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IV.
Invece di un suggello con uno stemma o dalla semplice iniziale borghese, sulla busta vi era una rondinella bianca e nera, che portava nel beccuccio una margherita; all’angolo superiore del foglietto, a sinistra, una rondinella piccina, con una margheritina. E giù quattro paginette di un caratterino nervoso, saltellante, ineguale, che qua e là rivelava il ghiribizzo di una penna quasi infantile. Marcello, riconoscendone la sentimentale e pretensiosa divisa, sorrise. Aveva ricevute molte di queste lettere in tre mesi. Da principio, una per settimana, poi due, poi tre, ed infine la sua ignota corrispondente gli aveva scritto ogni giorno. Arrivavano volgarmente per la posta, come non mai lettere simili arrivarono, adorne dell’ignobile francobollo da un soldo. Cominciavano: Dolcissimo amico, non portavano data, non portavano firma, e, malgrado la prolissa espansione dello stile, era evitato con cura ogni particolare, che desse una traccia di colei che scriveva.
Perchè, naturalmente, era una donna che scriveva. Nelle prime lettere aveva scritto che era una donna già invecchiata, ma in seguito aveva confessato di essere giovane e disillusa, colle prime lettere aveva protestato una viva e pura amicizia per Marcello. Gli scriveva così, come ad un amico affezionato, per consolare di uno sfogo una vita crucciosa e monotona. Ella divagava in variazioni poco nuove sulla santità di certi legami che escono dal consueto, sulla innocenza di un affetto indeterminato, incorporeo e che tale sarebbe sempre rimasto; tutto quello che diceva, era dettato in una forma graziosa, quasi carezzevole, ma sotto le sue parole si sentiva un vuoto completo, vuoto di idee, vuoto di sentimento. Era il superficiale chiacchierìo di donna che si arrischia nelle teorie platoniche, esagerandole. Marcello leggeva, leggeva con una certa curiosità, ricercando sempre una frase speciale, un giudizio rivelatore; ma non trovava nulla. In seguito si delineò qualche contorno. La corrispondente si stancava delle nuvole. Non voleva essere conosciuta da lui; ciò avrebbe guastato tutto. Aveva dei doveri — odiosi. Non poteva ricevere lettere. Descriveva la paura, il batticore con cui impostava, in una buca remota, la lettera. Non si sarebbero visti mai, mai. In cielo, forse, un giorno. Era ascetica, di quell’ascetismo mondano che mescola singolarmente le cose profane e le cose sacre, che le fanciulle meridionali imparano nelle troppo ardenti esclamazioni delle preghiere. Ogni tanto, sotto l’inamidato gonfiamento del periodo, trapelava qualche ingenuità bella e buona. Finalmente aveva detto che era maritata — orribilmente maritata. Come è naturale in ogni signora che scrive ad un uomo, ella non amava suo marito. Il perchè poi, non poteva dirlo. Era la sventura della sua vita. Adoperava delle frasi da romanzo francese, di quelli così brutti che scrivono Montépin e Ponson du Terrail. Al terzo mese della corrispondenza ella precipitò assolutamente nella realtà e confessò a Marcello che lo amava di amore, da lunghissimo tempo. Un amore forte, contrastato, invincibile. Nè il tempo, nè Dio avevano potuto domarlo — come si dice nella poesia di una stupida romanza. Il suo amore non era colpevole, poichè ella non si sarebbe mai manifestata a Marcello. Temeva il suo disprezzo. Anzitutto essere stimata dal solo uomo che amava sulla terra. Questo le bastava. Infine, un amore come il suo, che non aveva speranza, che aveva il coraggio di non fare un passo verso lui, che trovava in se stesso, la forza del sacrifizio, meritava almeno la gratitudine. Ora datava le sue lettere stranamente. Scriveva dopo la festa, alle cinque del mattino, coi fiori sul capo e i brillanti al collo; di domenica, all’una pomeridiana, dopo la messa cantata a San Ferdinando; alle otto di sera prima di andare in teatro, in piedi, coi guanti; alle nove del mattino, nel bosco di Capodimonte, sotto un albero; in camera sua, di sera, dopo l’affannosa lettura di Madame Bovary — e via di questo passo. Da qualche parolina sfuggita alla penna che diventava malcauta, si comprendeva che la signora vedeva qualche volta Marcello.
Sul principio, queste lettere interessavano vivamente colui che le riceveva. Quei divagamenti di uno spirito annoiato e disoccupato, quei lamenti indefiniti, quelle aspirazioni poetiche, lo seducevano come la lettura di un bel libro dalle pagine attraenti. Per qualche tempo credette in un’amica sconosciuta, lontana o vicina, lasciandosi vincere da quelle morbide tenerezze che sono gli errori del sentimento; si cullò in quelle illusioni, che si crea l’anima nei suoi vari tentativi di sottrarsi alla vita corporea; sognò quelle mistiche amicizie, di cui è stata ammalata ogni eletta fantasia. Ma fu breve periodo. L’aridità, la falsità di quello che ella scriveva, di quello che egli sentiva, gli si rizzarono innanzi. Non se ne dolse neppure: ora leggeva quelle lettere solo per curiosità, per sapere se quella donna si burlasse di lui o di se stessa; nè si poteva giudicare tanto facilmente. Ella era volubile, suo malgrado, forse. Si contraddiceva senza accorgersene. A volte sembrava in buona fede: a volte una squisitissima civetteria, la civetteria del sentimento, la peggiore, trapelava dalle sue parole. Marcello ne sorrideva, ma di nulla era certo. Sapeva soltanto una cosa: che necessariamente quella donna avrebbe sollevato ad uno ad uno tutti i veli che la nascondevano a lui, che tutto quell’apparato sentimentale — recitasse ella la commedia o dicesse la verità — non l’avrebbe condotta che all’eterno risultato di tutti gli amori: il semplice amore, l’amore.
Per questo non tentò di fare alcuna ricerca, non si occupò minuziosamente a raccogliere indizi come avrebbe potuto. In quella avventura egli poteva rimanere passivo, attendendo che si svolgesse solitariamente: la sua indolenza ne profittò. Seguiva con un certo interesse il progresso lento e sicuro di quel fatto umano, ma da semplice spettatore. Pareva che quelle lettere non fossero dirette a lui, Marcello Sangiorgio; lusingavano il suo amor proprio, nulla più. Non lo infastidivano, non lo dilettavano, non lo addoloravano; non agivano direttamente su lui, lo lasciavano indifferente. Questa donna dice d’amarmi — pensava talvolta tra sè — ma non deve essere vero, perchè non arriva neppure a commuovermi. — E la dimenticava. Sapeva bene che un giorno qualche cosa di serio sarebbe accaduto; ma egli non voleva mai fermarsi troppo sull’avvenire.
Quella mattina lesse la lettera giornaliera sbadatamente. Colei che gli scriveva era in collera; non lo aveva visto da dieci giorni. I teatri erano chiusi, la città si empiva di provinciali che venivano per i bagni di mare, molte famiglie aristocratiche erano già partite per la campagna, ella avrebbe dovuto partire presto, nella prima quindicina di agosto. La villeggiatura le sarebbe parsa desolata, senza la speranza di vederlo. Se non avesse giurato a sè stessa di restare ignota, avrebbe ceduto alla irresistibile tentazione di rivelarglisi...
Marcello leggendo, ebbe un piccolo sorriso di modestia appagata. E così arrivò sino in fondo alla lettera: ma in fondo alla lettera, la sua corrispondente aveva scritto:
«.... Meglio non conoscermi. Voi siete infelice: voi finirete per amarmi. La duchessa di Sangiorgio non vi ama. Lo so, perchè me lo ha detto lei.»
Il sorriso gli morì sulle labbra e l’angoscia dei suoi cattivi giorni lo strinse al cuore. No, no, egli non poteva reggerci. La sua miseria era troppo grande, troppo grande. Gliela gettavano in viso come un insulto, come un rimprovero. Era addolorato ed umiliato; si sentiva offeso dalla pietà di quella donna....
Sul tavolo era un’altra lettera, ma piccina; un biglietto. Sul foglietto, profumato fortemente, erano scritte queste parole di un carattere ignoto ma che egli indovinò:
«Venite dunque, sono ammalata.»
La cameriera lo condusse silenziosamente, attraverso tutto l’appartamento deserto, richiudendo senza rumore le porte dietro sè. Marcello non osò chiederle nulla, compreso ad un tratto da un senso di sgomento. Ella gli aperse un ultimo uscio di un salotto, dove non era mai stato, lo introdusse nella camera e lo lasciò, sempre senza pronunziare una parola.
Le imposte chiuse avevano creata lì dentro una notte artificiale; ma una lampada era accesa, moderata da un paralume azzurro. Nel fondo della camera il piccolo letto si perdeva in una nuvola bianca, dalla lieve ombratura azzurrina. Ma l’ammalata giaceva sulla bassa dormeuse. Ella giaceva lungo-distesa, col capo perduto nei cuscini, il collo un po’ sollevato, vestita di un abito di lana bianco, metà del corpo nascosto da un manto di velluto nero. Chiusi gli occhi, le nari terree, la bocca semiaperta, le mani inerti e abbandonate lungo la persona; tutte le linee del volto diminuite, quasi corrose dal male.
— È morta — pensò Marcello.
E fu sopraffatto dal terrore di quel corpo immobile, vestito di bianco come pel funerale, di quel lugubre manto nero. Si chinò verso lei, fascinato, per vederla meglio. Ella respirava. Un sospiro di sollievo uscì dal suo petto, quasi si liberasse da un incubo.
— Lalla — mormorò sottovoce.
Ella non rispose; ma agitò una mano, come se dicesse che non poteva parlare e che lo ascoltava.
— Soffrite molto, molto?
Una espressione d’indicibile sofferenza si diffuse su quel volto, scomponendolo, quasi una mano crudele ne torcesse tutte le fibre.
— È spaventoso — diss’egli, sgomentato di nuovo — nulla può sollevarvi?
Ella alzò la mano e gl’indicò una boccettina sovra una mensola. Egli la prese e vi lesse sulla cartina apposta dal farmacista: idrato di cloralio.
— Un veleno, voi vi ucciderete — disse egli, tornando presso di lei e sedendo sopra uno sgabello.
Ella non si mosse come se non avesse udito. Quel feroce attacco nevralgico la immobilizzava in un dolore ineffabile; il suo aspetto letargico commoveva più di qualunque convulsione spasmodica.
— Non potete dirmi qualche cosa, Lalla? Io mi struggo nel pensiero delle vostre sofferenze e non son capace di far nulla per voi. Se potete, ditemi qualche cosa.
Ella tentò di parlare, ma la voce dovette morirle nella gola. Invece fece uno sforzo e gli dette una mano. Egli prese quella mano, se la strinse al petto, la baciò lungamente; la sentì fremere, raggricchiarsi in quella stretta, sotto quel bacio.
— Vi fa male forse il suono della mia voce? Volete che io taccia? Mi permettete che io vi dica ogni tanto qualche cosa, sottovoce, nell’orecchio?
Ella rispose di sì, premendogli lievemente le dita.
— Non so da quanto tempo siate ammalata, mia buona amica. Ma questo accesso non ha potuto venire d’un tratto: avete dovuto star male da varii giorni. Non posso pensare che siate stata qui sola, senza un parente, senza un amico, senza una persona affettuosa. Avreste dovuto scrivermi prima. Sarei accorso....
— Non sorridete così — riprese egli con voce triste; — quando mettete in dubbio la mia devozione, mi affliggete.
Il sorriso lievemente ironico scomparve. Anzi quella povera testa, dai bei capelli biondo-castani, sparsi per l’origliere, parve avesse fatto un piccolo movimento.
— Siete troppo affondata nei cuscini forse? Volete che vi aiuti a mutar posizione?... No? Scusate la mia insistenza... È venuto Paolo Collemagno?... Questo nome vi irrita? Non ne parliamo più. Perdonatemi; invece di farvi star meglio, vi fo male.
Un lungo silenzio succedette. Una grande quiete era nella camera. Sul raso bianco delle pareti, sul raso bianco del mobilio, la lampada, chiusa nel paralume azzurro, gittava una tinta glauca. A capoletto, un bel Gesù troppo giovane, dalla barba troppo bionda, dagli occhi troppo celesti e pensosi, squarciava il suo seno e mostrava il suo cuore, traboccante di un sangue che era fiamma di amore. Ma Marcello vedeva queste cose come in sogno, quando alcuni particolari si accentuano profondamente, senza ragione, mentre alcuni sfuggono e mentre l’anima si assorbe nella contemplazione della sua idea dominante.
— Vorrei avere io il vostro male — mormorò egli con quella ingenua, quasi infantile abnegazione dei cuori buoni; — vorrei essere io ammalato; sono forte e potrei sopportarlo. Datemi il vostro male, cara, datemelo, fatemi stare ammalato in vece vostra... datemi il vostro male...
Le diceva queste cose molto davvicino, con un soffio che doveva carezzarle la guancia. Ella aprì gli occhi e lo fissò con uno sguardo freddo, duro, quasi inanimato; poi li richiuse.
— È vero — rispose egli, colpito da quella occhiata glaciale — io non ho il diritto di dirvi queste cose. Altri forse lo ha. Voi non sapete che farvi della mia stima... della mia amicizia... del mio affetto...
Un singulto profondo, straziante, lacerò il petto di Lalla: un singulto solo. Ella, sempre immobile, con gli occhi chiusi, la bocca stretta, piangeva silenziosamente, senza scosse, senza sussulti. Le lagrime le sgorgavano di sotto le palpebre, le rigavano il volto, le cadevano sul collo; il volto impallidiva ed arrossiva, come se un fiotto di sangue vi salisse per abbandonarlo dopo un momento.
— Che avete? — chiese egli, turbato sempre più. — Cresce forse il vostro male?
Lalla gli accennò di no e gli indicò la taschettina esterna del suo abito, dove era il fazzoletto. Egli lo prese e lievemente lo passò su quelle guance smunte, per asciugarle. Il pietoso ufficio parve la consolasse, un sorriso buono comparì sulle sue labbra impallidite; le lagrime avevano dovuto ammorbidire l’acutezza del suo dolore. Egli si arrestava a guardarla, col fazzolettino in mano, leggero, profumato, bagnato di lagrime: non osava rimetterlo nella taschetta dell’abito di lei; non osava serbarlo. Quella pietà affettuosa per la giovane ammalata lo agitava profondamente; l’ambiente strano, fittizio, di quella camera illuminata dalla lampada in pieno meriggio, il Cristo che si squarciava il seno, il cloralio sulla mensola, alcuni abiti gettati a caso sopra una sedia, il lettino perduto in una nebulosità vaporosa, tutte queste cose cominciavano a confondersi nella sua mente.
— È qui che soffrite di più? — chiese egli, indicando la fronte.
Ella prese una sua mano e se la posò sulla fronte. Una fronte fredda. Alcuni ricciolini smarriti rimasero sotto la palma, vellicandola leggermente; quei capellucci erano un po’ ispidi all’occhio, ma fini e morbidi al tatto. Sotto la punta delle dita, egli sentiva l’arteria gonfia, battere precipitosamente, come se il sangue gorgogliasse contro le pareti per uscirne fuori. L’urto nervoso doveva essere arrivato al suo massimo grado. Pure egli sentì un piacere celato ad avere sotto le dita quel palpito di una vitalità moltiplicata, esagerata; poi si rimproverò quell’egoistico piacere.
— Non vi do fastidio, Lalla? — le domandò, provando il bisogno di chiamarla per nome, mettendo così tra loro un’altra intimità.
Ella fece un cenno di diniego. Non trovava ancora la forza di pronunziare una parola; ma ogni tanto una piccola scossa, oppure un brivido, la faceva tremare da capo a piedi. Marcello sentiva comunicarsi quel brivido dalla mano che poggiava sulla fronte di lei e passargli nel braccio e invaderlo tutto. Lei non lo vedeva, aveva chiusi gli occhi: egli nascose il volto nel fazzolettino, inebbriandosi di quel profumo: e la guardò come un fanciullo che tema di essere colto in flagranza. Lalla lo fissava coi suoi grandi occhi spalancati.
— Perdonatemi — mormorò egli; — voi avete molte cose da perdonarmi.
Lei non fece un cenno, nessuna nuova espressione si dipinse sul suo viso.
— Ditemi una parola sola, se potete, Lalla; fatemi sentire la vostra voce... Non potete? È vero che non potete? Non so, ma ora il vostro silenzio mi fa male, mi addolora. Pare che non abbiate più parole per me, nè buone nè cattive.
Lalla continuava a guardarlo freddamente. Era divenuta pallida, di un pallore uguale, quasi perlaceo; sembravano più neri, più profondi gli occhi; le labbra si coloravano, tremavano lievemente; la testina si affondava dippiù nei cuscini, quasi vi scompariva. Il dolore quietato, smussato per poco, riprendeva la sua acutezza. Egli se ne accorse.
— Vi tengo discorsi sciocchi, ma non posso vedervi ammalata. Che io non possa far nulla, proprio nulla per voi?
Lalla lo guardò così stranamente, che egli sentì darsi un tuffo al cuore; balbettò, si confuse...
— ... Volevo dire... una medicina... una parola... una idea, qualche cosa... non vi è niente, nevvero? Avete ragione.
E si tacque. Non pensava neppure. Si fermava a contemplare uno per uno gli oggetti dattorno, con grande attenzione, per evitare di guardar lei. Ma irresistibilmente ritornò ad essa. La rivide come nel primo momento in cui l’aveva scorta, bianca, immobile, rigida, nell’abito di lana bianca, con quelle linee stecchite che hanno i cadaveri, coperta da un funebre manto di velluto nero.
— Lalla, Lalla, per carità, ditemi una parola! Voi mi fate paura! Sollevatevi un poco.
E le passò un braccio al collo per rialzarla. Uno spasimo doloroso la fece scuotere; ella si strinse a lui tenacemente con un impeto nervoso e passionato, guardandolo negli occhi e dicendogli nel collo, con la sua voce soffocata:
— Marcello, Marcello, Marcello!