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APPARENZE.
Il faut, en géneral, se méfier de ces natures phthysiques, l’amour et la jalousie leurs donnent des nerfs d’acier.
Murger: m.me Olympie |
Fosse pure la musica vergata da una mano divina, fosse pure eseguita dagli artisti con la voce e col cuore, viene un’ora che nel teatro si prova la noia e il disgusto, La mente rimane fredda e scettica, l’anima non si lascia più trasportare, la riflessione analizza, distrugge e sogghigna: le arcate maestose, le ombrie dei giardini sono di cartone dipinto; quei due che si amano gorgheggiando o strillando, sono ridicoli; le coriste, le nobili damigelle, sono brutte, vecchie e stupide: tutto è falso, convenzionale. Le illusioni, sieno anche quelle ottiche, sono svanite; invano si chiama in aiuto la forte potenza dell’astrazione, invano si cerca un impulso, un impeto di entusiasmo: il senso della realtà è ostinato, ha tutto invaso. Ma coloro la cui vita è fantasia, i sognatori, i reveurs, gli ammalati di pensiero, gli assetati di poesia, si ribellano e quando la scena non dà più loro il dramma, lo ricercano altrove, in un angolo qualunque del teatro; sono come Archimede: per sollevare il mondo della loro immaginazione hanno bisogno di un punto solo.
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Non posso dimenticare quelle due donne: quando apro gli occhi nella oscurità, mille fiammelle la diradano, una confusione di colori gira, turbina, si urta, poi si mette a posto, si armonizza ed esse compaiono su quel fondo, vive e parlanti. Erano due tipi così spiccati, così opposti, così personali, così profondamente impressi nella loro materia di carne e di nervi, così completi nell’idea che ciascuno rappresentava, da sembrare che l’artefice creatore le avesse ritoccate con un unico concetto sino all’ultima linea. E per quella legge costante che vuole inseparate le umane contraddizioni, che regola l’attrazione delle forze contrarie, che riunisce i poli con una linea fantastica, che presenta sempre due pensieri opposti, era fatalmente necessario che quelle due donne vivessero insieme, l’una di fronte all’altra, l’una reazione dell’altra.
La prima sembrava una madonnina di Carlino Dolci, il soave pittore che ha incarnato nei quadri il suo nome. Era una figura esile, molto esile; i capelli biondissimi, ma di un biondo morbido, quasi timido, di cui si presentiva la dolcezza sotto la carezza della mano e il tocco delle labbra; il volto magro, lunghetto, malaticcio, di un pallore finissimo, quasi trasparente come un cereo; socchiusi i bruni occhi sotto la frangia dorata delle palpebre, sottolineati da quelle occhiaie nero-violacee che fanno pena al cuore; sottili, vivide, aride, quasi abbruciate le labbra; il collo, le spalle, le braccia scarne e consumate; abbandonata e languente tutta la persona: dappertutto le traccie della febbre e del decadimento. Pure era vestita con quell’arte speciale della donna che tenta tutt’i mezzi per nascondere la verità: l’abito di raso bianco serviva ad ingrandirne alquanto la figura; sul collo cadevano ad onde i bei capelli per celarne la magrezza; sulle spalle denudate si aggruppavano fiotti di velo bianco e di merletti, conoscendo ella il valore immenso delle trasparenze che correggono i contorni meschini, mettendoli quasi in una nuvola; la manica scendeva sino al gomito e lo avambraccio, piccolo come quello di una fanciullina, era ricoperto di braccialetti; le affusolate dita delle manine erano zeppe di anelli, quasi ad ingannare la gente sulla loro apparenza; tutta la persona rimaneva in una penombra amica e discreta, in un atteggiamento stanco. Ma la stessa cura che ella prendeva per dissimulare il suo stato, muoveva maggiormente la pietà e non illudeva nessuno: quella donna era ammalata; ammalata d’amore, di quella lenta febbre che non ha posa, che non ha requie, che infiamma il cuore ed agghiaccia le mani, che divora il sangue e fa impallidire per sempre il viso, che mina il corpo sordamente, senza compassione, di ora in ora, di minuto in minuto. Era ammalata, buona, delicata, squisitamente sensibile ed innamorata; lo sguardo vagava errante, indeciso, ricercando qualcuno forse; sul petto due rose bianche e profumate si appassivano, morenti anch’esse di febbre e di amore.
L’altra, perfettamente in luce, sorgeva come una splendida manifestazione di bellezza. Sul capo altiero si attorcigliavano le masse nere dei capelli, lasciando libera una fronte audace; l’arco dei sopraccigli, tracciato nettamente, si distendeva su due occhi scintillanti; il colore lionato della pupilla era circondato da un cerchio gialliccio, bronzo circondato di oro, ma oro vivente, bronzo animato; il profilo severo, purissimo, era corretto dalla rosea trasparenza delle nari; le labbra schiuse come un frutto di melagrano, si rialzavano lievemente agli angoli con quel sorriso perenne delle figure perfette; il collo pieno, con un battito provocante di vita; il busto scultorio, un braccio modellato con vigore, delicato nell’attaccatura della spalla e del polso, terminato da una mano aristocratica. Vestita di velluto nero, scollata in quadrato, con una puntina di merletto bianco, senza maniche, come esige la moda, senza un nastro, senza un gioiello, ella pareva sollevarsi, slanciarsi candida e sorridente dal fondo bruno di un quadro: si sollevava, l’ho detto, come una superba emanazione di grazia, di beltà, di salute. Vi era in lei quella calma cosciente dei lineamenti che dev’essere la soddisfazione della forma in ammirazione di sè stessa; quella serenità immutabile, plastica, superiore, che è l’unico segno di vita nelle statue greche: anche a volerlo fare apposta, quella donna non si sarebbe potuta rendere meno perfetta. Sembrava che nè il tempo nè l’amore avessero potuto turbare, guastare quell’aspetto mirabile; ella era così sicura, così imperturbata, che finiva per irritare: si provava lo strano desiderio di vederla un po’ rovinata, come si desidera talvolta di rompere una statuina di valore. Poi doveva essere cattiva: quando si rivolgeva alla sua bionda e pallida compagna, la guardava con certi occhi duri e scrutatori, quasi avesse voluto strapparle dall’anima un pensiero nascosto: il labbro inferiore si avanzava con disdegno. Con quel lusso di vita e di salute pareva che volesse insultare, schiacciare la biondina sofferente, che le rispondeva dolcemente, sforzandosi di sorriderle. Io pensai che qualche dramma intimo dovesse svolgersi fra quelle due donne.
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La porta del palco si schiuse, un giovane entrò: tutte due si turbarono. La bruna arrossì un poco, la bionda alzò uno sguardo lento e profondo su colui che entrava. Era un giovane sulla trentina, alto, simpatico, sciupato ed interessante nel volto; salutò quasi sbadatamente l’ammalata e sedette presso la bruna, impegnando con lei un’animata e vivace conversazione. La donna interrogava, alzava il dito con una graziosa aria di minaccia, sorrideva, arrivò sino a battergli sul braccio col manico del ventaglio; l’uomo s’inchinava, cercava difendersi, faceva dei complimenti; per istanti un’ombra d’inquietudine gli si disegnava sul viso, pure la discacciava e continuava il discorso con molta disinvoltura: quei due obbliavano affatto la presenza della loro compagna. Ma essa li guardava a lungo, avvolgendoli nel fluido dei suoi occhi magnetici, li guardava senza dir motto, ma doveva soffrir molto; le occhiaie pareva che crescessero sempre più, fremevano lievemente le nari con un movimento impercettibile, tremava la mano abbandonata sul velluto rosso del davanzale, le labbra si stringevano; il viso, senza colorirsi, ardeva nel suo pallore.
Rivali dunque. Luisa — immaginai si chiamasse con questo nome gentile la bionda — amava quell’uomo con tutte le forze del suo cuore infermo e la sua bellissima amica glielo aveva preso o voleva prenderselo.
Era uno spettacolo dolorosamente ingiusto: da una parte la salute, la felicità, la bellezza, cioè una di quelle donne senza cuore e senza testa, che fanno il male senza pensarvi prima e senza pentirsene dopo, fredde trionfatoci, feroci ed egoiste, ebbre di vanità, liete di vincere un uomo, solo perchè, vincendolo, feriscono un’altra donna; dall’altra parte Luisa, cioè l’ideale realizzato della dolcezza e della bontà, ammalata, quasi distrutta dalla sua passione, umiliata da quella gloriosa rivale, incapace di lottare, incapace di vincere, Luisa che se ne moriva di quell’amore, di quel disprezzo: in mezzo un uomo affettuoso, ma debole, capace forse di due amori, trascinato senza dubbio da una corrente fatale. Era questo il dramma, il dramma intimo di quelle tre persone: difatti nel palco la bruna raddoppiava i suoi sorrisi che diventavano quasi ironici, moltiplicava le cortesie che erano esagerate, si dava in spettacolo, il giovane era perplesso, inquieto; Luisa si mordeva le labbra e vi accostava spesso il fazzoletto, o nascondeva il volto nel suo bouquet di vaniglia — e quando la Wanda Miller scoppiò nella frase meravigliosa del duetto d’amore dell’Africana: Sarò gelosa, gelosa, gelosa, gli occhi della bionda mandarono tale un lampo di gelosia da far tremare i due colpevoli.
⁂
— Dunque la scrivete questa storia? — mi chiese il mio vicino di destra, un amico, un artista, che m’indovinava.
— Perchè no?
— La sapete almeno?
— Me la immagino.
— Non ve la immaginate. Un anno fa quei due sposi si adoravano, si erano presi per amore: bellissima la moglie, intelligente il marito, una coppia eccezionale. Ebbene, ci si mette in mezzo quella palliduccia lì, ricca di languori, sempre moribonda, piena di profumi irritanti, di graziette malaticcie, di veli bianchi, di nastri azzurri e di capelli biondi. Il marito abbandona quella splendida e buona creatura che è sua moglie, per quell’ombra di donna; la moglie lo sa, ma finge per decoro e si rode internamente; egli esita, si tormenta, vuole uccidersi, non ne ha il coraggio, ama la bionda, rispetta ed ammira sua moglie: è infelicissimo. La causa di tutto questo scompiglio ne sorride soavemente: si chiama Tecla, un nome duro; pare ammalata, ma non lo è: quello è il suo stato normale, la sua natura; con le sue delicatezze, con le sue sensibilità, vive meglio di chi sta sanissimo: è assai forte, anzi gode di tormentare le persone belle e vigorose. Per questo ha irretito il giovane che sta là, per questo tortura quei due con una gelosia nascosta ed esigentissima. La scrivete questa storia?
— No, non la scrivo — risposi.
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Li rividi sullo scalone. Avanti venivano la Tecla e il marito della bruna. La bionda scendeva lentamente, avvolta nelle sue bianche pelliccie come un uccellino sofferente, stanca, abbattuta, reggendosi al braccio di lui: vi si appoggiava con molle abbandono, ma aveva incrociate le mani, quasi per non lasciarselo sfuggire. Lo guardava di sotto in su, con occhiate lunghe, parlandogli a bassa voce, affascinandolo: vi era nel suo lieve sorriso, nell’atto della testolina cadente, nello strascico lunghissimo di raso bianco un’aria di conquista: essa si portava via quell’uomo come un bottino. Dietro, sola, altiera, avvolta maestosamente nelle pieghe del suo mantello rosso, veniva la bruna; nulla si leggeva nelle linee del bellissimo volto; ella non dava segno di dolore o di sdegno: chiusa in sè, nella forte e coraggiosa anima sua, non chiedeva compassione.