< Cuore infermo < Parte Terza
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III.


La contessa alzò gli occhi dal suo libro, guardò un momento Marcello e gli rispose: «buongiorno» malgrado fossero le tre del pomeriggio. Indi ricominciò a leggere; e non si comprendeva come potesse leggere nella penombra di quel salotto, accoccolata in un angolo del divano.

— Leggete un bel libro? — chiese Marcello, dopo averla contemplata per un poco.

— Vecchio, ma buono ancora: La medicina delle passioni, di Descuret.

— Siete appassionata voi, contessa?

— Lo spero.

— Lo spero anch’io.

— E perchè?

— Se lo sapessi, ve lo direi. Ma lo ignoro.

— Siete misterioso oggi, Sangiorgio.

— La colpa è delle rose.

— Credete?

— Certo. Vi sono troppe rose nei giardini, agli angoli delle vie, nelle mani delle fanciulle, sugli altari della Madonna. Questo mi conturba.

— Per fortuna qui non ve ne sono.

— Vi è altro.

— Io, nevvero?

— Forse.

— Non siete amabile, Sangiorgio. Preferisco il vecchio Descuret.

— Scusatemi — disse Marcello, con un accento sincero.

— Non importa — rispose l’altra, stringendosi nelle spalle e scrollando il capo.

E si pose a scherzare col cordoncino di seta gialla terminato da un fiocchetto che le stringeva alla vita la veste da camera violetto-scura. Faceva roteare vivamente il fiocchetto, avvolgendo e svolgendo intorno al dito indice il cordoncino: il fiocchetto, come una fionda, andò a colpire sul petto Marcello che le sedeva accanto.

— Un colpo mortale — riprese egli, tentando di scherzare.

— Non siete invulnerabile?

— Si dice che Achille fosse un mito.

— E Omfale?

— Le donne sono sempre una realtà.

— Buona o cattiva.

— Io sono interamente cattiva.

— Chissà!

— Paolo Collemagno lo dice.

— Vi ama.

— Io non amo lui.

— Lo so.

— Non lo amo e sono cattiva, duca. Vi supplico di crederlo.

— Per ordine, lo potrò. Ma non sarà un’obbedienza senza tentativi di ribellione, contessa.

— Ebbene, io ve lo proverò, duca. Ho bisogno, per la mia riputazione, che mi crediate cattiva.

— Vale a dire, che dovrei amarvi come Paolo Collemagno.

— E che? Non mi amate voi dunque, caro Sangiorgio? Che venite a fare qui?

Malgrado la risatina secca che dava alle parole di lei un carattere d’ironia, egli impallidì, si turbò, non potette rispondere subito. Lo fece dopo, a voce bassa, quasi parlasse a se stesso.

— ... Stamattina mi sono sentito molto solitario. Molta gente che ho incontrata, sorrideva. Certi bambini avevano la testolina bruna e ricciuta. Sono venuto qui per non vederli.

— Voi soffrite, Sangiorgio — disse Lalla lentamente, chinandosi verso lui.

— Non molto. Grazie. È cosa passeggera. Vi annoio forse?

— Non molto — rispose lei ridiventata fredda.

Tacquero. Un raggio di sole filtrava attraverso le tendine appena dischiuse. Lalla vi guardò.

— Il sole in città non serve — disse poi — basterebbe che vi fosse in campagna. Le città bruciano e s’inceneriscono nel sole.

Marcello si alzò e andò a disporre in diverso modo le tendine.

— Ecco distrutto il sistema solare, contessa. Se vi piace, potete supporre che fuori vi sia in cataclisma.

— Dite delle stranezze.

— Siamo qui per questo, contessa.

— Infatti, è vero. Se volete, facciamo e diciamo delle cose molto irragionevoli, Sangiorgio.

E lo saettò di uno sguardo nero nero, di un sorriso fremente. Egli curvò il capo senza nulla dire. Ella cavò dalla tasca una fialetta di profumi e la fiutò lungamente. Un po’ di colore salì alle sue guance smorte: una fiammolina lieve. Si adagiò meglio nel suo angolo.

— Sangiorgio, pensate voi a qualche cosa?

— Certo, contessa; anche a qualcuno.

— Badate che non mi piacciono terze persone nel mio salotto, persone che non mi furono presentate, che non conosco punto.

— Pensavo a Paolo. È tempo che non lo vedo. Sono inquieto per lui.

— Generosa inquietudine — disse Lalla con un colpettino di tosse. — Ma egli vi vede, caro duca. Sa quando venite e quando non ci venite; capirete, è geloso di voi.

— Ve l’ha detto? — chiese vivamente Marcello.

— Ed a voi?

— Una volta sola.

— Vedete bene: una razza insopportabile questi gelosi!

— Non comprendete voi la gelosia, signora?

— Oh! profondamente — disse lei a voce bassa e tremante, con un brivido che la fece allungare nel suo angoluccio.

— ... Eravate gelosa, allora?

— Non mi parlate di quel tempo, Marcello, non voglio — gridò ella con un subitaneo scoppio di voce, balzando in piedi per andarsene.

— No, no, Lalla, vi scongiuro di perdonarmi — disse lui, raggiungendola, trattenendola.

Le aveva prese le mani, le stringeva nelle sue, la guardava, mentre ella tremava tutta, col viso sconvolto. Le mani lunghette, magroline, erano quelle di una febbricitante; pure Marcello provava un senso di dolcezza a lasciarsi comunicare quel calore malaticcio. Era preso dal desiderio di quella febbre, ora lenta, ora furiosa, che rinfresca ed abbrucia il sangue, e stringeva quelle mani che dovevano dargliela, non potendo abbandonarle, socchiudendo gli occhi al piacere doloroso di quel contatto. Lalla, chinato il capo, si calmava. Una inerzia la invadeva tutta; non apriva le labbra, non si muoveva. Pareva si dimenticasse di essere là, in piedi, presso le tendine del balcone, con Marcello che la pregava ancora con gli occhi.

— Venite — egli disse — venite a sedervi dove eravamo.

Lalla non rispose. Marcello si portò una mano di lei sotto il braccio e la ricondusse al suo posto. Ma invece di sederle accanto come prima, prese una seggiola rotonda, quasi uno sgabello, e sedette davanti a lei. Così stettero due minuti; poi lui, quasi per istinto, le riprese una mano e la ritenne fra le sue. Cercava il contagio, affascinato da quel male sconosciuto. Lalla lo lasciava fare, quasi non se ne accorgesse. Nella camera, come si avanzava il pomeriggio, con le doppie porte, i balconi chiusi, le cortine disciolte, l’aria diventava calda, pesante.

— Come siete lontana, lontana di qui — mormorò Marcello.

— Meglio — rispose ella, con voce recisa.

— Infatti, lo merito. Spesso vi dispiaccio.

— Non ne siete capace — soggiunse Lalla, con accento dubbio.

Gli parlava a fior di labbra, con la testina appoggiata alla spalliera del divano e gli occhi che guardavano il soffitto.

— Volete che io me ne vada?

— Se questo è il vostro desiderio, seguitelo.

— Non è il mio desiderio, ma può essere il vostro.

— È troppo piccola cosa, perchè io possa desiderarla.

Egli impallidì, ferito da questa risposta. Ma poc’anzi anch’egli aveva crudelmente risvegliato le memorie di quella donna.

— Vi sarà, come si dice, il ballo primaverile in casa Filomarino? — chiese ella d’un tratto.

— Checchino Filomarino me lo assicurava stamattina, lo faranno presto, nella entrante settimana, perchè non si avanzi troppo il caldo. Voi ci andrete, contessa, se non è indiscrezione il chiederlo?

— Penso di sì. Non ho mai visto un ballo aristocratico a Napoli. Quando venni, ero troppo ammalata per ballare. Vi ricordate? Giunsi il venti ottobre.

— Come posso io ricordarmene?

— Fu il giorno in cui sposaste, in cui partiste per Parigi. C’incontrammo nella stazione.

— Non vi vidi allora — balbettò egli.

— Io sì... Ebbene, duca — riprese ella, vedendo che egli taceva — andate da Filomanino?

— Non so...

— Vale a dire, che non sapete se ci va la duchessa. Non ama ella il ballo?

— Credo... credo che lo ami.

Lalla prese un ventaglio turco da un tavolinetto che era presso di lei e si fece vento indolentemente.

— Perchè non mi parlate mai di lei, Sangiorgio

— Di chi?

— Della duchessa; non me ne dite mai nulla.

— Non mi avete fatto sinora l’onore di chiedermene — rispose Marcello, raffermando la sua voce un tono cerimonioso.

— No? Mi pare di sì. È vero che la signora duchessa ha un carattere amabile e tranquillo?

— È vero...

— Benissimo: il suo volto è sincero.

— La vedeste?

— Spesso. Con voi una sola volta, ma voi eravate con me. Ha un gusto finissimo nel vestirsi.

— Lo dicono.

— Voi non lo dite?

— Anch’io.

— Spero di ritrovarla in casa Filomarino. Potrò fare la sua conoscenza.

— ... Ci sentiremo compiaciuti di quest’onore, contessa — disse egli, con un gelido inchino.

— Voi siete molto innamorato di vostra moglie, mio povero Marcello — disse ella lentamente, spiccando le sillabe, e fissandolo negli occhi.

— Chi vi ha detto ciò? — esclamò egli trasalendo dolorosamente.

— Nessuno, lo so.


— ... No, se le rassomiglia troppo — terminò di dire Lalla.

— Qualcuno sostiene così — rispose Marcello a bassa voce. — ma sbaglia.

— Me lo assicurate?

— Ve lo assicuro. Nizza è sempre bella, sempre elegante, sempre fiorita, è ritoccata, carezzata sino alla sua ultima sfumatura. È un’arte completa, perfetta; non si osa più nulla sperare da essa. Sorrento è anche stupenda, ma in diverso modo. Ha, dopo la sua ultima linea di bellezza, un’altra gradazione indefinita che è forse l’azzurro del cielo, forse un pensiero, forse l’ideale; alla splendida festa della natura, segue dopo quell’orizzonte indeterminato che l’uomo desidera ritrovare per crearvi qualche cosa; quella nebulosità vaga che piace a noi, uomini del sud, stanchi di luce. Sorrento non è Nizza, signora.

— È strano, è strano — riprese Lalla, divenuta pensosa — come gli uomini vogliano imporre dappertutto la loro personalità. — Ecco un bel paese, te lo dono; siine felice; — dice il Signore misericordioso all’uomo — e lui ringrazia, ammira, poi se ne stanca. — È troppo bello; io non vi ho fatto niente — dice l’uomo: e se ne va ad abitare nelle infauste maremme, dove almeno può sognare di far sorgere le bionde spiche, per opera sua. Non mi meraviglio che vi siano tante persone ricche, giovani, belle.... ed infelici. Quale inutile smania di creazione!

— Quello che è già fatto, può essere ammirabile, contessa; ma quello che rimane ancora nell’oscurità del futuro, ha l’attrazione poetica dell’infinito.

— Siete un sognatore, Sangiorgio.

— È il mio torto, lo riconosco, contessa — disse egli con tono malinconico.

— Dunque, giacchè voi cercate persuadermi che Sorrento è ben diversa da Nizza, io vi andrò nell’agosto.

— I D’Aragona hanno un bel palazzo a Sorrento.

— Io non lo abiterò — disse Lalla, dopo una leggiera esitazione: — io ho intenzione di comperare una villa che si vende là. È la villa Torraca.

— È presso quella dei Sangiorgio, contessa.

— Parlatemene dunque. Non sarà troppo grande la casa?

— Piccina anzi.

— Non avrà troppi fiori in giardino?

— Vi è un grande viale di aranci, ma non molti fiori.

— Spero che non veda il mare. Il mare mi affligge.

— È nella campagna folta.

— Benissimo; fa per me. Grazie, Sangiorgio. Voi andrete a Portici, a villa Revertera?

— Io non so mai quello che farò il giorno seguente, contessa. Per questo ne chiedo a voi.

— Vale a dire?

— Vale a dire, che se vi recate a Sorrento, a villa Torraca, vi raggiungerò subito a villa Sangiorgio.

— Perchè farete questo, duca?

— Perchè ho l’idea che voi siate il mio destino, signora, e quindi vi tengo dietro.

— Ecco un’idea poco nuova, duca.

— Sarà così; ma io l’ho e non so staccarmene.

— Come accogliete voi il vostro destino, duca? Lo accettate di buon grado, lo subìte, o volete ribellarvici?

— Nulla di questo. Io mi abbandono ad esso con trasporto.

— Una frase?

— No.

Lalla posò il suo ventaglio e prese un album di paesaggi che cominciò a sfogliare.

— Comprendete voi qualche cosa, contessa?

— In che?

— Nella nostra relazione.

— Forse.

— Me lo direte allora. Per me ho cercato lungamente fra le ragioni impossibili; ho scartato da prima le possibili, ma non ho ritrovato niente. Una volta mi hanno parlato di voi, a Parigi. A Napoli, Collemagno, un buon amico, innamorato di voi, mi vi ha presentato. Vengo da voi un venerdì, giorno di ricevimento. Va benissimo, tutto questo è in regola, non serve. Ma perchè ritorno da voi troppo presto? Perchè mi metto a venirci ogni giorno, per alcune ore? Perchè tutto il tempo in cui sono lontano da voi, penso al momento di rivedervi? Perchè, fatalmente, irresistibilmente vengo qui, sempre, sempre? Perchè la vostra casa, i vostri salotti, i vostri libri, i vostri gioielli, i vostri abiti, il vostro profumo, i vostri merletti mi piacciono tanto? Perchè voi, che non mi amate, che v’infastidite di me, che me lo dite, che non mi volete neppure per amico, per confidente, mi addolorate e mi piacete tanto? Tanti perchè sciocchi. Forse vi amo, contessa.

— No, voi v’ingannate — rispose ella, rallentando di nuovo le parole e fissandolo bene — voi v’ingannate, duca. Conosco io la verità.

— Ditemela dunque.

— Non è bella la verità. Siete innamorato; ma colei che non vi ama in casa vostra, venite ad amarla qui, in casa mia. Non è bella la verità, duca; nè per voi, nè per me.

Egli si alzò senza guardarla. Alla porta, salutò:

— Addio, signora.

Nè lei gli rispose. Lo lasciò andare. Col corpo abbandonato, colla testa riversa sulla spalliera del divano, fiutava la sua fialetta da profumi.


Nella strada, egli camminava velocemente. Sentiva solo le sue mani brucianti, che al contatto delle mani di lei avevano presa la febbre.

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