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NOTTE DI AGOSTO.
La terrazza diventava bianca, bianca sotto il chiaro plenilunio estivo: tutto dintorno si ammorbidiva in quella luce placida e dolce. Piovevano i raggi sopra le quiete fogliuzze del gelsomino che pareano fatte di argento; piovevano sopra la lucida gabbia, dove gli uccelli dormivano col capo sotto l’ala, sognando forse il loro paradiso; piovevano i raggi come falde di neve sul volto di Clelia, e lo rendevano candido, senza un’ombra, tranne la riga nera delle ciglia abbassate. Le case avvolte in un’atmosfera afosa, lattea; senza un palpito il mare; la lontana curva di Posilipo perduta in una nebbia che era luce, somigliava sempre più alla testa di un animale fantastico immerso in una riflessione profonda; sulla serenità crepuscolare del cielo dove morivano le stelle, spiccava il sereno profilo della Vittoria alata ed immobile; ed anch’essa, statua bronzea, pareva circonfusa di dolcezza.
Sulla terrazza, due sole cose vivevano e si ribellavano all’influsso moderatore di quella notte: all’occhio di Clelia un brillante, che con la fredda e superba indifferenza delle pietre preziose continuava a mandare un raggio fulgidissimo che pareva fuoco liquido; nell’angolo oscuro formato dalla muraglia, il sigaro di Giorgio che bruciava come un piccolo vulcano in permanenza. Perchè Giorgio era uno spirito forte e si sentiva pieno di disprezzo per le serate estive, per le fantasticherie, le poesie ed il resto, cose tutte che servono a spogliare il cuore della sua corazza di indifferenza, ed attenuano il più grande coraggio di uomo di spirito. Come si può essere ironico, scettico, realista in quella soave morbidezza che vi penetra per tutti i pori, e distende i nervi troppo tesi, e cambia i neri pensieri in idee rosee, vaghe e sfumate? Per questo egli si era seduto nell’angolo non ancora invaso dalla luna, con un sospetto nell’anima, pieno di diffidenza: avrebbe voluto protestare ed accese il suo sigaro, senza rivolgere una sola parola a Clelia. Essa sognava, la grande, la eterna sognatrice; pareva che avesse tutto dimenticato, anche la presenza di lui, perchè non alzava neppure gli occhi per guardarlo. — Non si moveva, non pronunziava una sillaba e sembrava una bianca statua di Dea, che attenda immobile un Pigmalione che la desti.
Ad un tratto, in quel grande silenzio, arrivò una nota squillante e vibrata, come se una mano decisa si fosse posata sopra una tastiera lontana: Clelia si scosse, aprì gli occhi, stette un istante in ascolto, poi dirigendosi a Giorgio, gli disse a voce bassa:
— Eccola.
— Chi?
— Sentirete.
Infatti la incognita suonatrice toccò due o tre tasti, come se esitasse, fece una breve pausa, poi attaccò un vivace preludio. Era un rapidissimo scoppiettìo di note, trascorrendo dalle più soavi alle più acute; erano volate bizzarre e rumorose: erano scale trillate ed allegre; erano voci profonde, basse come il brontolio del tuono; insomma una marcia velocissima di cui l’orecchio non poteva seguire tutte le gradazioni. Pareva che le mani della suonatrice s’inseguissero, correndo come matte da un punto all’altro della tastiera, si raggiungessero per disgiungersi subito e perseguitarsi di nuovo in una corsa affannosa e disperata. Poi lentamente il suono si allargò e si svolse, le note arrivarono distinte e spiegate, si sgranarono come una filza di perle lasciate cadere ad una ad una in un catino di rame: cominciò a sentirsi un motivo. Era una musica gentile, tranquilla, con un accompagnamento lieve, lieve — qualche cosa di soave, che poteva essere la ninna-nanna di un bambino, o un mormorio di amore; una musica senza parole, ma che era la traduzione, in onde sonore, delle onde luminose che rischiaravano quella notte di agosto. Che era? La canzonetta susurrata nella prima giovinezza o la preghiera cantata sull’organo del villaggio? Musica senza parole, ma il cielo, il mare, e la bronzea statua della Vittoria l’ascoltavano con compiacenza: disperso, di qua e di là, si vedeva un sorriso.
Ma non fu sempre così: il pianoforte dette in uno scoppio che parve una risata fresca e gaia, l’andatura divenne più briosa, le mani furono riprese dal loro furore musicale. Il motivo gentile si cangiò in un motivo passionato, la tranquillità in agitazione; fa un accavallamento, una furia, un delirio, una rovina — poi un grido incomposto: giunta quasi all’apogéo del suo turbine musicale, la suonatrice aveva sbagliato.
— Ha sbagliato, ha sbagliato! — esclamò Clelia presa da un grande terrore.
E sul volto le si dipingeva l’angoscia, le mani tremavano, tutto il suo corpo fremeva come all’aspetto di un pericolo mortale.
— Ebbene? — chiese Giorgio con la sua voce sarcastica.
— Nulla... — rispose lei, e cercò ricomporsi.
La suonatrice ricominciava il suo pezzo: rifece tutto il cammino percorso. mettendovi anzi più anima, risalì la gamma placida, quella del riso argentino, montò al momento agitato, arrivò al culmine e l’urlo selvaggio si intese di nuovo: di nuovo aveva sbagliato e questa volta anche peggio. Si ostinò, e per tre o quattro volte di seguito, principiò da capo per finire sempre nell’istesso modo: ci metteva una pazienza, un’attenzione mirabile — inutile. Quando giungeva al punto fatale, un timore panico l’assaliva, non era più padrona di sè; esitava e cadeva; non le era possibile superare quel punto; era un problema chiuso, una difficoltà insormontabile. Era uno spasimo sentirla andar così bene, proceder con cautela, mettere in opera tutte le più trillanti risorse dell’esecuzione, abbondare, essere artista, poi d’un tratto precipitare in un modo ridicolo: in Clelia si riflettevano tutte queste varie impressioni. Dapprima ascoltava, era sorridente, godeva quasi, poi la sua calma si turbava, il volto impallidiva sempre più, gli occhi si sbarravano, era ansiosa, fremente, pareva desiderasse ed allontanasse l’istante difficile; poi ricadeva quasi stanca, spossata da quella novella sconfitta. Giorgio la guardava trasognato: il sigaro era spento.
Pure quelle impressioni si dileguarono poco a poco, si attenuarono, scomparvero e vi rimase solo una tinta di malinconia. La suonatrice lontana, persuasa della inutilità dei suoi sforzi, era passata ad un altro pezzo e lo eseguiva alla perfezione; si vedeva che cercava distrarsi, dimenticare quel primo a cui non poteva riuscire. Passò ad un altro, provò il genere serio e quello scherzoso, stancò le sue dita in quel lusso di musica, ma come se le si fosse risvegliata la coscienza della sua inferiorità, ritornò un’altra volta al suo pensiero fisso, a quello scoglio pericoloso — vi ritornò, involontariamente, temendolo sempre: questa volta, davanti alla sua costante incapacità, parve che il medesimo pianoforte desse in un cachinno di scherno. E tutto tacque.
— Ebbene? — chiese di nuovo Giogio, ma con voce singolarmente raddolcita.
— Ebbene, — rispose Clelia, — questa suonatrice mi sconvolge. Sono dieci giorni che essa è tormentata da quella difficoltà ed io mi tormento con lei!
— Perchè?
— Perchè? Non lo so neppur io. Che importa a me di quello che suona? Perchè provo le sue stesse impressioni? Quale legame ci è fra me e lei? Che mi dice la sua musica, che vuol significare quel punto oscuro ed ineseguibile? Io non comprendo, non comprendo e questo aumenta il mio spavento.
Giorgio non le rispose: pensava. Quasi, interrogando sè stesso, si figurava di soffrire come Clelia.
— Ho sempre pensato una cosa, Giorgio. Ed è che noi tutti, scettici o credenti, uomini dal cuore vergine o giovanotti precoci, cervelli positivi o cuori ammalati, tutti, tutti portiamo in fondo all’anima un pensiero segreto, segreto anche a noi. — È latente, ma ci segue dappertutto, noi lo sentiamo, ne abbiamo la coscienza, ma non sappiamo che sia; è una domanda oscura del destino, è un punto interrogativo gittato all’infinito, è il problema insolubile della vita? Chi sa! Noi ridiamo, scherziamo, piangiamo, viviamo, ma portiamo con noi questa incognita paurosa: ad un tratto, essa ci si presenta continua, evidente, assidua. Ci tormenta, ci tortura, perchè non conosciamo la sua natura, quel che voglia da noi e tremiamo che non sia la nostra felicità la quale si dilegua per la nostra ignoranza! Forse è questa lotta con l’ignoto, con l’inafferrabile, questo combattimento con un potere nascosto, che esprime quella musica.
— Forse — disse solamente Giorgio, diventato serio.
— Forse: è la nostra parola. Siamo ciechi e quando apriamo gli occhi, è per vedere il sole che fugge, è per ricadere nella notte. Meglio dormire....
E rivolse la testa, quasi infastidita. Gli orecchini di brillanti, smossi, si rifransero vivacemente; la luna invadeva quietamente l’angolo oscuro dove stava Giorgio, ma egli non si accorgeva di nulla. Le parole di Clelia gli erano giunte al cuore e ne avevano ridestato il dubbio roditore. Assorto, col sopracciglio proteso, con la fronte abbuiata, egli s’interrogava come Clelia si era interrogata.
Allora, quasi per un’attrazione invisibile, si riudì la voce del pianoforte. La suonatrice tentava per l’ultima volta.
— Dio santo! — disse Clelia, nascondendosi il volto fra le mani. Non mi potrò mai sottrarre a questo imperio? Non saprò mai che voglia da me il mio cuore?
Il momento si accostava; era vicino, vicino....
— Oh! Giorgio, se la conoscete la parola della vita, se la sapete questa idea sconosciuta, ditela per pietà!
— Amore! — disse lui con voce grave.
Quello del pianoforte fu un grido di gioia, di trionfo: la luna aveva annullata l’ultima linea di ombra sulla terrazza, e la pace profonda di quella notte di agosto si era trasfusa nel cuore dei giovani.