupido.

— Infatti, è un po’ stupido...

— Dunque, perchè vuoi farmi leggere?

— Per sentire la tua voce, Marcello mio.

— Ti ci addormenti invece. Poc’anzi avevi chiuso gli occhi.

— Ti guardavo.

— Attraverso le palpebre?

— Attraverso. Ti veggo perfettamente, Marcello.

— Ebbene, io ti veggo ad occhi chiusi, anche quando non ci sei. Anzi, senti, senti... — e si chinò all’orecchio, dicendole una cosa che le accese il volto di una fiamma.

— Taci, taci — balbettò essa. — Te ne prego, prendi il libro e leggi.

— Ecco qui il tuo libro, il tuo sciocco libro. Ma ti assicuro...

— No, no, zitto. Vengo anch’io a leggere con te, per non affaticarti.

E gli si accostò sul divanetto, gli passò un braccio al collo e gli appoggiò il capo sul petto, fissando gli occhi nelle pagine. Egli le cinse la vita quasi per sostenerla e rimasero così zitti, zitti, quieti.

— Non volti la pagina? — chiese ella, dopo un certo tempo.

— Non ho letto una parola.

— Che fai dunque?

— T’amo.

— Anch’io. Non dirmi più nulla.

Ed i minuti passavano sui loro cuori riuniti, in una lentezza dolce, in una calma beata. D’un tratto ella trasalì. Egli si chinò un momento a guardarla, quasi la interrogasse.

— Nulla — disse lei, chinando le palpebre.

Ma di nuovo un grande brivido le passò per la persona. Ella si staccò vivamente, con un gesto brusco.

— Che hai?

— Niente, niente.

— Come niente? Impallidisci, tremi, ti senti male, amore?

Ella lo tranquillizzò con un gesto; ma pareva che un piccolo affanno le togliesse la parola. Il petto ansava.

— Sto bene — rispose lei con un moto vago, passandosi la mano sulla fronte. — Sto bene; è un capogiro...

— Cara, cara, tu mi spaventi! Ma certo è l’aria soffocante di questo salotto; vuoi schiudere la finestra?

— Sì, sì, apri, perchè io respiri.

Marcello corse ad aprire i vetri; ella lo seguì con un'occhiata smarrita. Ma quando ritornò, trovò la forza di sorridergli.

— Stai meglio? Ti passa? Vorresti odorare qualcosa?

— Dammi la melissa; è su quella mensola.

Si sollevò un momento, odorando la melissa. Ma rimaneva diffuso sul volto, come una maschera bianca, un pallore malaticcio. Di sfuggita, mentre Marcello volgeva gli occhi altrove, ella si guardò le mani. Poi con una grazia incantevole:

— Non vai da papà, oggi, Marcello?

— Sì, debbo andarvi; ma non me ne parlare; non ti lascio così.

— Così? Come se fossi ammalata! Mi è passato ora; mi sento bene. È stato proprio un capogiro, una cosa passeggera. Non vedi che sto bene?

— Non lo vedo...

— Ma sì, te lo assicuro. Che pauroso! Sai che spaventeresti anche me? Se non mi sentissi meglio, la tua ciera sgomentata mi darebbe un altro capogiro. Ma sto benissimo...

— Gli è che temo anche d’un soffio, Beatrice... — rispose lui, quasi convinto. — Devi badare alla tua salute.

— Oh! il medico grave, il dottore severo! Ma sì, ma sì, vi baderò. Anzi, sai che cosa farò? Mentre tu vai da papà, io mi gitterò sul letto, a dormire un poco; al ritorno mi ritrovi sveglia e forte.

— E se avrai bisogno di qualche cosa?

— Vi è Giovannina; ma non la chiamerò neppure.

— Dormirai?

— Dormirò — rispose lei, col sorriso crocifisso sulle labbra.

— Già, io torno presto; ma voglio trovarti bene, core mio.

— Te lo prometto, anzi stasera andremo al San Carlo

— Dunque, vado via. Forse hai veramente bisogno di riposo. Mi dài un bacio?

Lei si chinò a baciarlo lievemente, con la punta delle labbra, un bacio di bambino. Invece lui la prese fra le braccia, per baciarla.

— Come palpita il tuo cuore, Beatrice!

— È sempre così quando tu mi abbracci, Marcello — diss’ella, con uno sforzo eroico.

Egli le sorrise quasi per ringraziarla ed andò via. Ella ricadde come morta sul divano; non avrebbe potuto celarsi un solo minuto di più. Lungo-distesa, le gambe abbandonate, una pianella caduta sul tappeto, le braccia prosciolte, le mani raggrinzate, la testa riversa sulla spalliera, in una posizione straziante, la bocca semiaperta, le nari dilatate, gli occhi nuotanti nelle lagrime, ella non viveva che nelle fortissime pulsazioni del cuore ammalato. La regione del cuore si abbassava e si rialzava con un movimento affrettato che faceva paura; tutto il petto si dilatava quasi volesse assorbire l’aria che gli sfuggiva; la gola si gonfiava nel desiderio dell’aria. Non una parola, non un gemito, non un pensiero, non un’idea di chiedere, di avere soccorso. Solo l’orribile tumulto della ipertrofia, la paura immensa di morire soffocata in quel punto. Tutta la vita, tutte le sensazioni, tutte le impressioni, tutto il suo essere in quel cuore, che batteva precipitosamente contro la parete del petto. La batista leggera e ricamata della camicia e della sottoveste, la lana morbida e fina dell’abito, le parevano di piombo. L’accesso si prolungava più del solito. Pensò di nuovo che sarebbe morta. Volle rialzarsi, suonare il campanello, far accorrere gente, far venire Marcello. Non potette, il male l’aveva atterrata. Pensò alla mamma. Ma quasi che il solo pensiero di lei potesse riuscirle benefico, ella udì quel lievissimo scricchiolìo, quasi un soffio appena percettibile, che le dava il segno della fine dell’accesso. — «Sono salva» — disse fra sè con la gioia di chi risuscita alla vita. E attese con pazienza che si rassettasse poco a poco il moto del cuore, che la circolazione del sangue rincominciasse il suo doppio giro regolare, ridonando la forza ed il vigore a tutte le parti del corpo abbandonate ed ammiserite; si strofinava lentamente le braccia, le mani fredde, per ricondurvi a poco a poco il calore. Solamente dopo un’ora potette sentirsi alquanto equilibrata. Ma l’angoscia morale, ora, superava quella fisica di poco innanzi. Era esterrefatta, disperata. Non voleva essere ammalata, no, non voleva assolutamente essere malata. Non voleva morire, voleva vivere, voleva star bene, per amare Marcello, per essere amata da lui. Era stata così intensamente felice in quei due mesi d’amore! Perchè veniva la triste mano della malattia a darle una strappata? Voleva star bene, sempre, sempre. La malattia era inutile, la malattia era perfida, la malattia era cattiva. La sola cosa buona era l’amore, e con l’amore, Marcello. Doveva amare, lei, e non doveva essere ammalata. Doveva essere felice lungamente, come era stata, e non già morire. Che serve morire? Vivere, vivere bisogna — ed amare. E questa malattia, questa malattia! Come avrebbe fatto per non averla? per non sentirla? Ella pensava queste cose, seduta sul divano, ritta sul busto, con le mani in grembo, assalita da quella stanchezza sonnolenta, da quel torpore che segue ogni accesso del suo male. Il suo dolore tutto interno, senza un segno esteriore, ritornava, girava su sè stesso, con le medesime frasi, ingenuamente, fanciullescamente dolenti. Avrebbe voluto piangere, singhiozzare, torcersi le braccia, gridare, ma era come immobilizzata, con un’apparenza di statua, mentre dentro ferveva una vita alacrissima. Poi si stancò anche di quell’attività. La prendeva una certa calma. Rinasceva un’aura di speranza, a blandire l’acutezza della sofferenza. Chissà! Forse quello, come più violento, era l’ultimo accesso. Forse la malattia aveva avuta la sua crisi, si era determinata, si era decisa ad andar via, a disertare quel cuore che si doveva consacrare tutto all’amore. Coraggio adunque; quella era stata una prova. Era stata troppo felice ed il Signore aveva voluto castigarla un pochino, farle intravedere che per tutti vi è il male e il bene. Coraggio, la vita ricominciava. Poi, in caso, vi doveva essere un rimedio. Sicuro, un rimedio a cui non aveva mai pensato; un rimedio pronto, efficace, uno di quegli stupendi rimedi che sono la salvezza di un’esistenza. Procurarselo sarebbe stato facile. Non ci voleva che denaro; ella ne aveva, per fortuna. Come non pensarci prima? La guarigione era là, vicino ad essa, e lei a passarvi daccanto, senza voltarsi!

Era completamente tranquilla. Quasi sorrideva. In sè stessa maturava tutto un piano. Pensava quanto tempo sarebbe stato lontano Marcello, quanto tempo avrebbe potuto star lontana lei stessa, per andare... guardò l’orologio. Erano le tre, poteva andare, l’avrebbe forse trovata in casa, e là, destramente, senza lasciarsi scorgere, avrebbe potuto sapere, e dopo non le rimaneva altro a fare che...


Quando entrò da Fanny Aldemoresco, la trovò presso il caminetto, a cucire non so che di piccolo, che la brunettina nascose frettolosamente.

— Sei una freddolosa; di febbraio il fuoco — disse Beatrice, sedendosele accanto, dopo le solite espansioni.

— Capisci, è quel meticoloso di Alessandro che mi vi costringe. Ha sempre paura che mi raffreddi, che caschi ammalata... poi...

— Sono venuta qui, a stare un momento con te. Marcello è uscito presto per andare da papà, ero sola, ho fatto attaccare ed eccomi qui.

— Benvenuta sempre. Marcello non ti lascia mai un momento, a quel che pare?

— Mai un minuto, cara Fanny.

— Dio, come me ne consolo! Tanto meglio per lui, per te, per tutti. Ma se te lo diceva io, a Parigi, che unica verità è quella di volersi bene! Te ne ricordi, Beatrice?

— Me ne ricordo e te ne ringrazio.

— Del consiglio? sempre ai tuoi ordini, bellezza. Senti, fossi stata in te, ci sarei ritornata a Parigi.

— E perchè?

— Per riacquistare le impressioni perdute.

— Non importa, abbiamo quelle di Napoli, sono anche fresche e belle.

— Brava, sei tu ora che hai ragione. Infine i viaggi sono belli solo quando comincia la probabilità di annoiarsi; ma quest’anno io non mi movo — aggiunse Fanny con un piccolo sorriso.

Beatrice le diede un’occhiata d’intelligenza, sorridendo anche lei.

— Proprio? — chiese poi.

— Certo — rispose l’altra con la sua aria felice. Ed involontariamente, per uno spontaneo moto di affetto, le due amiche si abbracciarono.

— Era quello che lavoravi, quando sono entrata, cattivella?

— Eccolo — e cavò fuori un corpettino di tela d’Olanda che ricamava, col filo rosso. Le due amiche lo guardarono con ammirazione sincera, estasiandosi su quel brano di stoffa che rappresentava tutto un avvenire.

— Alessandro cammina sulle nuvole per la consolazione — riprese la Fanny, col bisogno irresistibile di parlare del suo grande segreto; — mi diventa noioso a furia di baciucchiarmi, di stringermi lei mani, di ringraziarmi. Poi mi ha messa nella bambagia. Il fuoco, la poltrona, la carrozza chiusa, il mantello foderato, un guaio insomma. — E come ti senti — e che hai — e vorresti qualche cosa — e desidereresti nulla di nuovo? una domanda continua. Lo mette in canzonella anche il dottore, figùrati, quando viene a visitare Stella, mia cognata...

— A proposito, come va Stella?

— Mediocremente, poverina. Sai, una malattia incurabile; ma può vivere...

— Dicono che il vostro dottore Galliata sia il migliore di Napoli — chiese Beatrice, lasciando cadere con noncuranza le parole.

— Il migliore d’Italia. Ha salvato centinaia di persone.

— Viene di lontano per voi. A Foria, mi pare?

— A Foria, 112. Una bravissima persona. Ha un sol difetto, è troppo brusco. Pensa che ti dice: non c’è nulla da fare per voi, come se ti mandasse a passeggiare in Villa. Questo non piace naturalmente. Ma che discorsi sono codesti! Siamo lugubri. Andasti dalla San Demetrio l’altra sera?

— Vi andai, ma per poco. Un ballo splendido.

— Alessandro non vuole che io balli. Io n’ho dispetto, poi mi rassegno. Vi erano le amiche?

— Quasi tutte.

— Vedesti Paolo Collemagno?

— No, non vi era.

— Scomparso, dunque, scomparso definitivamente. Ed anche... Ti dispiace parlare di lei? Ti fa male forse?

— No, per nulla. Dicono che ella sia a Nizza.

— Un mistero, bella mia. Chi l’ha vista a Nizza, chi a Firenze, chi a Roma, chi sostiene che stia a Capri, chi accerta che ella è a Napoli, chiusa in casa. Ella diventa noiosa.

— Io non vi penso mai.

— Tanto meglio allora, un tormento di meno. Non credi che Collemagno le sia andato dietro?

— Può darsi. Si dovrebbero sposare quei due.

— Perchè ella ammazzi anche Paolo? Pietà per lui, cara. Bah! un matrimonio è una fine poco misteriosa al romanzo della contessa ammalata.

— Non c’è bisogno di finirlo il romanzo, lo si continua, cara Fanny.

— Tu ne parli come di un libro — esclamò l’altra, ridendo. — In fondo sono del tuo parere. In confidenza, la D’Aragona non ti spaventa più?

— No; per nulla — rispose Beatrice, con la massima semplicità.

— Doveva esser così. Vinto, atterrato, debellato il nemico. Grande battaglia, grande vittoria!

— Sei belligera — disse l’altra, con un lieve sorriso.

— Sicuro. Non vi pensiamo più. Amalia la vedi? Sono tre settimane che non ne ho notizie.

— Qualche volta. È tutta dedita alle lotterie di beneficenza, alle scuole dei ciechi, ai sordo-muti.

Connu la beneficenza! Ci si occupa, ci si dà l’aspetto sentimentale, si ha l’occasione di sfoggiare acconciature e di sentirsi nominare nei giornali come un angelo di carità. Per me vi ho rinunciato sempre. Fo il bene da me sola. Ma che hai a cavar sempre l’orologio?

— Si fa un po’ tardi... e Marcello...

— Comprendo, comprendo, la mia donnina. Va allora. Ma non abbandonarmi, sono sempre sola.

— Cioè, sola?

— Voglio dire... sola no... vi è il pensiero; capisci... ma quando vi sarà lui...

Per le scale del palazzo Aldemoresco, Beatrice si sentì riprendere dall’ansietà. Aveva obliato, per un momento, perchè era venuta; ma la realtà le si aggravò di nuovo sull’anima. Entrando in carrozza.

— A Foria — disse al cocchiere.

Al trotto dei cavalli se ne partivano anche i suoi pensieri. Il dottore Galliata era una illustrazione della scienza medica, aveva salvato centinaia di persone, bisognava affidarsi a lui. Queste malattie di cuore debbono avere il loro rimedio, egli lo avrebbe indicato. Sua madre ne era morta di questa malattia, è vero; ma forse la povera e cara donna non aveva mai pensato a farsi curare. Eppoi, lei, Beatrice, era forte, giovane, robusta, piena di vita... il cuore solo era ammalato... ma il dottore Galliata avrebbe provveduto. Gli avrebbe raccontato tutto, minutamente, la storia di sua madre e la sua: gli avrebbe confessato l’immenso bisogno che sentiva di vivere, il prezzo altissimo che per lei aveva la vita. Questi medici sono psicologi, anzitutto; egli l’avrebbe compresa. Ed il rimedio... ma mentre arrivava all’altezza del Museo Nazionale, mentre poco mancava per giungere, un pensiero rapidissimo le attraversò il cervello:

— E se non vi è alcun rimedio?

Pensiero pauroso, opprimente, che l’agghiacciò. Il dottor Galliata era franco, violento; Fanny glielo aveva detto. Egli non le risparmierebbe la verità. Se la sua malattia era mortale, il dottore glielo avrebbe annunziato, senza reticenze, senza mezzi termini. Come, come avrebbe ella potuto sopportare una condanna così crudele? Non valeva meglio illudersi sul proprio stato, anziché abbreviarsi la vita? Dio! Dio! ella non voleva sapere, non voleva sapere; la verità le faceva spavento; preferiva ignorare, chiudere gli occhi per non scorgere l’abisso: era senza coraggio, era vigliacca! Amava Marcello, ecco tutto. Quando passò innanzi al numero 112, fece per tirare il cordone del cocchiere, ma poi si rigettò indietro, chiudendo gli occhi, ansando, spasimando, soffrendo atrocemente. Dopo cinque minuti di cammino, la carrozza si fermò.

— Continuate, continuate!

— Verso Poggioreale, eccellenza?

— No — disse lei, tremando, colpita dal nome. — Tornate indietro.

Al ritorno cercò farsi una ragione per calmarsi. Infine ella non sapeva nulla della sua malattia. Perchè giudicarla mortale? Perchè mettersi al peggio, fantasticare tetramente di morte? Perchè abbandonarsi alla disperazione, quando forse tutto poteva salvarsi? Si son date guarigioni miracolose. Un rimedio ci doveva essere. Era decisa: sarebbe salita dal dottore Galliata, lo avrebbe interrogato... Ma, quando arrivò di nuovo dinanzi al portone numero 112, fu assalita da capo da una grande debolezza. Era in uno stato d’incertezza; un momento voleva e si raffermava nella sua volontà, il momento seguente disvoleva. Dietro i vetri del suo coupè, ella fermava sulla gente un occhio vagante, quasi senza sguardo. Quattro volte la carozza percorse su e giù la popolosa e borghese strada di Foria, con molta meraviglia del cocchiere sul gusto strano della signora padrona; otto volte la vettura passò davanti al numero 112 senza fermarsi; dopo di che discese verso gli aristocratici quartieri di Toledo e di Chiaia. Invano, invano, perchè Beatrice non aveva osato andare dal dottore Galliata per ascoltare la verità.


— Arrivi, finalmente! Ti aspetto da un’ora — esclamò Marcello che passeggiava in anticamera. — Come si va? Stai bene?

— Sto bene, sto bene — disse ella brevemente, entrando nell’appartamento seguita da suo marito.

— Cattiva, sei uscita senza di me; dovrei essere in collera.

Ella scioglieva i nastri del suo cappello, si toglieva i guanti, il mantello, senza rispondere.

— Dove sei stata dunque? Raccontami.

— Sono stata da Fanny. Quando sei uscito, mi annoiavo. Dormire non ho potuto. Contavo i minuti della tua assenza. Sola, sola, mi veniva la nostalgia: Ho pensato di uscire. Una giornata bellissima. Fanny era presso il fuoco. Abbiamo chiacchierato molto, di molte cose, Ti saluta tanto. Dopo... dove sono andata dopo? Oh! ... mi ricordo. Dal gioielliere per far rimontare i miei rubini. Saranno magnifici, te lo assicuro. Ha ricevuto certe belle turchine.

— Ne vuoi, cara? Passerò io domani di là.

— Grazie, caro. Poi... poi... ho fatto tante cose oggi, che non mi ci raccapezzo più. Ah! ho comperato dei fiori, delle giunchiglie. So che ti piacciono; le porteranno qui. E poi ho comperato dei dolci che rosicchieremo insieme, amore. Un mondo di cose, come vedi.

Parlava a scatti, nervosa, con la voce indurita. Marcello la guardava un po’ esitante. Stava bene ora: questo era certo. Ma qualche cosa era dovuto accadere. Durante il pranzo ella non prese quasi nulla, chiacchierando sempre, con una grande volubilità, sorridendo, agitandosi; alle frutta, bevve un bicchiere di Xeres puro, senza batter palpebra. Pel teatro mise un abito nuovo, giunto il giorno prima da Parigi, una stoffa color pesca, ornata a frangie rosse, un’acconciatura ricchissima. Fu di buon umore, scherzò, rise, prese un gelato, conversò con gli amici, guardando suo marito in un modo strano. In un intervallo, mentre non vi era nessuno, si alzò, lo attirò in fondo al palco, nell’ombra delle tendine, e gli dette un bacio rabbioso sulle labbra, e tornò a sedersi sul davanti, con la massima calma.

La sera, quando furono a casa, rimasti soli nella loro camera, gli si arrovesciò nelle braccia, senza una parola, pallida e muta di passione.


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