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PER LE FANCIULLE.
(a Lulù)
Queste tre rose, una di un bianco castamente appannato, l’altra di un dolcissimo giallo, e la terza cupamente rossa; queste tre rose che formavano un gruppo di un effetto stupendo e che appuntate sulle trecce cadenti, dietro l’orecchio, ad ogni giro più rapido del ballo fremevano quasi fiori vivi presi d’amore e lambivano il collo: queste tre rose bisogna posarle sulla fodera di carta velina della scatola. Questa pioggerella nevischiata di fiorellini bianchi, che sembravano ghiacciuoli sulla primavera della bionda testa, vada accanto alle rose; il lungo ramoscello di lilà, fiore poeticamente ammalato che ama mescolarsi nelle onde dei ricci mezzo disciolti e cadenti sulle spalle, terrà loro compagnia; insieme la camelia bianca, che il povero Emilio Praga diceva essere stata forse un cereo funerale; insieme la corona di fogliame morto, acuto desiderio del pallido autunno. E quanti altri fiori freschi ed artificiali, che vissero una giornata sola, che vollero morire fra i lumi, i sorrisi e gli amori! Ti ricordi, Lulù, come erano belli, come erano superbi nella loro umiltà, come raddoppiavano la forza dei loro profumi? E fra tutti, quei mughetti di quella famosa sera, come andarono a finire? È vero che dal loro posto naturale che era l’inquadratura del tuo corsage, passarono a fare una fine oscura ed ignorata in un portafoglino di cuoio, fra un biglietto di visita stemmato ed una cartina da venti franchi? Non mi rispondi? Preferisci chiudere la scatola, Lulù?
Ecco qui la fascia d’oro così lucida, così sfolgorante, che sembra un diadema reale; mandavi su un po’ di fiato per appannarla, poi strofinala leggermente col fazzolettino di battista e riponila nel suo cassetto circolare di velluto grigio. Non prima però di aver inviato un sorriso a quella notte in cui ridesti tanto, in cui quindici cavalieri con un seguito di cretinismo perfetto, ti s’inchinarono esclamando: Con quel bandeau, una vera regina! E venti altri col solito inchino, ti dissero: Con quel cerchio una bellissima Adalgisa! Come era bello e stupido il ballerino del lancier, come ballava bene, quante sciocchezze diceva! E le fandonie di quel pallido e scarmigliato poeta, afflizione della società sofferente, dove le metti? Ebbe il coraggio di dire in versi troppo lunghi o troppo brevi, che le perle della tua collana erano lagrime di fanciulla tradita; mentre tu gli rispondevi in ottima prosa, che te le aveva donate la tua vecchia matrina, una contessa, vedova di tre mariti.
Dispiega per un momento e richiudi il tuo ventaglio dei balli: un ventaglio leggiero come una farfalla, roseo e velato di oro, dove in un angolo una ninfa in leggieri abiti bianchi si culla in una rete, mentre il venticello le solleva i capelli — è l’immagine del fresco che ti doveva procurare. Ma pur troppo, da tempo immemorabile le donne hanno preso il vezzo di far servire gli oggetti a mille scopi cui non sono destinati; da tempo immemorabile il ventaglio non serve a dar fresco. Serve piuttosto a nascondere il fulgore dei begli occhi, quando questi diventano troppo splendidi per coloro che li guardano; a nascondere il sorrisetto della bocca maliziosa, quando un’amica è troppo, troppo mal vestita; a nascondere il fremito delle mani nervose che vorrebbero spezzare qualche cosa; a nascondere un rossore..... che si ostina a non venire; per chiamare chi è lontano, per respingere chi si affretta troppo, per salutare, per parlare a bassa voce. Credi tu che il tuo ventaglio abbia eseguito queste manovre? Allora è tempo di dargli un po’ di riposo: mettilo accanto al libro di raso azzurro e profumato ove chiudi i tuoi fazzolettini. Sono nuvolette di battista, leggiere, fine, ricamate, smerlate, con la iniziale del nome e la corona marchionale; queste cosette così sottili che piegate passerebbero in un anello, stettero fra un bottone e l’altro dell’abito, in una piega della gonna, in un angolo perduto della veste, perchè la moda ha abolito le tasche per le donne, riserbandole solo agli uomini, come è di regola; questi fazzolettini asciugarono lievemente le labbra dal gelato, dallo champagne e dallo zucchero candito di un marron glacé. Ne andò perduto uno, nevvero? Lo hai forse dimenticato? Non ne sai nulla e sorridi? Ho paura che ti burli di me; fammi leggere i tuoi engagements.
Rappresentano le schede dell’elezione, l’elenco dei nomi degli eletti; i consiglieri..... municipali del tuo cuore; facciamo il calcolo dei voti. Oh! pare che le operazioni dell’elezione non sieno andate perfettamente in regola, mia bella elettrice; trovo qualcuno che ha avuto troppi, ma troppi voti, mentre che per il resto vi sono grandissime dispersioni, sicchè nessun altro ha raggiunto il numero legale. Qui ci deve essere stato un blocco — ci è verso di annullare l’elezione? No? E allora parliamo di statistica. Sono dodici libriccini ed ognuno ha per lo meno otto balli; moltiplichiamo; ritroviamo il numero di giri di ogni ballo; moltiplichiamo, ritroviamo il numero dei passi di ogni giro. Moltiplichiamo; cioè no, non ne facciamo nulla. Si verrebbe a sapere che tu sei andata a piedi da Napoli a Milano, e ne sei ritornata; che avresti potuto salire sul Righi, o sul Monte Bianco; si verrebbe a sapere che hai superato, eroina ignota ai giornali, il capitano Salvi, il Bertaccini ed il comm. Sella, uno dei più attivi alpinisti. E dire che sono proprio quei piedini brevi ed inarcati, che hanno conquistata tanta gloria; e dire che non ne sono rimasti per nulla stanchi e che ricomincerebbero volentieri a guizzare! Gli stivalini di morbido raso bianco, dai piccoli bottoni, dalla fodera di seta, hanno sofferto poco; solo il tacco alto e svelto si è un po’ piegato per la stanchezza; le scarpettine rosee con la violetta ricamata sulla punta che sembra una mandorla, non hanno alcuna avaria: quelle grige con la fibbia sul fianco, tempestata di turchesi, possono rendere ancora valorosi servigi. Per adesso non c’è altro da fare che rivolgere loro un caro saluto che equivalga ad un ringraziamento per la loro opera umile ma costante, pel lavoro assiduo e senza ricompensa che hanno compiuto; un saluto che equivalga ad un: Arrivederci per nuovi trionfi!
Perchè i trionfi ci sono stati ed il relativo bottino; sono premii guadagnati nel cotillon, sono sciarpe di garza leggiera, un braccialetto di argento bruciato, due o tre piccole bomboniere, una farfalla dalle ali splendide di verdemare, una ricca decorazione di cui egli, diplomatico dell’avvenire, si spogliò volenteroso per deporla nelle tue mani, come vi deporrà quelle sul serio, un brano di merletto strappato allegramente, un nastro di color fuoco, ed in ultimo i cuori innamorati di quattro o cinque giovanotti biondi o bruni. Sono tutte cose belle, care, giovani, ridenti, liete, gioconde; sono echi risuonanti di risa, sono ricordi lievi di sguardi saettanti, sono brividi che si rinnovellano come se ne ripresenta la rimembranza. La sola rimembranza: perchè siamo in quaresima, cara.
Qui ti vorrei fare la solita predica del mercoledì fatale. Vorrei dirti che bisogna smorzare il lampo degli occhi, non sorridere che raramente ed anche con una certa gravità, chiudere l’abito sino al collo, abbassare le maniche sino ai polsi, nascondere la nuda pompa dei capelli, fare la penitenza, cioè, farla fare ai tuoi ammiratori; qui c’incastrerebbe benissimo l’idea della cenere e del sacco se non fosse molto vecchia e molto detta; farebbe bella figura da sè il paradiso che si deve conquistare per tornarlo a perdere nel carnevale dell’anno venturo; ci vorrebbe una toccatina d’incenso, un ricordo di ascetismo, qualche citazione latina che abbaglia sempre chi comprende e chi no, qualche riflessione malinconica, qualche pizzico di poetico misticismo, qualche lagrima di Lamartine, qualche esclamazione dell’impaziente Giobbe, qualche versetto di quell’ipocritone di Davide; insomma quello che corre di questi giorni. Se apri un qualunque giornale, troverai la miscela detta di sopra, con qualche ingrediente di più o di meno; pure io potrei apprestartela specialmente per la tua pronta conversione. Solamente mi viene un sospetto: che tanto io, quanto gli innumerevoli scribacchini che un perfido destino creò per la disperazione dei contribuenti italiani, non abbiamo a perdere la fatica della copia conforme. Hai un volto troppo ridente, Lulù, per darci ascolto; tu pensi certo qualche cosa. Scommetti, che l’indovino?
Tu pensi che se è trascorso il mese delle feste, dura ancora l’epoca della lieta tua festa, la gioventù; pensi che dodici balli non hanno sciupato l’inesauribile tesoro del tuo vigore e della tua gioia; ti senti nel core, nella mente, nell’equilibrio delle facoltà morali con le potenze fisiche, il desiderio della vita piena e completa. Non pensi alla quaresima, fanciulla impenitente; forse che essa ti cambia, forse che essa lo cambia, forse che in questi giorni non siete sempre quelli dei giorni passati? È vero, tu devi dare un addio ai fiori, alle stoffe, ai veli, alle garze; ma vi è modo di piacere anche con un abito di seta nera ed un colletto di merletto bianco — perchè la quaresima non ha influenza sugli occhi belli, sulle labbra fresche e rosse, sul corpo snello. È venuta la quaresima, epoca di ascetismo e di malinconia; ma tu stai troppo bene per soffrire di ascetismo, e la gioventù, con miracolo eterno, si rinnovella nel riso: ecco giunge la primavera leggiadra con le sue promesse; e dopo, il caldo estate con la felicità del mare che ti chiama, e poi l’autunno con le gaie escursioni in villa, e poi l’inverno coi balli, daccapo, per allietarsi, per sorridere, per amare! Se pensi tutto questo, ti annunzio che hai ragione, Lulù.