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II.
Ora nel palazzo Sangiorgio era una grande quiete, una quiete che parea durasse da anni, che parea dovesse durare per un tempo indefinito. Nelle prime tre settimane, dopo l’arrivo inatteso dei padroni, tutto era andato sossopra; vi era un viavai continuo di falegnami, tappezzieri, pittori, un lavorìo incessante di stanza in stanza, di salone in salone, un affaccendarsi, uno sbattere di porte, un’attività fervidissima. Il duca Marcello sembrava non ne sapesse o non ne volesse saper nulla; era per lo più fuori di casa, e quando ritornava, dava appena un’occhiata, di sfuggita, a quello che vi si faceva. La duchessa presiedeva a tutto: ella dava gli ordini chiari, netti, espliciti, faceva lunghe conversazioni col tappezziere-capo, spiegandogli minutamente quanto desiderava; passeggiava con lui nel palazzo, indicandogli la disposizione dei mobili, delle cortine, delle portiere, dei quadri, degli specchi; si faceva portare i campioni delle stoffe e li studiava per ottenerne l’armonia dei colori; presenziava molto spesso i lavori, rialzando la coda del suo abito da camera in mezzo ai ciarpami, senza tossire per la polvere che era nell’aria, senza disturbarsi pel rumore dei colpi di martello. In tre settimane tutto fu pronto. Non mancavano che i fiori ed alcuni quadri che dovevano arrivare dalla villa Sangiorgio a Sorrento.
Dei quattro appartamenti al primo piano, uno era riserbato al conte zio, Domenico Sangiorgio, e lì non si era cangiato nulla; il secondo serviva per ricevimento: tre salotti, stanza da giuoco, stanza da fumo, due grandi saloni da ballo, tutto rifatto da cima a fondo. Gli altri due appartamenti, uno per la duchessa, l’altro pel duca: poichè subito essi avevano adottato l’uso, tanto aristocratico da essere regale, di avere due appartamenti. Per dare questa disposizione, nessuno dei due aveva avuto bisogno d’interrogare l’altro: si erano intesi così, perfettamente, senza dirselo. Dalla grande anticamera comune, per la porta a dritta, si entrava da Beatrice; per quella a sinistra da Marcello: Beatrice aveva un salotto, una stanza da lavoro col suo pianoforte, uno spogliatoio, la stanza da letto; Marcello aveva anche il salotto, lo studio, lo spogliatoio e la sua camera. Queste due camere erano daccanto, parallele, divise da un muro e da una porta. Proprio sembrava che il primo duca Sangiorgio, che aveva fatto edificare il palazzo, avesse indovinato le lontane inclinazioni dei due sposi.
Tutta la parte nuova della casa mostrava adesso una impronta, un carattere speciale. Era ornata, mobigliata con un lusso grandioso, calmo e sicuro. Nulla di troppo splendido, di troppo appariscente, di troppo nuovo che la facesse rassomigliare alla casa di un borghese arricchito, che ha la smania di gettare il suo denaro in faccia ai suoi visitatori. Tutto era a grandi linee, di una eleganza quieta, la stoffa ricca, il colore appannato, l’armonia conquistata a forza di gusto. Niente fiammeggiava o crepitava, tutto si riposava nel proprio benessere, a suo agio. Nessuna di quelle bizzarrie costose che la moda impone e che durano soli sei mesi; vale a dire, esclusi gli apocrifi salotti moreschi, le piccole Pompei in miniatura, le contraffazioni delle sale orientali, le copie impallidite e barocche dei barocchi saloni di Luigi decimoquinto, che sono il segno di una fantasia morbosamente scontenta, meschina e gretta, che preferisce la fotografia senza colori alla grande arte. La casa Sangiorgio aveva i suoi saloni messi con uno stile puro, che ingrandiva, ampliava la piccolezza vezzosa del gusto moderno.
Ebbene, si comprendeva che fosse stata la duchessa Beatrice a creare intorno a sè tutto questo. La sua alta persona aveva bisogno, per complemento, di quei grandi saloni, di quegli specchi immensi dove si potesse veder tutta; il suo corpo statuario dovea disdegnare le mollezze degli angoli rotondi dei divanetti, gli arrovesciamenti voluttuosi delle poltrone; dove appariva la sua classica figura, non poteva sussistere l’arte fragile, piccina, minuta, che inonda di statuine, di puttini, di amorini, di animaletti gli scaffali delle sale eleganti; la sua fiorente gioventù non poteva chiudersi in quei salotti troppo intimi, troppo profumati, dall’atmosfera viziata; alla sua bellezza essa aveva scelta la più adatta cornice. Ella era dappertutto: dappertutto un lusso sobrio, squisito, senza eccessi, senza follie; un gusto ragionevole, illuminato e sereno.
Ella non lasciava mai dimenticati i suoi fazzoletti di trina sopra i divani; quando aveva finito di suonare, serrava il pianoforte, chiudeva il quaderno della musica e lo riponeva al suo posto, sullo scaffale; quando lasciava un libro, intercalava tra due pagine il segnacarte, lo chiudeva e andava a riporlo in libreria; il suo ricamo, una ricca stola di seta bianca trapunta in oro, terminato il lavoro di una mezz’ora, veniva coperto con la carta velina, con la tovaglina di tela e andava a riposare nel cestino da lavoro; mancava sul tavolino l’albo delle fotografie, galleria di amici, di parenti, di semplici conoscenze; mancava l’albo dei ricordi, in prosa, in versi, che segnano un pensiero, un sentimento fugace, ma fermato sulla carta, come per impedirgli il volo; mancava l’albo dei fiori disseccati, incollati sul candido cartoncino, sotto cui le signore amano scrivere una data, un nome, una misteriosa iniziale. La duchessa Revertera non si dilettava in queste molteplici manifestazioni di una fantasia donnesca disoccupata. Inclinava naturalmente all’ordine, alla regolarità, fors’anche alla monotonia che le assicuravano non pertanto la tranquillità da lei ricercata.
Tutto questo era un po’ freddo, forse. La vita, invece di restringersi nell’intimità, si allargava in una espansione tutta esteriore. Vi era lì dentro un’apparenza maestosa, amabile, sorridente, ma nulla d’interiore, di vissuto. Le parole si perdevano nelle stanze troppo ampie; si aveva quasi soggezione d’intesservi uno di quei graziosi dialoghi, efflorescenza gentile del pensiero, vagabondaggio dell’anima; non avevano misteri le ombre delle cortine; non avevano idee nascoste le larghe portiere; non vi erano angoli reconditi dove due si potessero dimenticare. La vita doveva essere molto chiara, molto aperta, trasparente, senza una macchia, fra quelle pareti.
Poco a poco anche le persone di casa cominciarono a subire, forse senza volere, la sua influenza moderatrice. Lo zio di Marcello, quegli che aveva fatto il matrimonio, era sempre rimasto un po’ in dubbio che questa nipote venisse a guastargli le sue abitudini. Era un vecchio celibe, una volta don Giovanni, in termini minimi, campione della ostinata galanteria antica che corteggiava la gran dama e la servetta: ora gliene restavano i dolci ricordi e quella tendenza a trovarsi fra donne, a render loro dei servigi, a consolarle nelle loro piccole sventure, ad accompagnarle in teatro, a infilare loro la pelliccia, a vivere insomma fra le gonne, a sentirsi ancora stordito dal profumo delle belle signore. La nipote ora lo dominava. Egli la trovava troppo forte, senza quelle amabili debolezze delle donne dei suoi tempi, un po’ incomprensibile, ma infine buona. Spesso egli mancava al circolo la sera, e le teneva compagnia, le raccontava qualche spiritosa storiella; ella era una preziosa e sorridente ascoltatrice, che non si distraeva mai, che approvava a tempo col capo.
A cominciare dal maggiordomo, un personaggio importante, che aveva moglie e figlie in abito di seta, sino all’ultimo domestico, la servitù fracassona e parolaia napolitana assumeva un silenzio ed un contegno inglese. Certo, la padrona non aveva un viso severo, nè sgridava mai nessuno; ma quando fissava lo sguardo grigio e freddo sul subalterno, ce n’era d’avanzo per intimidirlo. In casa Sangiorgio le livree erano oscure, di verde-bruno, con piccolissimo filetto bianco; il portinaio non affettava coccarde fantasiose; i cocchieri ed i garzoni non chiassavano nel cortile; i servi non isparlottavano in anticamera; nella vasta cucina non si litigava mai. Le porte si aprivano e si chiudevano quietamente, i campanelli non tintinnavano mai due volte, gli ordini non si ripetevano, le visite erano annunziate con tono discreto. Beatrice aveva principiato per dare alla casa, alle mura, ai mobili il colore del suo spirito; poi lentamente ne aveva soggiogati e diretti a suo modo gli abitatori, diventando realmente lei la padrona, la signora del palazzo Sangiorgio e di quanti ci vivevano.
Rimaneva Marcello.
Marcello lasciava fare. Egli si trovava in uno di quei periodi di stanchezza che arrivano sempre, dopo che si è fatto un grande sciupìo di forze in una gioia o in un dolore. Del resto, era anche nel suo temperamento estremo, acuto, questo avvicendarsi di attività eccessive con le lassezze profonde; questo ascendere ardentemente, avidamente, al massimo punto dell’espansione, per discendere e piombare, immobile, nella completa atonia. Alla notte indimenticabile del ballo era succeduta la partenza precipitosa, tanto rassomigliante ad una fuga — ed un viaggio furioso, in cui egli era anelante di giungere a Napoli per abbandonarsi in quell’oblio momentaneo che prepara l’anima ad una nuova battaglia. Marcello lasciava fare, si lasciava vivere. In quella specie di lenta apatia in cui si era ridotto, provava un solo bisogno: vivere molto all’esterno, di sè, della sua casa. Temeva di pensare troppo, di riflettere troppo, di assorbirsi troppo. Ora come ora, si sentiva calmo. Ma lì, in un punto ignorato dell’anima, ci doveva essere un dolore sussistente, latente, che aspettava di essere evocato egli aveva paura di questo punto ignorato, non osava profondarci lo sguardo, cercando di essere più forte, più coraggioso per affrontare l’aspetto. L’amarezza della sua vita si era tutta raccolta in quel punto. E là, perfida, nera, crudele, attendeva per prendersi un’altra volta il suo cervello ed il suo cuore. Se egli non voleva pensarci, bisognava che vivesse fuori di sè.
Al mattino non si levava tanto presto; leggeva la sua posta, scriveva lettere, parlava col suo intendente, occupandosi con un interesse minuto degli affari, dei contratti, degli affitti delle sue terre, ecc., ecc. A volta egli pensava vagamente a qualche grandiosa industria da impiantare nel suo feudo di Sangiorgio, un’idea colossale ed umanitaria dove potesse mettere e sciupare la sua vita; ma forse era un sogno. Dopo la colazione usciva, andava al Caffè di Napoli a passare un’oretta, chiacchierando, in quelle conversazioni futili che sono così efficaci a distrarre col loro vano mormorio: dopo vi era sempre qualche visita da fare a signore amiche o parenti; indi a tirare quattro colpi di pistola al bersaglio, spezzando i colli di parecchie bottiglie e facendo saltare in aria la testa di varie bambole in porcellana; poi alla passeggiata alla Riviera, a cavallo, a piedi, o in carrozza, sempre con qualche amico; il pranzo fatto in fretta; subito dopo, vestirsi per andare al San Carlo, al Casino dell’Unione, al Circolo del Whist per aspettare che si facessero le due dopo mezzanotte; a casa, leggere ostinatamente sino a che la stanchezza gli facesse chiudere gli occhi.
Così marito e moglie non restavano molto tempo della giornata insieme. Si vedevano alla mattina ed all’imbrunire. Per quanto Marcello si assentasse di casa, veniva il momento in cui si doveva ritrovare con sua moglie; e, qualche tempo prima che ella comparisse, egli cominciava a provare un fastidio, un’inquietudine strana. «Eccola, ora viene, sta per giungere, apre la porta», diceva fra sè, morsecchiandosi le labbra. D’un tratto, quando Beatrice era presso lui, l’inquietudine cessava. Egli si rizzava, calmato, composto, freddo, ponendo ogni studio ad imitare la condotta di lei. Il suo contegno non aveva più nulla di strano. Egli sorrideva lievemente, di un sorriso che era il riflesso di quello di Beatrice; la guardava senza turbarsi; scambiavano brevi parole su cose indifferenti, senza mai un sottinteso. Soltanto la sua cortesia si era sempre più venuta raffinando; egli la circondava di premure ossequiose che ella accettava, ringraziando con un gentile cenno del capo. Pareva che Marcello si ostinasse, quasi per divergere il suo pensiero da altre idee, ad occuparsi di tutte le piccole cose che erano fra sua moglie e se stesso. Diventava minuzioso. A tavola quasi le faceva la corte. Una corte punto insistente, punto da innamorato. Le parlava con dolcezza, mai sottovoce, senza fissarla troppo. Si trovavano sempre d’accordo su quello che dicevano, e quindi assai spesso tacevano, con un’aria soddisfatta e raccolta. Avvenivano dialoghi simili:
— Quel tuo abito color lontra va bene col cappello ricamato di perle, Beatrice.
— Ti pare? L’ho pensato anch’io.
— Andrai con quello alle corse?
— No, con quello azzurro, in raso.
— Buona idea. Con la primavera, un abito azzurro è di rito.
— Già.
Ovvero:
— Oggi Cassano aveva una bella pariglia di meklemburghesi alla passeggiata, Marcello. Credi tu che faremmo bene a comperare una pariglia anche noi?
— Io non amo molto i meklemburghesi: sono po’ pesanti. Ma ci serve un’altra pariglia. Quei cavalli lì sono in moda.
— Infatti; e la voga dura.
— Ne parlerò a Giovannino il cocchiere.
— Bravo, sarà bene così.
E Beatrice raggiustava il merletto dei suoi polsini, mentre Marcello fissava la cornice di un quadro. Allora interveniva lo zio, la conversazione si rannodava, leggiera, senza importanza, senza approfondirsi mai. Dopo una mezz’ora di chiacchierìo, Beatrice si alzava per andare a vestirsi; il marito si levava, le apriva la porta, la salutava e ritornava lentamente al suo posto, fissando la sedia vuota dove ella era stata seduta, non parlando più, come stanco, come inebetito. Qualche volta diceva a suo zio:
— Accompagnatela voi al teatro, zio; io ho un convegno altrove. Forse verrò a prendervi.
Perchè, sul principio, Marcello aveva spesso accompagnato la moglie. Avevano fatte insieme le visite di obbligo, di un quarto d’ora, dovendo ascoltare i complimenti ritardari, dovendo rispondere a tante insulse domande sul viaggio di Parigi; erano andati insieme, in carrozza, alla cosidetta trottata; erano andati insieme al teatro San Carlo, di cui la stagione era sul finire. Si mostravano volentieri al pubblico, questi sposi che non avevano vita privata. Si trattavano, davanti alle persone, con la medesima disinvoltura di quando erano soli. Il pubblico discorreva di essi, naturalmente. Non male però; anzi molti ripetevano l’eterna frase: una bella coppia, in mancanza di più acuto giudizio. Qualcuno osservava che Beatrice aveva influito molto sul carattere di suo marito, dandogli per modello il suo; ma, in fondo, questo qui era una prova di affetto. Come fu stabilita questa definizione, Marcello, poco a poco, trascurò di farsi vedere spesso con la duchessa. La lasciò fare sola le sue visite; si contentò di aiutarla a salire in carrozza per la passeggiata del pomeriggio; la sera, pel teatro, pel concerto, per qualche circolo, l’accompagnava o andava a riprenderla; talvolta nè l’uno nè l’altro, affidandosi a suo zio. Dapprima usava mettere qualche pretesto per iscusarsene. Ma, quando vide che Beatrice glie ne chiedeva solo per cortesia, senza interesse alcuno, non si affaticò più a ricercarne. Mormorava: mi duole, non posso.... e subito cambiava discorso. Alla mattina, verso le undici, egli picchiava alla porta di sua moglie; discorrevano un quarto d’ora, poi andavano a colazione. Si vedevano da capo all’ora del pranzo; talvolta non si rivedevano più sino al mattino seguente. Perdettero anche l’abitudine di comunicarsi i progetti giornalieri. Si ritrovavano, per caso, da qualche amica, altrove; allora si salutavano, fingevano di essersi data la posta colà, partivano uniti. Con gli amici Marcello non nominava quasi mai sua moglie; Beatrice rispondeva, se interrogata dalle amiche, con molta schiettezza, non prolungando il discorso. Senza quasi avvertirsene, si allontanavano sempre più; Marcello passava tre quarti della giornata fuori di casa. Pure sembrava si rivedessero con piacere.
Adesso, nelle più insolite ore del giorno, dai punti più lontani dove si trovava, Marcello si decideva d’un tratto, abbandonava ogni altro affare e andava da Lalla D’Aragona.