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TRILOGIA.
Nella sala fulgida di lumi, piena di morbidi fruscii e di amabili susurri, egli la guardava di lontano ed ella sentiva turbarsi sotto quello sguardo. Ella era entrata in quel ballo come in tanti altri, splendida nel suo lunghissimo abito di verde-opalino, splendida e bianca sotto la corona di foglie verdi, umide di rugiada, che era rugiada di brillanti, splendida nella noncurante indifferenza che era la salda armatura del suo cuore: ora lo sguardo di quell’uomo, di quello sconosciuto, turbava lei, che pure aveva sopportato il fuoco di tanti altri occhi. Sconosciuto no, perchè qualcuno glielo aveva presentato come il conte Riccardo Altimari: un inchino, un sorriso, un invito pel waltzer mormorato a bassa voce, poi null’altro. Laura aveva ballato e molto, aveva fatto un giro nelle ricche sale, aveva cambiato posto tre o quattro volte, aveva sorriso, chiacchierato, odorato il suo mazzetto di fiori, agitato vivamente o languidamente il suo ventaglio di piume leggiere; ma tutto questo con un sentimento di distrazione, perchè ella sapeva, vedeva o sentiva che il conte Riccardo Altimari non la perdeva di vista: il conte Riccardo Altimari, una di quelle figure dove la delicatezza si fonde con la fierezza, dove il sentimento completa ed esplica la linea, dove l’espressione anima gli artistici profili; una di quelle poetiche figure che sembrano sfuggite ad un quadro medioevale ed attestano la bellezza virile e pensierosa della razza italiana.
Ad un tratto una nota gaia vibrò nel vasto salone, una nota così lieta, così fresca, così squillante, che Laura ne provò un sussulto di gioia; era il preludio del waltzer che prorompeva nella sua allegra chiamata. Ed accanto a lei il conte che la invitava col semplice e lieve sorriso delle labbra; nè durante il vortice del ballo furono scambiate fra loro parole. Sibbene, nel congiungersi le due mani inguantate ebbero un piccolo fremito; il lungo strascico parve avesse avvolto nelle sue onde il bel cavaliere, nelle sue onde simiglianti a quelle perfide del mare; la musica sbuffava giocondamente in iscoppii di risa; i fiori sembravano coppe dove ardeva l’incenso del loro profumo; le gemme combattevano follemente di luce con le fiammelle dei lumi: quei due erano giovani, belli e felici nel turbine che li rapiva — e le bocche rimasero mute, mentre negli occhi si concentrava tutta la vita, tutto il godimento di quel rapidissimo istante. Si lasciarono silenziosi.
⁂
Nell’aperta pianura, Laura aveva lanciato il suo cavallo al galoppo, lieta di quello affrettato movimento che la rianimava, lieta del venticello mattinale che le agitava i capelli, facendo svolazzare il velo azzurro del suo cappello, lieta di quella indipendenza quasi maschile, di quella libertà solitaria; ma giunta sul limitare del bosco, si era sentita prendere alle spalle da una grande indolenza ed aveva messo al passo il cavallo. Malgrado la spessezza dei rami intrecciati, il vittorioso sole di giugno penetrava nella foresta e come l’ora si avanzava, tutto dintorno pareva compreso da una beata stanchezza; un odore dolce e caldo di vegetazione rimaneva immobile nell’aria: qualche foglia crepitava sotto il piede del cavallo, qualche ramo sfiorava la fronte della leggiadra amazzone: ella si trovava sotto l’imperio della natura. Andava lentamente, con le mani abbandonate, stringendo appena le redini; era bellissima nel suo abito di panno azzurro cupo, sotto il cappello dalle larghe falde, nella mollezza della gentile persona; bellissima per la luce che scherzava coi leggieri ricci della nuca, dando loro un riflesso dorato, per la luce che le illuminava i contorni del bianco viso, per quell’ombra rosea che discendeva sulle guancie, per quelle labbra vivide e schiuse come il melograno maturo. Nel suo spirito giravano lentamente pensieri calmi e sereni, ella si immergeva quasi in un letargo dolcissimo, dove non iscorgeva più il limite del presente e dell’avvenire; si trovava contenta in quella solitudine, in quella calda mattinata di giugno, in quel bosco così pieno di vita ed intanto così tranquillo. Camminò a lungo, dimenticando l’ora del ritorno; poi una piccola inquietudine, subentrò alla sua pace, parve che la sua gioia diventasse arida come un fiore disseccato. Era forse il sole che giungeva al proprio zenit? Era un senso d’isolamento, d’incompleto, che la feriva? Era un lontano ed impercettibile rumore? Era l’ansietà di giungere all’angolo del viale che percorreva, per ispingere lo sguardo curioso anche più in là? Difatti, a quell’angolo rattenne un istante le redini; un cavaliere veniva verso di lei al passo del suo cavallo; il cavaliere del ballo, che, come allora, la copriva d’una magnetica potenza del suo sguardo. Si avvicinavano l’uno all’altra, annullando la distanza che li separava, come due esseri che si avviino al loro destino: quando furono di fronte, un saluto ed un sorriso intelligente, i cavalli si sfiorarono, si allontanarono; all’estremità del viale Laura si fermò e si voltò. Il conte Riccardo era fermo all’altro estremo, lontano, lontano: eppure si videro spiccatamente; e poco dopo il bosco si rinchiuse nella sua quiete maestosa, non turbata da alcun passo umano.
⁂
Il vento crepuscolare sollevava nugolette di sabbia; sulla spiaggia deserta non appariva alcuno: pure la grande voce del mare, la eterna e sempre vecchia e sempre nuova voce del mare, riempiva quel deserto. Sul cielo, che si arrossava, spiccavano nettamente i profili aspri e severi di uno scoglio a picco che bagnava la sua radice nel mare: uno scoglio nero e pensoso. Quest’ultimo giorno di autunno, un giorno che aveva racchiuse e compendiate in sè le magnificenze della primavera e dell’estate, terminava lentamente, con una maestosa ricchezza di colori; non vi era in quel tramonto un sol rimpianto, una sola malinconia, nulla di riposto o di arcano. Era una pompa libera, aperta, quasi oltraggiosa; un lusso senza scrupoli, che sarebbe passato in un solo istante nell’ombra, senza esitare. Sulla sterminata vastità del mare si svolgeva una tavolozza indescrivibile; sul lontano orizzonte neppure una nuvola; solo un incendio che diventava splendido per l’unità del suo tono.
Ella sedeva là, sopra un sasso, voltata verso il mare e tanto vicina ad esso, che la spuma delle onde più ardite veniva a lambirle la pelle finissima degli stivalini; talvolta col piede ella spingeva distrattamente un ciottolino in mare. Ma invece di guardare lo spettacolo trionfale della natura, ella pensava a sè: pensava alla sua gioventù, che era stata tutta un trionfo, trionfo di ricchezza. di bellezza e di vanità; pensava alle feste dove l’avevano proclamata regina, ai caldi teatri, ai ritrovi, a tutti gli altri piaceri del lusso. E le parve che somigliassero a quella bellissima giornata di autunno, le parve essere anche lei una esplicazione di quella natura vincitrice; come la luce, ella aveva dominato e sottoposto il mondo; come in tutte le cose, essa aveva intesa in sè quella forza produttrice che si svolge senza fine; come la spiaggia, come il mare, come il cielo, ella era stata grande nel suo isolamento. E reclinò la testa sulla mano, quasi volesse rientrare nel passato.
Ma venne l’ombra, la tavolozza del mare si annebbiò, il cielo fu violetto, poi grigio, poi bruno; lo scoglio si ammantò di nero. Ella si scosse, alzò la testa, si trovò sola, nella notte; in una notte che le era entrata nell’anima. Nulla più rimaneva dello splendido passato; nulla più del rosso tramonto: ambedue erano scomparsi nella oscurità. Allora lei, fiera e forte, fu presa da un abbattimento novello, da un senso di debolezza; le pareva che per lei fossero inaridite le sorgenti della vita e della felicità. Sì, tutto finiva; niente meritava la pena dell’esistenza; esaurita per sempre la fonte delle gioie. Poi, quasi per istinto, si volse; a pochi passi era fermato un uomo, un giovane. Ella, malgrado l’ombra, riconobbe il conte Riccardo.
— Laura! — chiamò egli con una voce grave ed affettuosa.
— Eccomi — rispose lei, alzandosi e dandogli la mano.
Nella notte alcune stelle scintillavano.