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DAL VERO


— Senti — disse lei, sbarrandogli il passo, mentre lui pigliava il cappello per uscire — senti!... c’è stato un giorno che con Alberto di Crestelle ci siamo dati del tu. —

Lui alzò le spalle, incredulo, impazientito; voleva andar via.

— Senti — replicò lei con un tremito nella voce — ora va pure, ma ho voluto dirtelo, giacchè ora siamo pari.

Che gl’importava, a lui? Quell’altra lo aspettava, era tardi.

— Ah, sì? — chiese in atto di sfida, tanto per dire qualcosa; e, senza aspettare risposta, quasi ad esprimere: dunque ora lo vedrai! si chiuse dietro l’uscio del salotto con impeto. Commedie sciocche o verità, cui era meglio non replicare; più eloquente la dignità del silenzio. Stupida! Ora anche quell’ombra di rimorso che gli annebbiava le sue ore d’amore, con quell’altra, dileguerebbe per sempre. Stupida! Il solo ritegno a più libere gioie con quell’altra; il solo legame che ancora lo riconduceva, la sera, tardi, alla sua casa, la moglie lo aveva rotto con quelle parole sfacciate... Tanto meglio!... Che cosa mai poteva sperare di più comodo, di più delizioso?... Vero o no, d’ora in avanti, più nessun riguardo: non lo aveva tradito anche lei?... non s’era fatta sposare senz’amarlo... amandone un’altro?... E forse l’altro non l’aveva voluta sposare... E lui?... lui s’era lasciato illudere da quella sua aria di candore... e tutto era stato falso?... Che gl’importava?... Tanto meglio!...

Passò dinanzi un teatro: dalla gran porta uscivano e fluttuavano nell’aria fresca dell’aprile, tepide emanazioni di buon tabacco di Smirne e di Tabasco, miste ai mille profumi indefinibili che si lascian dietro le belle signore impellicciate e ridenti. Una folata fragrante passò sul volto di Guido, ma la scena che gli suscitò in mente di palchetti e di luce, di dame ingioiellate, di falsi sorrisi e di false parole, tutte le nauseanti commedie della commedia mondana, fu stranamente fuggevole, e lasciò subito il posto a una più dolce visione...

Là, tra quelle colline, in quell’angolo cheto dimondo, in quel viale di vecchie querce, s’eran dette le parole sante che il cuore non dimentica più. Non deliri, non ebbrezze spensierate, ma il forte, il serio sentimento di due cuori buoni, di due intelligenze robuste che s’incontrano, s’intendono, si stimano, e s’amano anche per questo. Quanti ostacoli avevan dovuto superare, quanti dubbi, quanti affanni, quante speranze rotte prima di raggiungere quella mèta cara! E lui, quando fuggendo dalla città, dal rumore, dalle leggerezze mondane, giungeva a quel cantuccio di paradiso, da lei, che lo attendeva in fondo al giardino, sotto le querce e lo accoglieva sempre con quelle parole così semplici e così innamorate, le parole che sapeva dire lei sola, con quegli sguardi ardenti e casti ad un tempo, e gli parlava seria di quel suo amore immenso, e gli baciava le mani con quella sua espressione altera del volto, che, anche inginocchiata innanzi a qualcuno, l’avrebbe fatta parere una regina o una santa, lui si sentiva rinascere, si sentiva felice; un’onda di fede, di tenerezza purissima lo avvolgeva tutto, una grande smania lo prendeva di ringraziare qualcuno, di conoscere Dio, di gridargli la sua gioia.

Erano sposi da tre anni. Si sa, il tempo... Ormai niente e nessuno più gliela contendeva; per tre anni s’erano amati liberamente, scambiando pensieri e carezze, racconti e baci, rimembranze e sospiri. Poi, si sa, seguitando pure ad amarla, un’altra gli era parsa desiderabile, gli era piaciuta, lo aveva amato, e lui, anche lui, si sa. Ma per questo si doveva insudiciargli quell’immacolato sogno di tanti anni? Così, era stato tutto falso? la passione, l’alterezza, il candore? Quei vesperi indimenticabili, quando tornavano silenziosi da una lunga passeggiata insieme agli altri, e a uno svolto di via, dietro un fosso, le ombre della sera facendolo audace, egli stringeva rapidamente alla vita la sua fanciulla, e la sentiva fremere d’amore e di sgomento? E quando la sera, prima di lasciarsi, si stringevan la mano, guardandosi negli occhi, vibranti d’un solo desiderio: rivedersi presto il domani! e quando poi, lontani, vivevano lunghi giorni, scambiandosi rari segni di ricordo d’amore, ma sempre sicuri, sempre tranquilli, fra dubbi passeggeri e passeggere paure, fidenti in fondo nel proprio carattere e forti del loro amore... Tutto era falso, tutto era falso? Certo, d’ora innanzi, la libertà sarebbe maggiore... Ma quando, uscendo dalla casa di quell’altra che per lui tradiva il marito, s’avvierebbe alla casa propria, quel senso indefinibile di sicurezza e di pace non l’avrebbe più ritrovato... Il suo mondo buono glielo avevano distrutto... E... se non fosso vero? se fosse soltanto smania di vendetta?... Pure era così sincero l’accento!... Ma... se il veleno che gli aveva messo in cuore ella lo avesse attinto dalla gelosia solamente? Ma, Dio! che doveve importare di quell’altra? lei, sua moglie, lei?!... Oh, non capiva dunque come l’amava? come era diverso l’amore per lei, la fiducia in lei, il bene immenso e alto che le voleva?! che le aveva voluto?... Adesso non più, s’intende, adesso era finita: tutto quel dolce passato infangato, non più un ricordo santo, non più una dolcezza vera da rigustare con la memoria, non più un’ora d’intimi colloqui da cuore a cuore, nella piena fede dell’intelletto che c’intende, dell’anima che ci ama... Che porta era quella? Ebbene, sì! giacchè senza avvedersene era tornato a casa, giacchè la sorte lo riconduceva da lei, saprebbe il vero finalmente; doveva, voleva sapere. Mise la chiave nella toppa ed entrò.

Mezz’ora innanzi, lei era corsa a rinchiudersi in camera sua, con la febbre. Pallida, le labbra tremanti, stretta la gola da un singhiozzo che l’orgoglio ricacciava indietro ostinatamente, andava ripetendo a bassa voce, con la concitazione dello smarrimento: — Infame!... Infame!... — e quasi ad inacerbire quell’angoscia intensa che già provava, rievocava il passato, le promesse, le carezze appassionate, le lunghe conversazioni piene di fiducioso abbandono, confessioni di pensieri segreti, di aspirazioni intime, d’idee strane e formulate appena, in nebbia, nella propria mente. Poi tutte le vanità ch’essa aveva saputo schiacciare, le seduzioni cui essa avevo potuto resistere, le battaglie della ragione, della logica, dell’orgoglio, della materna esperienza, ch’essa aveva dovuto combattere e vincere, per giungere ad esser sua, per potergli dare la sua anima vergine e i suoi primi baci, per chiudere in lui tutto il suo mondo e non aver altro padrone, altro sovrano, altro Dio che lui solo. No, non poteva più stare là; sarebbe tornata dalla sua mamma; solo allora, nella casa che l’aveva vista bambina, la casa cara e santa ch’essa aveva lasciata per correr dietro a quell’uomo; solo quando avesse potuto buttare le braccia al collo della sua mamma, solo con lei, strappata quella pesante maschera, avrebbe finalmente, potuto piangere, piangere dirottamente, con l’abbandono della disperazione lungamente nascosta e frenata da quel demone dell’orgoglio, del risentimento feroce, che adesso le serrava la gola e non le permetteva le lacrime. — No, no, lui non meritava di sapere quanto lei lo avesse amato! — E mentre il pianto le gonfiava ormai gli occhi, e mentre, con le mani tremanti, metteva alla rinfusa in una valigia oggetti disparati ed inutili, quasi a convincersi che la sua ragione l’aveva tutta, e una volta fermato un piano sapeva ad ogni costo seguirlo, la sua mente mutava pensiero. Bisognava lasciarlo, oh questa sì, me quel sospetto odioso non doveva restargli: e tolto da uno stipo, fra molte carte, una lettera, l’aveva portata correndo sulla scrivania del marito; poi era tornata nella sua camera a chiudere la valigia... singhiozzando.

Rientrando Guido nel salotto, lo trovò deserto. Meglio; avrebbe avuto il tempo di calmarsi prima di parlare con lei.

Il cameriere accorso all’impaziente squillare della soneria, stette invano paziente e rigido cinque buoni minuti sull’uscio. Il padrone stava evidentemente cercando un libro o un giornale, o forse chiedendosi perchè mai avesse chiamato quel servo. Finalmente, trovato quel che cercava, ordinò si accendesse la lampada dello studio. Quando fu solo e mentre si toglieva i guanti, pensando a ciò che avrebbe detto a sua moglie, vide la lettera e subito la prese e l’aprì. Era d’Alberto. — Una lettera un po’ ingiallita e gualcita, che portava la data di tre anni innanzi, il venti d’aprile, la vigilia del matrimonio. Lesse.

«Signorina Bice,

Quando con la spavalda sicurezza che m’avevan dato molte turpi anime, e molti falsi e facili trionfi, vi offersi un nome, che, essendo illustre e glorioso, credevo allora dovesse bastare a rendermi glorioso ed illustre a mia volta, e vi offersi la mia fortuna, che, stupidamente colossale, credevo dovesse affascinarvi senz’altro; voi, senz’ombra di civetteria, senza beffardi sogghigni, senza ingenerosa crudeltà, nè per niente eccitata dalla vittoria che in certo modo riportavate sulla mia sciocca imprudenza, voi mi rispondeste, tranquilla e seria, franca e mitissima, che mi eravate grata della fiducia che riponevo nel vostro carattere, offrendovi la custodia di un nome così immacolato ed illustre, ma che voi... non m’amavate, e che per me non avreste sentito mai altro che amicizia costante, serena. Allora come un gran velo mi cadde dagli occhi: io scettico, nauseato, cattivo, io nel dolore di quella rovina di amore e di certezze, più che di speranze, provai come una forte gioia, un sentimento nuovo, che mi prese con la soavità di una carezza materna. Un sano alito di lealtà e d’innocenza mi passò nell’anima e vi suscitò un mondo di dolcezze sopite, di credenze buone; molte serene immagini viste e sognate da fanciullo mi si riaffacciarono alla memoria, molte parole profonde mi suonarono nel cuore con più chiaro senso. Un gran rivolgimento si fece nel mio carattere, nella mia indole non perversa, ma sviata, ma guasta dalle lusinghe e dalle bestemmie del volgo, oltre il quale non avevo pensato potesse essere un altro mondo, più intimo e vero, più sicuro ed onesto.

Da quel giorno è passato un anno. Ora so che domani andate sposa a Guido Alvieri che mi dicono degno di voi.

Invece di mandare alla sposa un sonetto, o un mazzo di fiori, io le mando questa mia dichiarazione di ravvedimento.

Parto domani per un lungo viaggio in Oriente; mi stabilirò in Inghilterra, tornando. A voi sarò grato sempre.

Pensate se non vi auguro di tutto cuore la gioia che meritate tanto.

Alberto di...»

Quando Guido entrò in camera di sua moglie, la trovò seduta innanzi al tavolino, col volto nascosto tra le mani e volto e mani come affondati tra i libri e le carte della scrivania. Aveva pianto lungamente come una bambina, e quel forte martellare delle tempie che segue il gran piangere, così doloroso e stupefacente, l’aveva finalmente immersa nel faticoso sopore, pieno di fantasmi affannosi, d’incubi e di sussulti, che riempie le brevi tregue delle forti angosce. Furono i baci di suo marito che la svegliarono. Sono scene che non si raccontano. La cessazione del dubbio e del dolore (s’è detto) è la vera e sola felicità. Lui ormai era sicuro, più sicuro di prima. Lei aveva ben visto, non è vero? che egli era tornato subito, pazzo di gelosia? E quanto aveva sofferto! Una eternità di spasimo in quell’ora. E credesse, lo giurava, quell’altra era stata un capriccio, un breve capriccio, una leggerezza che malediceva furiosamente, ma sapeva bene, lei era una cosa così diversa!... Ma come mai poteva essere gelosa? gelosa lei, lei il suo amore bello e santo, la sua vita e la sua fede unica, l’intelligenza e la bontà, la donna ideale? Ma, Dio buono, come mai, come mai?...

E tutte le parole di tre anni innanzi, le parole che trovava laggiù al cospetto del libero cielo, delle vecchie querce severe, le parole che gli erompevano calde dal cuore profondo, nell’abbandono innamorato di tutto il suo essere, tornavano adesso alle sue labbra felici, dalla sua anima rassicurata e alleggerita da quell’enorme valanga di vergogne ineffabili, che gli si era ingrossata dentro, nel breve giro di un’ora...

Fu un ringiovanimento di amore, un nuovo e forte rigoglio di perdono, d’espansioni, di sconfinata fiducia, come un largo appianarsi d’onde tempestose al soffio d’una primavera serena, un rifiorimento trionfale di felicità. E una sera, dopo un colloquio giocondo tutto intimità adorabili e adorabili confessioni, un colloquio in cui ciascuno avea messa la più sincera e viva parte della propria intelligenza e del proprio sentimento, lui, pasciuto di sante gioie e di alte gioie, di sana tenerezza e di legittimo amore, lui più sicuro che mai, e più che mai pago del suo passato e del suo presente invidiabile, della sua donna e del suo domestico nido, lui provò come un senso delicatissimo di pietà profonda per chi era tanto, o tanto meno felice di lui, e... tornò da quell’altra che, poveretta, gli aveva scritto venti lettere invano; tornò... persuaso di non offendere, di non tradire niente affatto il suo amore bello e santo che lui amava in modo tanto diverso, oh più che mai, più che mai!... ch’egli adorava tanto più fortemente e nobilmente di quell’altra... di quell’altra cui «il suo amore bello e santo» non doveva pur confrontarsi in un pensiero, di cui non doveva, oh no, essere gelosa.

Dio buono! come mai? come mai?

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