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DOMENICA.
— Il peggiore giorno della settimana è la domenica — sentenziò Pietro il poeta.
Il suo uditorio applaudì vivamente: uditorio composto di una vedovetta gentile, di una signorina elegante, di un letterato, un pittore, un cronista da giornale — e di me. Quelle persone, così differenti per caratteri, per tendenze, per inclinazioni, si trovarono d’accordo nella opinione di Pietro.
— Si principia dal mattino — continuò egli con la sua verbosa nervosità — a non aver pace: uno scampanio che risveglierebbe la famosa città addormentata della leggenda; figurarsi, io che ho il sonno leggiero quanto le tasche. Per casa i mobili sossopra col pretesto di una pulizia generale; siete perseguitato di camera in camera da una nuvoletta di polvere inonorata — e dove vorreste trovare il disordine tal quale lo avete lasciato, vale a dire nello studiolo, invece un sacrilego ordine è stato messo fra i libri e le carte. Il campanello è preso dalla tarantola; ora viene uno, ora viene un altro e tutti hanno fretta perchè è domenica; la serva ritarda perchè è andata a messa, il servitore ha preso la sua licenza, le donne di casa vostra che debbono uscire, vanno, vengono, si chiamano, si rispondono, gli usci si aprono e si chiudono, i bambini gridano. Per salvare la testa, dovete mettervi il cappello e andar via!
— Bel rimedio! — disse il pittore. — Per le strade vi è una folla irritante; certe figure esotiche, mai più viste; corpi tozzi o stranamente prolungati; volti stupidi, siano quadrati o tondi; occhi a fior di testa, fisonomie senza un’espressione purchessia. Battaglia atroce di colori che s’insultano e si sberleffano, tavolozze oltraggiose che farebbero inorridire il più compiacente degli impressionisti!
— Alla passeggiata della riviera di Chiaia — aggiunse con voce languida la signorina elegante — vengono fuori certe carrozze da nolo dove sono issate almeno quindici persone fra genitori, bambini, zie, nipoti e serve; certe vetture noetiche con qualche rispettabile coppia preistorica, che serba il costume antidiluviano della trottata domenicale; schiere di collegiali, pallidi e meravigliati adolescenti, vi impediscono la strada; si ammirano abiti fenomenali e cappelli mostruosi su cui sono riversati intieri giardini; si veggono vetrine di gioiellieri portate dignitosamente dalle mogli dei medesimi. Di domenica è meglio fuggire il corso e andarsene in campagna.
— Non esiste campagna di domenica — affermò gravemente il letterato. — La città la invade, la distrugge. Non si trova un palmo di verde solitario, non un angolo silenzioso; i praticelli sono presi d’assalto, le colline brulicano di gente, le taverne fanno affari stupendi. Sentite e fremete, amici miei; nel delizioso boschetto di Capodimonte, dove le ninfe e le driadi hanno dovuto danzare al suono della siringa e della zampogna, dove il gran Pane ha dovuto avere un altare; là, sotto quegli alberi sacri e poetici, le famiglie della borghesia stendono la tovaglia e stappano le bottiglie!
— È di domenica — esclama il giornalista — di domenica che si tengono le conferenze filologiche, i comizi repubblicani e le accademie di musica tedesca, tormento della nostra infelice classe!
— Se andate al teatro — riprese Pietro, riacchiappando il mestolo sfuggito — sono sempre drammacci da arena o musiche di ripiego che piacciono al pubblico grosso; il quale pubblico vuol godere soldo per soldo i franchetti che ha spesi ed applaudisce dove non deve e chiede dei bis insopportabili e si abbandona ad entusiasmi stupidi! Quando avete finita la vostra noiosa giornata, tornando a casa, incontrate ancora della gente che passeggia e parla ad alta voce e ride; a casa vostra non potrete nè scrivere, nè prender sonno, perchè dirimpetto al vostro balcone si balla allegramente al suono di un chitarrino ed al lume di due lampade a petrolio. Oh lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato, siate benedetti!
⁂
Di domenica i bambini sono contenti. Non vanno a scuola; a colazione la mammina dà qualche cosa di più, un frutto fresco, una noce bianca, una ciambella, s’indossa l’abitino di velluto con gli alamari di seta, si mettono gli stivalini nuovi fiammanti che scricchiolano con orgoglio, una mano alla bambinaia, un’altra che porta il veloce cerchio o la leggiera palla elastica.... e difilati alla Villa Nazionale, il ritrovo dei piccioli galantuomini — e là giuochi? là disfide, là corse, là gaie risate che echeggiano accompagnate dalla musica. A casa un bel pranzetto e dopo tutto al teatro delle marionette, a ridere, a commuoversi, a scambiarsi le proprie impressioni: poi da capo a casa, un bel sonno profondo sino al mattino del lunedì, dopo la lieta fatica del giorno di festa.
Ed è giorno di festa per gli innamorati ancora: in quel giorno la tirannide bonaria del papa allenta un poco il freno e si lascia andare a qualche concessione: tanto, è brutto veder volti melanconici di domenica. La mattina vi è il su e giù per la via Toledo, dove, per caso, una si può incontrare e salutare almeno venti volte con chi più gli piace — vi sono le altre passeggiate, le giterelle, gli appuntamenti, le visite; le veglie serotine — e nel calendario ristretto dei giorni felici, le domeniche figurano al primo posto. Nel cuore inaridito delle zitelle mature rientra un po’ di speranza; esse pongono una veletta rosea sul volto che s’ingiallisce, cercano dimenticare il passato, ahi troppo lungo!, e sorridono all’avvenire. I vecchi mettono il forte e saldo soprabito che la nipotina ha spazzolato con cura, prendono il bastone col pomo d’argento, due fazzoletti nelle ampie tasche, la tabacchiera col tabacco fresco e vanno a passeggiare lentamente al sole, a quel sole che anima loro il sangue e lo fa scorrere veloce come vent’anni fa.
L’impiegato ha dato il sabato sera un giocondo a rivederci al protocollo, ai registri giornalieri ed al suo capo d’uffizio; la domenica egli è un uomo libero e felice. Può dormire un’oretta di più, senza timore di una multa o di una ammonizione; non porterà la livrea settimanale, cioè il peggior cappello, il peggior soprabito, le maniche di cotonina lucida e la penna dietro l’orecchio: non vedrà il viso affamato dell’usciere; non subirà l’economica colazione del caffè col panetto: è in casa sua, può fare quel che vuole, magari giocare a capinnascondere coi suoi piccini. Egli esce, passa con orgoglio davanti al suo ufficio, rivolgendo ad esso un’occhiata di superbo disprezzo, ritorna a casa con un cartoccino di chicche, con un mazzolino da un soldo per la moglietta, ricordi di quando facevano all’amore. E la giornata gli passa dolcemente, soavemente, con una beata lentezza, in un sorriso, confortandolo per la settimana di lavoro che lo attende. Il commesso di negozio non è più, la domenica, lo schiavo ossequioso del pubblico; diventa un giovanotto indipendente, prende cura dei suoi baffetti neri e della chioma riccia; porta una cravatta splendida ed i guanti; va in campagna con la famiglia della sua innamorata, una modistina incantevole sotto un cappellino azzurro che ella stessa ha creato il sabato sera, per far onore al suo fidanzato.
Giorno di festa per la innumerevole massa degli operai, il loro giorno di luce, il loro giorno di sole. Sono le tappe del riposo, sono i punti fermi in questo rapido discorso della vita; è una settimana per un giorno solo, per ricominciare sempre daccapo, sino all’ultima sosta. Chiedete all’operaia della fabbrica del tabacco: vi risponderà che solo la domenica può pulire la casa da cima a fondo, agucchiare alla biancheria sdruscita, fare una visitina alla comare del bimbo, sentire la predica del vespro e rimanere la sera in riposo, guardando dalla stretta finestra il cielo che si cosparge di stelle e canticchiando una malinconica canzoncina della giovinezza. È la domenica che l’operaio intagliatore, arso dalla febbre del sapere, può andare alla scuola del disegno dove gli si apriranno i segreti dell’arte. Chiedete a quanti si curvano giornalmente sotto il peso di un lavoro faticoso e mal ricompensato, a quanti si nutrono di solo pane per sette giorni: tutti vi risponderanno che il loro conforto è il giorno del riposo, il giorno in cui possono distendere le membra irrigidite. Di domenica vi è un po’ di gioia dappertutto; si ride, si canta, si balla, si ama, si fa la carità, si è buoni, si è fiduciosi dell’avvenire: pare la nascita ad una nuova vita, il principio di un’epoca felice.
Quando ho pensato tutto questo, è entrato nel mio cuore il rimorso e lo sdegno. Ho chiesto a me stessa se gli amici di quella sera non erano dei miserabili egoisti, dei feroci misantropi che facevano parlare il loro meschino gusto personale di fronte all’immensità del sentimento popolare; mi sono chiesta se l’artista, il pensatore, il poeta, avendo pure nell’anima la scintilla creatrice del genio, godessero il diritto di imporsi a quanto è la voce sterminata della moltitudine; mi sono chiesta se le loro gioie aride e solitarie prese tutte insieme, valessero un sol grido di un bambino allegro, un sospiro di sollievo di un cuore innocente, — e col rimorso della mia passività di quella sera, sono anni che la domenica metto il catenaccio al cervello e vado a zonzo, e fo raccolta di sorrisi, e mi imbevo della consolazione altrui, consolandomene io stessa.