< Dal vero (Serao)
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Commiato
Silvia

COMMIATO.

Alcuni mi dicono: Voi siete triste. In quello che scrivete vi è sempre un’ombra di malinconia; anche quando scherzate, compare ogni tanto un pensiero mesto.

Altri esclamano: Beata voi con la vostra gioventù e l’allegria! La gioia schizza fuori dalle parole, il buonumore vi si appalesa; quando cominciate un’elegia, terminate sempre in un inno.

Io non rispondo e penso. Non so nulla di questo, è sicuro; non mi ricordo se sono stata allegra o malinconica, lo stato del mio animo mi è sfuggito. Sforzo la mia memoria; è inutile, essa ha obbliato l’impressione di quel momento fuggevole.

Vediamo allora che ne dice il pubblico. Ma ogni particella di questo pubblico è un’anima che sente, una mente che ragiona, una volontà che opera; ogni particella di questo pubblico è un individuo con le sue inclinazioni, i suoi gusti, le sue passioni; è un individuo col proprio carattere. Pensare questo, è semplicemente spaventoso per lo scrittore

Che può l’artista? Può nelle sue veglie tormentose provare lo spasimo di una idea che rimane velata, latente, incognita, lontana o vicina ma inafferrabile: può inginocchiarsi, battere la fronte sulla nuda terra, spargere lagrime impotenti e supplicare così l’idea di sollevare il suo velo, di rivelargli il volto fulgido, dovesse pure rimanerne acciecato; può, felicissimo evocatore, veder apparire nella notte la celeste fantasima e gridarle: Salve, o divina! Tu sei visione ed io ti farò realtà: tu tremoli come un’apparizione al limitare del mondo esistente ed io renderò fermo il tuo passo e vera la tua vita; ti darò la parola che è suono, che è luce, che è calore, che è sentimento; ti darò per farti vivere la mia anima ed il mio cuore — e tu, parte di me migliore, da me distaccata, da me creata, esisterai!

Ma, dopo questo, l’artista si ritrova deserto e solitario. Si guarda dattorno: qualche cosa gli manca, ha la sensazione di un vuoto enorme. Gli manca il suo grande amico, il giustiziere sconosciuto, il cervello immenso che accoglie e fa sue tutte le novelle idee, l’anima straordinaria che comprende, indovina, intuisce tutte le vere passioni: l’artista ha bisogno di una eco potente, sia di biasimo, sia di plauso: ha bisogno dello sprone che gli punga i fianchi come ad indomito corsiero; ha bisogno della voce imperiosa che gli faccia bollire il sangue nelle vene. Così fra l’artista ed il pubblico si stabilisce un invincibile legame che nulla potrà spezzare.

Mi ricordo, un giorno non molto lontano, mi parve di avere in qualche parte del mondo un amico incognito a cui dovessi scrivere tante, tante cose; la penna correva, correva, le parole fuggivano rapidamente come foglie trasportate dal vento autunnale; senza essere chiamati, i pensieri tumultuavano, affannandosi, accavallandosi; si moltiplicavano senza numero le idee vecchie e nuove, i ricordi e le speranze, le aspirazioni e tutto questo nella forma che più conveniva alla spinta potente che li urtava. Nulla poteva arrestarmi: noncurante della età giovanile, della scarsa esperienza che doveva trarmi in inganno, dei pericoli che potevano sorgere ad ogni passo, delle lotte che mi aspettavano al varco, delle molte probabilità di caduta, io ho continuato a lavorare, guardando sorridente il chiuso avvenire. L’amico non mi rispondeva; solo ad intervalli, ora per una bocca, ora per un’altra mi giungeva una parola: una parola talvolta amabile, talvolta severa — e gli scoraggiamenti profondi o le novelle speranze mi erano sempre salutari. Nulla poteva arrestarmi: quanto nasceva nella fantasia, quanto era frutto di osservazione, quanto era corrispondente ad una impressione io ho scritto al mio amico. Come era la vita sua, come era la vita mia, volta a volta il sorriso malinconico o la lagrima gioconda, si sono trasfusi involontariamente nelle mie parole, e quando, dopo un anno di questa corsa, io ho preso fiato per un momento, mi accorsi che avevo scritto un libro e che l’amico era il pubblico.

Ora, amico lettore, il libro è terminato: grata notizia, nevvero? Per me no. Chiedi a chiunque abbia mai veduto il suo lavoro pronto a partire, se non gli è parso nel momento che vergava la parola fine, di sentire una stretta dolorosa al cuore; se alla soddisfazione dell’amor proprio non si è unito un senso vago di mestizia. È forse quel tremore che invade il pellegrino quando s’incammina per contrade ignote, è forse quella sfiducia di sè e della propria opera che assale ogni spirito; è forse per la divisione da una cosa che vi fu lungamente e arcilungamente cara: perchè per quanto meschine, per quanto grette per quanto contraffatte siano queste deboli creature che si distaccano da noi, noi non possiamo impedirci di voler loro bene; e sapendo quanto dubbia sia la loro sorte, quanto dubbia sia la loro fortuna, si rimane esitanti, un po’ inquieti, un po’ crucciati.

E mentre il libro nuovo, bello, fiero della sua apparenza fresca, se ne va tutto ardito pel mondo, provando le sue forze e credendo di trovare tutti visi cortesi e paroline benevoli, l’autore si agita sua casa deserta e si affanna pel caro assente e si pente di averlo lasciato andare: e pensa alla critica che lo incontrerà per la via e non mancherà di chiedergli con qual diritto viaggia per l’Italia; pensa a coloro che per preconcetto guardano in cagnesco ogni lavoro novello; pensa alla oscurità del suo nome....

— Almeno — egli dice fra sè — almeno questo mio libro raccogliesse un sol sorriso, ritrovasse un sol amico; avrei la consolazione di averlo scritto per quell’uno! Ma tutto questo è inutile, buon lettore: tu hai finito di leggere ed io non posso chiederti se hai sorriso.

Fine.

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