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SILVIA.
Ad Alberto Errera.
I.
La cittaduzza era silenziosa e deserta in quel lunghissimo pomeriggio estivo; nelle sue strade grigie e ben allineate non appariva un viandante; i balconi delle sue case, alti, dal sesto antico, dalla incurvatura profonda, erano tutti chiusi; le porte brune, massiccie, costellate di chiodi, dal pesante martello di ferro, erano anche esse sbarrate. Invano il cielo si serenava, impallidendo; invano si appressavano chetamente le dolcezze del tramonto, invano giungeva il misterioso e malinconico momento della giornata tanto somigliante all’autunno, tanto somigliante al declinare della vita; i buoni provinciali non si curano di tutto ciò, nulla sanno di tramonti e preferiscono dormire in quelle ore, dormire di quel sonno pesante e morboso che lascia le membra spossate, la bocca amara e la mente confusa. Solo Silvia rimaneva seduta dietro i vetri del suo balcone: aveva rialzata la stretta tendina ingiallita, appuntandola con uno spillo per non lasciarla ricadere, ed immobile, le mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello di legno, ella attendeva con pazienza che le ore trascorressero. Ma in quel posto non l’aveva attirata lusinga di gaio o di mesto spettacolo; Silvia non guardava nella strada, non rivolgeva gli occhi all’ultima linea di verde che confinava con l’orizzonte, nè li alzava al cielo crepuscolare: queste cose, come tutte le altre, non la interessavano o punto. Era venuta là per abitudine, senza noia e senza diletto, per la medesima ragione che la faceva alzare alle sei di mattina e coricare alle undici di sera. Da trentadue anni, nel pomeriggio, stava seduta dietro i vetri del balcone — e tutta la sua vita passata era rappresentata da una fredda e indifferente abitudine.
Pure essa era stata bambina, adolescente, giovinetta; la sua parte di sorriso, e di gioia aveva dovuto averla; invece se rivolgeva lo sguardo indietro, sugli anni fuggiti, non iscorgeva che una superficie bigia ed uniforme. Piccina ancora, ricordava le figure severe ed accigliate dei nonni che le mettevano paura, i volti volgari e le voci grossolane degli zii, sempre pronti a sgridarla, la ciera pallida e noncurante di un padre egoista che non la baciava mai. La casa era triste, vecchia, e vi si parlava sotto voce e i mobili antichi, grandi ed angolosi, assumevano nell’ombra forme spaventose; nei quadri dove si contemplavano le battaglie del primo Napoleone, dominava il rosso acceso, come se ancora il sangue vi scorresse; mai altri fanciulli, mai giuochi, mai risa, mai un viso giovane, mai qualcuno che le parlasse della madre, morta troppo presto. La bambina andava a scuola da due zitellone barbute che le facevano imparare interminabili brani di storia sacra, ed eseguire lunghi e monotoni lavori a maglia; a casa il pranzo taciturno, lo studio sotto gli occhi di una serva brontolona, le orazioni ed il letto. Sempre lo stesso metodo, sempre le stesse persone, sempre le stesse cose. Allora nell’anima crescente di Silvia s’impresse la tinta oscura ed eguale dell’ambiente in cui viveva; tutti i sentimenti freschi e giovanili si spensero sul nascere; i suoi nervi furono ammolliti, dominati, vinti; nel suo corpo, nel suo viso vi fu qualche cosa di troppo vecchio, di troppo saggio. Vennero i suoi sedici anni, e la trovarono grave, misurata, parca di parole e di sorrisi; lasciò la scuola ed ebbe con le chiavi, il governo della casa.
Silvia se ne occupava con molta esattezza, ma senza una soverchia premura: andava, veniva dal terrazzo al granaio, dal granaio in cucina, dalla cucina nelle camere da letto, senza mai affrettare il suo passo, non dimostrando mai alcun fastidio, non andando mai in collera, non alzando mai la voce. Era una figura alta e magra, vestita di grigio o di nero invariabilmente, coi colletti di tela, bianchissimi, diritti, puritani, col grembiule nero, con gli stivaletti di prunella nera dai tacchi bassi perchè non facessero rumore; per unico ornamento un piccolo paio di orecchini in oro. Il suo volto di un pallore opaco e malaticcio, gli occhi neri senza splendore, i capelli oscuri, tirati e stretti sulla nuca, le labbra sottili e sbiancate non serbavano alcuna traccia di gioventù. Nella serenità invadente dell’alba, nel pieno sole del meriggio, nella luce incerta del crepuscolo, sotto il lume quieto della lampada, Silvia era sempre la stessa: magra, pallida, fredda, senza attrattive, incapace di desiderarne, provinciale. Ma non soffriva — ella non conosceva e non voleva conoscere, non immaginava nulla di diverso, non fantasticava, non chiedeva mai niente, non si rassegnava neppure: la nota del suo carattere era l’indifferenza. La notte, quando non dormiva, diceva il rosario; quando dormiva, non sognava mai.
Sibbene in quell’anima trasparente, quadrata, vuota di ogni altro affetto, viveva l’unico ed arido sentimento del dovere. Era dovere per lei alzarsi presto la mattina, dirigere le serve che impastavano ed infornavano il pane, dare gli ordini pel pranzo, aprire e chiudere gli armadi; poi invigilare che i letti fossero rifatti, e bene rimboccate le lenzuola, che non rimanesse polvere sui mobili, che fossero battuti e scossi i tappeti. Il sabato ci era da sorvegliare la grande e complicata faccenda del bucato, seguita da quella ancora più importante dall’insaldare: si dovevano distribuire ai poveri le elemosine consistenti in danaro, panni, medicine e commestibili. Alla fine di ogni stagione conveniva fare le conserve dei frutti, rifornire le provvigioni esaurite, discorrere coi coloni, scrivere a quelli che non si erano presentati: alla fine dell’anno fare il bilancio, paragonarlo con quelli precedenti, dare i conti al padre, parlandogli cogli occhi bassi, a voce sommessa, di cifre, di affari, di nuove economie; riceverne in cambio, come unico e venale segno di soddisfazione un titolo di rendita di dieci lire e deporre sulla fredda mano di lui un bacio gelato per ringraziamento. A Pasqua ed a Natale, Silvia doveva scrivere ai parenti lontani quelle sciocche ed inutili lettere di felicitazioni, sempre con le stesse frasi; al principio dell’inverno e dell’estate scriveva ad una sarta della capitale, perchè le mandasse un abito ed un cappello, lasciando a lei la scelta del taglio e del colore; l’abito arrivava ed era chiuso nell’armadio, per uscirne solo la domenica, quando Silvia andava alla messa, la seconda messa, ascoltata in chiesa solo da poche devote. Essa leggeva nel suo libro le parole di preghiera che non trovavano alcuna eco nell’anima; la messa finiva, un grande segno di croce, ed a casa un’altra volta. Erano questi i suoi doveri; essa non trovava gusto nè noia in alcuno di essi: la carità, la fede, l’amore, il sacrificio la lasciavano fredda. Perfino — orribile a dirsi in una donna — perfino la vanità era spenta in lei.
Le variazioni a questa vita erano pochissime ed anche brevi. Qualche visita alla sua vecchia matrina che le donava una manata di quei confetti a cornetti, duri, bianchi, con un bastoncino di cannella dentro; qualche immenso lavoro ad uncinetto che solo le fanciulle provinciali osano affrontare, cioè fazzoletti di merletto per garantire il damasco giallo-sbiadito dei mobili, copertine per le fiere di beneficenza, copertoni per i letti alti e larghi degli zii: quattro volte all’anno, la confessione, breve racconto di piccoli e stupidi incidenti. Uno zio morì, vi fu un funerale, Silvia serbò la sua calma e tolse per sei mesi i colletti bianchi e gli orecchini di oro: una cugina si maritò, Silvia ebbe un abito di seta rosa che mise una sola volta e che le stava molto male. Il padre ebbe il tifo, fu in pericolo di vita, la figliuola lo vegliò per dieci notti, gli prestò le cure più minute, senza segno di fatica; ma la premura dolce ed amorosa che consola l’ammalato, il sorriso di affetto, gli occhi umidi e commossi, l’ansia del core che si dipinge sul viso, mancavano in lei. Ai ventun anni soltanto le venne dato il conto della sua dote. Poi nulla più di nuovo avvenne.
Ma Silvia, diventata il riassunto delle consuetudini provinciali, Silvia, l’esempio dell’obbedienza e del dovere, la pallida figura in cui si adombrava quella vita anemica, cretina, inerte, materiale, Silvia non aveva potuto rassegnarsi ad una delle più grandi leggi del paese, il sonno del pomeriggio. Questa infrazione alla regola la crucciava un poco ed aveva tentato di vincere una ripugnanza tutta fisica: dopo serrate le imposte della camera sua, si era spogliata ed aveva chiuso gli occhi nella fissazione di voler dormire; ma le era stato sempre impossibile. Si sentiva soffocare in quella stanza oscura e calda, temeva di cadere in deliquio; le conveniva alzarsi, vestirsi ed andare a passare le ore, solitaria dietro la tendina rialzata del suo balcone. Aveva lottato due mesi, aveva usato tutti i mezzi, aveva sprecato una inesauribile dose di pazienza, ma lo scopo si era allontanato sempre più. Ne aveva parlato al medico, ne aveva chiesto al confessore: le fu detto che era un fenomeno naturale, una inclinazione del suo temperamento; la risposta la persuase ed essa si rassegnò. Quando qualcuno le diceva in aria di profonda meraviglia: — Come, non dormite dopo pranzo? è strano — ella rispondeva freddamente: — Non vi è nulla di strano, è il mio temperamento.
Che poteva attirarla in quell’angolo solingo, lei che non si faceva attirare da nulla? Era il temperamento, una inclinazione che non poteva vincere, un’abitudine inveterata. Da vedere non ci era niente che non fosse visto e rivisto per molti anni di fila; non vi si ascoltava alcuna voce, alcun canto, alcuna musica; d’inverno spesso pioveva, ed era allora tristissima cosa l’aspetto delle strade che s’impantanavano e delle case che diventavano color ruggine. Silvia veniva là per stare tranquilla, con le mani incrociate sulle ginocchia, la testa appoggiata allo sportello di legno e lo sguardo errante nel vuoto. Nella stagione estiva vi era un treno che giungeva da Roma alle sette meno un quarto, ed ella abitava abbastanza vicino alla stazione per udirne tutti i rumori; prima un fischio dalla campagna, debole, lontanissimo, ed in risposta sulla stazione tre squilli argentini della campanella; ìndi un fragore cupo, sotterraneo come il colossale respiro di un mostro, un respiro che si calmava poco a poco, come il treno entrava nella stazione. A tender bene l’orecchio si ascoltava la cascata dell’acqua nella macchina che si riforniva, qualche passeggiero scendeva, vi era una pausa silenziosa, la campanella salutava coi suoi tre squilli vibrati il treno che se ne andava, esso diceva addio con un fischio rauco, quasi disperato, l’affannoso soffio ricominciava, cresceva e si allontanava; il treno era partito, la stazione deserta. Nell’inverno anche questo mancava, cambiandosi l’orario.
Le stagioni buone o cattive si susseguivano, la pioggia ed il sole si alternavano con dignitosa equità, i treni arrivavano, si rifornivano d’acqua, lasciavano scendere qualche viaggiatore e ripartivano. Silvia lasciava scorrere le giornate, i mesi, gli anni come i granelli del suo rosario fra le dita, quando ne mormorava le avemmaria. Ma i suoi parenti, il padre, la matrina pensavano spesso che Silvia diventava zitellona: i suoi ventinove anni erano scoccati, essa prendeva una tinta gialliccia come lo avorio conservato a lungo, gli angoli delle labbra le si piegavano in una ruga, un’ombra violacea si formava sotto gli occhi. Intanto non si presentava alcun marito probabile, caso serio in una famiglia dove, nel ramo femmineo, si nutrivano queste due grandi tradizioni: non rimaner vecchia zitella e fare sempre un matrimonio di convenienza. Alla fanciulla non fu detto nulla, come era naturale, ma se ne parlò con gli amici di famiglia, col notaio, col cancelliere del tribunale e col parroco; costoro agirono, informarono, paragonarono; i parenti si dettero da fare, qualche pinzocchera se ne mischiò. Infine dopo molti tentativi infruttuosi, fu trovato un galantuomo sui quarantacinque, giudice del tribunale, di mente convenevolmente ristretta, abbastanza brutto, che voleva quietarsi, sposando una fanciulla saggia e senza pretese; egli sarebbe venuto ad abitare in casa della moglie, perchè il padre di costei non poteva privarsene, non avendo altre donne cui affidare i suoi affari domestici, nè convenendogli stipendiarne una. Due stanze sarebbero assegnate agli sposi, una da letto ed una da studio: comune il salone, la stanza da pranzo ed il resto. Silvia aveva ventimila lire di dote, il doppio alla morte del padre e qualche speranza; il giudice avea trentamila franchi di risparmi, duecentoquaranta lire di stipendio mensile e la speranza di promozione. Fu detto alla fanciulla che era un matrimonio convenevole ed essa lo accettò, come aveva accettato tutti gli altri avvenimenti della sua vita, senza mormorare. L’idea della rivolta non si formava neppure in lei.
Silvia ebbe due abiti di seta, tre cappelli nuovi, un paio d’orecchini di brillanti, un braccialetto di oro con una perla, una grande spilla col ritratto del marito ed una quantità strabocchevole di biancheria, lusso profondamente inutile della provincia, dove i corredi non si consumano e passano di madre in figlia. Fece delle visite con cappello bianco dall’immancabile tremolante marabout, ricevette quelle insipide congratulazioni a fior di labbro, a cui si risponde con un più insipido mormorìo; andò alla messa al braccio del marito che le portava il libro di preghiere e l’ombrellino di seta bianca coperto di merletto nero, camminando con passo grave e solenne; mandò delle partecipazioni, qualche biglietto di visita giunse e fu incorniciato negli angoli degli specchi verdastri. In casa, Silvia ebbe una camera grande, un immenso letto maritale, un divano rosso e durissimo, ma nuovo fiammante, una toilette larga, maestosa, dal marmo nero e sopra un servizio di porcellana azzurra di cui essa non sapeva e non doveva servirsi; sei sedie alte, dure, impettite, incapaci di esser mosse dal loro posto, anzi destinate alla immobilità. A tavola sedette di fronte a suo padre, fu chiamata signora, firmò le lettere col cognome datole dal giudice; e fu tutto. Dimenticavo il marito.
Ma il marito rassomigliava troppo agli zii, ai cugini, al padre, alla città, alle mura, ai mobili, perchè qualche cangiamento avvenisse nello spirito di Silvia. Era una persona di più a cui doveva rispetto ed obbedienza, erano nuovi doveri, ma aridi e secchi come tutti gli altri; il giudice non era punto espansivo, e la freddezza della moglie gli piaceva, prendendola per un eccesso di serietà. Quindi, esauriti gli episodi delle formalità matrimoniali, Silvia riprese il corso della vita abituale, camminando a passi cheti e moderati, dritta nelle pieghe rigide, quasi monacali, del suo abito nero, colla mano sull’anello delle chiavi, perchè queste non tintinnissero, parlando poco, sorridendo molto meno, pensando pochissimo, immaginando nulla ed aspettando la morte senza impazienza.
Era questa la miserabile creatura seduta dietro i vetri del balcone, nel puro pomeriggio estivo; la povera ed infelice creatura che non poteva comprendere la bellezza di quell’ora. A poco a poco, nel tramonto, l’orizzonte s’infiammava d’una luce corallina; sull’estremo lembo del cielo, una sbarra di nuvole, lunga, stretta somigliava ad un nastro d’arancio violetto frangiato d’oro. Poi tutto l’arco del cielo s’incendiò, ma di un incendio lento e dolce; sulle case bigie, oscure, vecchie, si riflesse un chiarore roseo che parve le ringiovanisse; i vetri delle finestre divennero abbaglianti; le banderuole di ferro, agitantisi nel venticello crepuscolare, sembravano ali lucide di uccelli fantastici. Tutto il mondo, nell’infinito amore della luce che se andava, parve si fosse cangiato in oro liquido e colante.
Quasi per forza Silvia dovette contemplare quello spettacolo meraviglioso. Rimase un istante immota, poi sentì un grande calore scorrerle per la persona, un senso benefico e piacevole che sembrò avesse dileguato l’invincibile ghiaccio della sua esistenza. Per la prima volta essa sentì la sua vita: ecco i forti ed onesti palpiti del cuore, ecco il sangue ricco e tiepido che irrompe nelle vene, ecco i nervi pronti, disposti, sensibili; ecco le idee che si affollano al cervello, l’intelligenza che si dispiega, la fantasia che sorge e si libra: è la vita, la vita, la vita! Ad un tratto una scossa profonda fece sussultare tutto il suo essere, una fiamma viva salì a colorarle il viso, una gioia insolita le folgorò dagli occhi ed ella rimase mutola, sorridente, in ascolto di qualche lontano e piccolissimo rumore. In verità una voce l’aveva chiamata.
II.
No, non era più quella. La donna di prima, lettera morta, pagina bianca, era scomparsa, si era disciolta in quel tramonto d’oro liquido ed era subentrata la donna completa, viva, forte e buona: la madre. Negli occhi bruni e spenti, come quelli di una monaca, si accesero fiamme di amorosa dolcezza; la pelle si ammorbidì, si sfumò, divenne perlacea ed un delicato color roseo vi si diffuse come un gaio raggio di sole sulla neve; alle labbra rifluì il sangue ed il sorriso ed esse sbocciarono come una rosa; i capelli duri, tesi, senza grazia, ricaddero mollemente sul collo, ondulandosi; la linea rigida ed energica del mento s’incurvò. Il collo esile diventò pieno con un lento battito di vita, la persona parve formarsi e completarsi, le mani si fecero bianche e trasparenti, mentre alle tempia si scorgeva quell’ombra leggiera che è il segno sacro della maternità.
Col piccino che portava nel seno era nata anche lei; il primo palpito di quella piccola esistenza era stato simile alla forte voce di Gesù che fa sorgere dal sepolcro Lazzaro quatriduano. Il suo passato, pesante, triste, nero, si era annegato nella luce ed ella si trovò compresa da una felicità grandissima. Obbliò tutto, la vigilanza, le cure di casa, il marito, il padre: cedette le chiavi ad una zia e trascorse le giornate nella sua stanza, distesa in atto di abbandono nella sua poltrona, le mani inerti, le labbra vagamente sorridenti e gli occhi pieni di visioni. A chi le parlava rispondeva con voce commossa, dove vibravano toni di tenerezza finallora a lei sconosciuti: le sue parole erano dolci e gioconde, i suoi moti lenti e carezzevoli; camminando, il corpo ondeggiava in una linea sinuosa. Rivolgeva attorno, anche alle persone estranee ed alle cose indifferenti sguardi di amore; spesso le venivano agli occhi lagrime di consolazione che la soffocavano in una gioia infinita.
In quelle lunghe ore di riposo, Silvia volava con la fantasia ai paesi immaginarii, sprecandovi tutta la forza accumulata nel suo lungo periodo d’inerzia. Ecco il bambino, bello, vivo, sangue del suo sangue, cuore del suo cuore; gli occhietti neri luccicano nel bianco visino, le labbruccie spruzzate di rosso chieggono i baci. — Eccolo nudo e ridente davanti alla fiamma del camino, agitando le gambette, contento del calore e cercando mordere il suo piedino di angelo. Ma è possibile? Questa cosetta rosea, graziosa, quest’animuccia che ancora rammenta le voci del paradiso, è suo figlio, suo, suo, suo? Egli dice la prima parola, il caro adorato vuole la mammà, la chiama, la chiama in tutti gli accenti, e la mamma si nasconde per udire una volta di più quelle due sillabe scoppiettanti. Presto egli ha voluto camminare e, tutto fiero del suo coraggio, traballando ad ogni passo, cerca raggiungere la mammina che si allontana, sorridendo e tendendogli le mani; cresce, cresce, il bambino è già un fanciullo. Come felice la madre, appoggiandogli la mano sulla bruna testa, quasi a proteggerlo, a benedirlo, a carezzarlo; come felice sentendo sulla sua il contatto di una fresca guancia ed al collo la catena di quelle braccia amorose; come felice nel guardarlo, nel sondare la fierezza del nero occhio, nell’ammirare il riso di quella bocca leale! Oh, madre fortunata senza fine nella sua creatura! Dio! Dio! che aveva ella fatto per meritare tanto?
Oppure era una bambinetta bianca, dagli occhi glauchi e dolci, dalla vocina melodiosa, dalle membroline gentili, dai capellucci così fini e così biondi che sembran oro ridotto in sottilissimi fili. Non sa far altro la fanciullina che fissare i suoi grandi occhi sorpresi in quelli della madre, non chiede altro che attaccarsi alla sua gonna e seguirla dovunque: perchè è timida come una cervietta, candida ne’ suoi abiti bianchi, azzurrina nelle sfumature del suo volto. Adesso i suoi occhi intelligenti si chinano sulle lettere dell’alfabeto che la madre vuole insegnarle, la vocina balbetta, il visino si arrossa per superare la difficoltà; le lezioni vanno benissimo, perchè in fondo vi sono sempre baci e carezze. Soavissima cosa piegare le ginocchia insieme alla figlia, congiungere le mani, elevare gli occhi al cielo ed unirsi nelle stessa parole di preghiera; uscire insieme nelle ore mattinali, scantonare in qualche povera strada, entrare in qualche tugurio miserabile e vedere la figliuola che arrossisce di piacere nel fare l’elemosina, mentre il poveretto la guarda con occhi pieni di lagrime, mormorando: Benedetta questa bionda fanciulla! E nel cuore della madre un’eco risponde: Benedetta questa figlia che è la pace dei miei giorni!
Ora Silvia comprendeva tutto, tutto: una grande tendina era stata lacerata davanti a’ suoi occhi, la rivelazione del mondo l’aveva colpita, il suo intelletto era stato invaso dall’aspra scienza della vita. A lei venne il soffio allegro e sano della gioventù con le emozioni freschissime, le trepidanze, i rossori, le gaie speranze, gli entusiasmi, la fede inconcussa nel suo avvenire di donna. Poi lo slancio irresistibile della passione, la lotta dei sentimenti coi doveri, la parte della coscienza, l’urto perenne dell’anima coi sensi, l’alto ideale della virtù e le basse realtà dell’esistenza: tutta questa eterna battaglia di ogni cuore donnesco, fu la sua battaglia, donde usciva vincitrice. Le parve di aver provato tutti piaceri della ricchezza, del lusso, della vanità, dell’orgoglio, dell’ambizione femminea; le parve aver amato tanto, aver amato bene, amato lungamente, di essere stata tanto riamata; e che di quel passato d’amore le fosse rimasta una cara malinconia, il cumulo dei ricordi che si svolge lento, lento, i rimpianti soavi, ed il fiotto delle rimembranze che arriva e se ne va, per ritornare e per andarsene di nuovo, simile all’eterna onda del mare. Quanto vi è di vero e di bello nella natura: i fiori, farfalle immote; le farfalle, fiori volanti; la fortezza onesta dei boschi, la verginità della neve, la bontà generosa della terra nera, il fermento di riproduzione che agita il mondo e la inflessibile serenità delle stelle: tutto trovò la via del cuore di Silvia. Comprese che la vita è una cosa buona, che la verità di essa è nell’amore e la felicità nei figli; e tutto il suo essere si genufletteva, mentre l’anima balbettava confuse parole di grazia.
In casa la guardavano trasognati, tanto essa era sconvolta, trasfigurata nelle sue contemplazioni; ma nè il padre egoista, nè i parenti volgari, nè il marito metodico osavano farle un’osservazione, quasi compresi da rispetto. La lasciavano fare ed ella nella follia ragionante della maternità, acquistò le tele finissime, le battiste trasparenti, i merletti di filo, i nastrini di raso, spendendo senza contare. Impedì a chi la circondava di porre mano al correduccio; cucì tutto lei, pian piano, con cura, tirando i punti con un’aria di cheta soddisfazione, maneggiando le forbici senza farle stridere, susurrando paroline di amore alle piccole camicie, alle cuffiettine, baciandole e profumandole. Fu lei che ricamò il lungo abito di battesimo, lei che imbottì e cucì il cuscino di raso azzurro coperto di una trina delicata dove il bimbo avrebbe appoggiata la testolina, fu lei che trapunse il mantelletto di cascimiro bianco, foderato di seta. Per un mese si occupò della culla che riuscì un vero nido di piume, di nastri e di merletti, un nido bianco, morbido, dove egli sarebbe stato calduccio, calduccio. E per quando egli sarebbe giunto, ella sognava nuovi cambiamenti; avrebbe modificata la severa casa, l’avrebbe resa piacevole ed allegra: nei vasi dorati del salone dove ora s’ingiallivano e s’impolveravano grossolane rose di mussola, vi sarebbero dei veri e bei fiori; i quadri spaventosi, rossi e gialli, sarebbero surrogati dalle chiare oleografie dove bambinetti festanti ruzzano nei prati; ci voleva un’uccelliera sul terrazzo, perchè la voce degli uccellini si unisse nel trillare a quella di lui. Molte cose si potevano far venire dalla capitale, era facilissimo; bastava scrivere, e le mille eleganze, di cui in provincia non si conosce neppure il nome, sarebbero giunte a circondare di benessere il piccolino. Dunque si affrettasse il tempo nel suo corso, precipitassero i minuti l’uno sull’altro, si annullassero rapidamente le ore ed i giorni, venisse il desiderato — la madre era pronta e lo attendeva.
Ma l’interruzione subitanea delle antiche abitudini, l’impulso di vita giunto all’improvviso, l’attività esagerata delle facoltà sinallora represse, l’esuberanza della forza che si espandeva, tutto questo nuovo rivoluzionava il fisico ed il morale di Silvia. Il sistema nervoso per tanto tempo atonizzati, divennero di una sensibilità squisita: una parola dura, una piccola difficoltà, un nodo nel vestito la facevano sussultare. Le sensazioni si erano perfezionate, raffinate; i suoi gusti erano diventati molto difficili, era stata presa da una grande passione pel caffè e pei profumi, e l’impeto della sua vita si era raddoppiato. Piangeva volentieri, silenziosamente, senza singhiozzi, senza alcuna dolorosa contrazione delle labbra; talvolta per un nonnulla dava in iscoppi di riso convulso inestinguibile; ora desiderava starsene sola per le settimane intiere, contenta della solitudine; ora si chiamava tutti dattorno per essere in compagnia. Una fiamma continua le imporporava le gote, una fiamma che la consumava nel suo ardore; i polsi batteano frequenti, il corpo si dimagrava, le mani si assottiglivano: un giorno l’anello del matrimonio le scivolò dal dito anulare e non si potette più ritrovare. Le serve ne mormorarono come di cattivo augurio, ma Silvia non lo intese; essa anelava al termine prefisso, corrosa dalla febbre, sempre più esaltata, coi nervi oscillanti e l’anima beata.
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Nella camera dell’ammalata tutto taceva, nelle altre camere si camminava in punta di piedi e visi contristati si scambiavano occhiate più tristi ancora; il martello della porta era foderato di lana nella strada, avevano sparso la paglia, alcune visite erano state licenziate in fretta. Presso il letto della inferma vegliava solo il vecchio padre: quando il medico gli aveva detto che Silvia era perduta e con lei il bambino, il suo egoismo aveva ricevuto un colpo formidabile, qualche cosa di aspro gli ricercò il cuore ed era il rimorso. Egli impallidiva e tremava pensando per quanto tempo aveva trascurata la figlia, egli si chiedeva la misura del dolore che le aveva inflitto con la sua indifferenza; non le aveva mai dato un bacio, mai detto una parola buona, era stato per lei un estraneo. Ora essa, avvelenata da quella crudele noncuranza, moriva.
Silvia dormiva di un sonno affannoso ed irregolare, coi lineamenti contratti, col viso diminuito, quasi divorato dalla lotta combattuta; balbettava ancora qualche frase del suo delirio. Troppo tardi era venuta la vita, troppo tardi ella era stata madre — il suo organismo già vecchio, già disseccato, si era infranto in quella pruova.
— Papà, lasciamelo vedere ancora — disse lei con voce fioca, risvegliandosi.
Il padre si scosse, prese dalla culla il piccino e glielo portò. Era una creaturina debole e fragile dagli occhi semispenti, dalle manine gelate. Silvia mise un bacio leggiero sulla piccola fronte.
— Papà! — chiamò dopo un momento di silenzio la figliuola.
— Silvia?
— Dimmi: la mamma, la mamma mia era molto dispiacente di morire?
— Non funestarti con queste idee, figlia mia...
— Dimmelo, papà, te ne prego. Era molto dispiacente di morire?
— Sì, perchè lasciava in terra una figlia.
— Le doleva, perchè lasciava in terra una figlia — ripetette quasi macchinalmente l’ammalata; — eppure... era una santa donna.
— Una santa, Silvia.
— Essa sel sapeva — riprese lei lentamente — essa sel sapeva. I figli non possono restare senza madre sulla terra.
Si assopì da capo. Il padre si sentiva soffocare in quella camera dove si respirava l’agonia ed uscì fuori: vi era del tragico in quella figura di vecchio colpito dalla disperazione.
Silvia si era assopita, ma la fierissima febbre rendeva leggiero il suo sonno: erano le sei e mezzo; il treno che veniva da Roma fu annunziato dal suo fischio. Essa si destò di soprassalto: era sola.
— Giunge il treno — disse come fra sè — giunge il treno... fa il suo compito... riparte.
Si alzò sopra un braccio e fissò nella penombra il candore della culla:
— Andiamcene, figlio mio — mormorò essa.