< Dal vero (Serao)
Questo testo è completo.
Giornata
Apparenze La moglie di un grand’uomo

GIORNATA.

Egli — egli significa un mio amico che si chiama Augusto, ma potrebbe significare uno, due, cinque, mille fra i miei carissimi lettori — egli la sera aveva chiuse ermeticamente le imposte, perchè la mattina gli piaceva dormire sul tardi. Pare uno spiraglio ci era rimasto, cioè una sottile e lunga striscia di un azzurro sbiadito che stava là, luminosa e sorridente; egli si voltò dall’altro lato per non vederla, ma scorse sul muro riflessa una colonnina di luce; chiuse gli occhi per riaddormentarsi, ma l’azzurrino sbiadito e la luce sorridente gli ballavano nel cervello. Si alzò volendo essere furioso e si ritrovò, con suo dispetto, di umore buonissimo, anzi si sorprese a canticchiare un’arietta della Mignon: quella doveva essere per lui la giornata delle meraviglie. Era scapolo e quindi faceva colazione in casa: nella unione molto morganatica del latte col caffè, egli notò, come un fatto nuovissimo, che il latte aveva un sapore autentico, anzi odorava del buon odore di timo; sopra una sedia giaceva un grosso mucchio di biancheria ed un fascio di fiori. S’intende che non era uscito dalla bottega di Lamarra, ma lì, su quel bianco, faceva allegria: erano viole-ciocche di quelle rosse e di quelle gialle, poi erba-menta, cedratina, maggiorana ed un ramoscello di ruta: Luisella, una bruna e forte Nausicaa del Vomere, aveva portato la biancheria e i fiori. Allora ad Augusto venne in mente la sua meschina, impolverata ed ammalata flora del salottino — ed andatovi, si fece a scostare il musco secco e trasportò le pianticelle fuori al balcone; vi si trattenne un minuto a guardare l’animazione della strada, poi rientrò perchè doveva mettersi al lavoro.

Tutto era pronto sullo scrittoio, val dire l’occorrente come nelle commedie: la carta candida, rasata, aveva un’aria ingenuamente civettuola, l’inchiostro era nero di pensieri, una puntina nuova e lucida brillava nella penna favorita: erano soddisfatte tutte le piccole superstizioni artistiche. Augusto alzò gli occhi sul calendario, lesse un proverbio rovinato e la nota di un pranzo immaginario ed inutile; scrisse una frase, rialzò gli occhi e si pose a guardare il ritratto..... un ritratto appiccato al muro; quando li riabbassò, la frase non andava più bene e la cancellò. Macchinalmente si alzò, andò fuori al balcone, vi stette un momento e tornò a sedere; ma si trovò seduto di traverso e pel balcone aperto si vedeva un quadrato di cielo sereno, un muro grigiastro illuminato dal sole ed il campanile dello Spirito Santo, i cui mattoni di maiolica gialla e bleue scintillavano; in fondo alla camera la serva aveva spalancato l’armadio, ne tirava fuori certi soprabiti e li spolverava. Insomma Augusto non poteva lavorare, non poteva, senza saperne il perchè; cedeva ad un influsso ignoto, ad una pigrizia insolita, — mentre fu lestissimo a vestirsi e ad infilare l’uscio.

Per la strada tanta gente, tutte le donne belle: era la loro giornata; perchè, a chi nol sapesse, a Napoli ci sono i giorni fasti in cui escono tutte le bellezzine ed i nefasti in cui sbucano le..... altre: le donnine avevano una certa aria più seducente del solito, forse una migliore acconciatura, un velo punteggiato d’oro, un nastro roseo, chi sa! Poi tanti amici, per lo più tutti allegri e loquaci: uno disse ad Augusto di aver fittata una bellissima casa, che l’avrebbe mobiliata così e così, che vi darebbe delle feste e lui rimaneva invitato, s’intende; un altro, che finalmente avrebbe sposato la Concettina, ed Augusto a congratularsi; un terzo, che si era deciso per la carriera diplomatica con speranza di riuscita, ed Augusto ad incoraggiare; un quarto, che voleva scrivere una commedia, sicuro, una commedia da sbalordire e capace di dare una spinta energica al teatro drammatico italiano, ed Augusto augurii. Tutti hanno progetti, pensava egli, tutti sperano in un esito favorevole, ed io? E si mise a fantasticare sopra un lavoro serio che voleva dar fuori, sopra un viaggio, che doveva fare, su certi studii critici che voleva compiere, e camminava leggiero leggiero, salutando, sorridendo, soffermandosi, guardando le vetrine luccicanti e promettenti, sbirciando i bei visini, sino a che un grande vuoto nello stomaco lo avvertì dell’ora del pranzo.

Al pranzo altre novità: certi pisellini piccini e graziosetti vi fecero una timida apparizione ed alla fine, invece degl’immancabili, fedelissimi, gialli ed itterici aranci, si vide un po’ di fragole; vederle solo però, che si potevano contare sulle dieci dita, Nè Augusto si ribellò al nuovo ordine di cose, anzi pacificamente prese il caffè, pose i giornali sotto il braccio e andò a leggerli nello studiolo. Pure, malgrado le attrattive più o meno autentiche delle parti letterarie, l’amico era distratto e poco capiva di quello che leggeva: dalla strada gli giungevano troppe voci. Era quella cantilena lunga, dolce e lamentosa del ragazzo che, deposto per terra il suo canestro, dice alla gente i meriti dei limoni che smercia; il grido sottile ed acuto della fanciulla che vende le pianticine di rose ed i garofani ancora in bocciuolo; la voce stentorea degli strilloni che annunziano essere uscita la tal cosa e la tal’altra e la tal’altra ancora.

Ed il crepuscolo scendeva lento e dolce come mai non era stato, scendeva senza la tetra malinconia dei brevi giorni invernali; nella strada il movimento cresceva invece di diminuire, le campane si chiamavano e si rispondevano allegramente, perchè era l’epoca delle feste gaie: Santa Matilde, una buona regina che si mortificava lietamente, mettendo dei sassolini negli stivaletti da ballo. Santa Matilde, cioè il genetliaco del re; San Giuseppe, grande e buon protettore delle ciambelle bionde e delle fanciulle bionde o brune; l’Annunciata, una festa poetica e misteriosa; Pasqua, l’idea della nuova nascita che combatte la morte, la migliore delle feste, e nella luce rosea, dorata, infiammata, violetta, grigia, azzurro-cupa del tramonto e della sera, Augusto sorrideva allo scampanío giocondo, sorrideva ai lumi che si accendevano senza che se ne vedesse la mano; si sentiva libero e fresco di corpo, respirava a larghe boccate come se da lungo tempo ne avesse perduto l’abitudine, il sangue se lo sentiva scorrere vivo e giovane per le vene: era contento di sè e del mondo, senza saperne il perchè e noncurante di saperlo.

La sera, quando uscì per andare a teatro, incontrò ancora moltissima gente che passeggiava; alcune fanciulle più ardite avevano abolito il cappuccio di lana bianca ed inalberavano il cappellino della mattina; molti di quegli abiti maschili, informi, sgraziati, mostruosi, che si chiamano passamontagne, erano scomparsi: l’aria era buona. Al teatro non molta gente, lo spettacolo ottimo. Augusto si trovava pieno d’indulgenza, applaudì molto spesso; ma guardando nei palchi, lo colpì qualche cosa di strano, una curiosa combinazione senza dubbio. In uno due sposi novelli, lo si sarebbe scorto cento miglia lontano; daccanto due fidanzati, invigilati da una madre e da uno zio; più in là una fanciulla che fissava, fissata, un giovanotto della platea; altrove una moglie, un marito e il relativo amico del marito: la metà degli eleganti abbuonati delle poltrone che occhieggiavano coi palchi: amore dappertutto ed in tutte le forme.

Qui Augusto provò una stretta al cuore; era provveduto di una discreta dose di scetticismo, aveva cento volte messo in caricatura i giuramenti, le promesse, i sentimentalismi morbosi e le passioncelle proibite; si era atteggiato a spirito forte, ad uomo di esperienza, ma quella sera lo scetticismo era svanito e lo spirito più o meno forte gli era corso dietro. Si sentiva triste in mezzo a tanto amore di cui non gli toccava neppure un bricciolo, si sentì solo, povero, abbandonato, indifferente a tutti. Lo aveva voluto lui, del resto: per quale ragione si era rotto con la Giannina che lo amava tanto, che era così carina, così buonina? Era stato crudele con lei la settimana prima, l’aveva tormentata abbastanza, troppo, povera donna — ed ora per castigo gli toccava guardare gli altri e rimanersene a bocca asciutta. Fosse stata là, in quel momento, la Giannina, avrebbe voluto caderle alle ginocchia e chiederle perdono, purchè lo volesse amare ancora un poco. Ma domani, domani..... andare da lei e scacciare il grosso nuvolone e rivederne il contento e fare una gita insieme.....

E tra le fantasie ardenti del suo cervello, passò due ore della notte a guardare le stelle, a parlar loro, egli che si era sempre burlato degli amanti e dei poeti stellaiuoli; ma che volete, aveva nell’anima una ricchezza, un rigoglio di vita e di affetto che fugava ogni ironia. Mille idee belle, nuove, ridenti, gli nasceano nel cervello, mille creazioni gli apparivano, l’attività della mente aumentava, si raddoppiava; avrebbe voluto lavorare, scrivere, che i giorni fossero di quarantott’ore, che la lena non gli venisse mai meno, che le mani fossero instancabili..... e lontano, lontano, la Giannina che sorrideva e si voleva nascondere e intanto lo chiamava cogli occhi..... e lontano, lontano, un orizzonte sereno e fiori e musiche e mare scintillante al sole e notti chiarissime.....

Portò a casa i suoi sogni, le sue fantasie, il suo bisogno di agire, di operare; volle mettersi al lavoro. Pure gli ronzava pel capo una domanda, che gli spiegasse i piccoli e grandi misteri di quella giornata: il latte profumato, i fiori, le frutta, la gente allegra, le voci della piazza, il crepuscolo, il benessere, la nuova vita, l’amore, il bisogno di amare e di sognare. Alzò gli occhi e lesse appiedi del piccolo calendario: Equinozio di primavera.

— Dunque sogniamo ed amiamo — disse tra sè, quietandosi.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.