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NUOVA CACCIA.
Oh, i bei tempi delle antiche caccie! Lunghissime corse dietro una problematica lepre o una volpe astutissima, colazioni succolenti e sonni profondi, campagne, boschi, colline, dove siete più? La civiltà vi ha distrutte, o belle caccie dei nostri padri: la civiltà, col suo noioso fumo della vaporiera, con le sue armi di precisione, con le sue larghe strade, con le sue nuove occupazioni. Non vi sono più caccie: le ultime si sono rifugiate fra le montagne del Tirolo, in Russia, in Africa, ma da noi l’è finita. Adesso quasi nessuno più si alza allo spuntar dell’alba, per infilare la giacca e gli stivaloni, e ponendosi ad armacollo il fido fucile andarsene a minacciare le filosofiche riflessioni di un tordo o le rumorose moine di una pernice: bisogna andare alla Borsa, al giornale, al circolo, al caffè, soffocare in una sala angusta, piena di fumo e di malignità che si svolge nell’ambiente, opprimersi il cervello con le solite notizie, le usate ed abusate freddure, i quotidiani scandali; fare una cattiva colazione, un peggior pranzo: e poi di nuovo là, donde si esce affranti senza aver camminato, stanchi senza aver lavorato, vuoti di spirito ed annoiati — Oh la civiltà, miseria della nostra epoca!
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Così è, non si va più a caccia. Mentre gli antichi uomini si contentavano di essere grandi cacciatori davanti a Dio, i nostri moderni vogliono essere grandi pubblicisti, grandi statisti, grandi professori, grandi... qualcos’altro, davanti ad un Dio qualunque che molte volte è la società, spesso il denaro, spesso sè stessi, raramente quel di sopra. Ma io casco nell’enfatico; andiamo al fatto. La caccia non ci è più, ma la caccia ci è. Paradosso. Sorriso ironico ed incredulo del lettore. Mia spiegazione: la caccia non è più nelle campagne, ma si è rifugiata nelle città, la materia deve avere un posto: se la si leva da una parte, essa spunta dall’altra — benedette lezioni di fisica! Dunque s’è fatta cittadina e quindi messa in fronzoli e nastri, nè vi garantisco che non usi la simpatica veloutine: in città si acquistano tante belle abitudini: tutto sta ad intenderle subito. Ma, venendo al sodo, non si tratta della eterna caccia che danno le signorine alla difficile selvaggina che è un marito, nè di quella che i creditori fanno agli innocenti debitori, non è neanche caccia alla eredità, al testamento, agli onori, alle cariche. È un’altra caccia. Chi la vuol sapere, legga più basso.
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È la caccia al lettore. Sì, lettore umanissimo, tu sei l’oggetto della caccia dei letterati, poeti, giornalisti, filosofi, scienziati. A te sono dirette tutte le colossali lettere dei cartelloni, le microscopiche lettere dei cartellini, i trasparenti, le pioggie colorate, tutti gli infiniti e molteplici aspetti della rèclame e della claque. Per te gli autori si inginocchiano nelle prefazioni, negli avant-propos, nelle platoniche dediche — per averti s’inventano i mille trucs degli abbonamenti, le promesse dei premi favolosi che superano di gran lunga il prezzo che tu sborsi, quasi che il giornale volesse avere il piacere di farti un regalo: curioso disinteresse! Poi le sciarade, immenso campo dove il lettore potrà, mediante un piccolo sforzo di memoria, indovinare, rimanere vincitore, e di che premio! vi so dire. Lettore, per te si fabbrica, per te si traduce, alcuni hanno anche l’ingenuità di creare; per te si legge e per te si scrive; per te si scarabocchia, per te si toglie — onesta parafrasi — dagli altri giornali — e tutta questa roba mischiata, unita, condita col pepe di uno scherzo, col sale di una riflessione, con l’olio della raccomandazione alla tua benignità, ti vien presentata con un inchino, con un sorriso — si vuole che tu legga. Tu non leggi — o uomo di poca fede!
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Non si legge, non si legge — ecco il secreto tormento di coloro che invece d’imparare un utile mestiere, hanno avuto la felice ispirazione di volere scrivere. Il lettore è sparito dal mondo — oh legge sulla istruzione obbligatoria! Come faranno dunque tutti questi nuovi ingegni che hanno assolutamente la smania di comunicarci le loro idee? dove è il pubblico per tanti attori? Io moltiplico gli ammirativi e gl’interrogativi, ma la punteggiatura non è un rimedio, tutt’altro; la piaga rimane la medesima. E dire che del lettore si ha assoluto bisogno, lo si cerca, lo si vuole, lo si va cacciando — e lui duro, ostinato, incredulo, fugge, si nasconde, evita i colpi, para le botte e tira via. E così si vede quell’essere spesso innocente, forse involontariamente colpevole, che è uno scrittore letterario, salutare cortesemente la figlia del portinaio che trova leggendo un romanzo — è una lettrice futura remota; quell’altro bipede implume, grande fabbricatore di pettirossi e di carote che è il giornalista, proteggere modestamente lo speziale dell’angolo che dovrà leggere il suo articolo sulla tassa degli zuccheri — il professore sorridere all’alunno che ha comperato il suo libro — Sono tutte armi quel saluto, quella protezione, quel sorriso; si semina per raccogliere che se poi non si raccoglie nulla, incolpatene la cecità del pubblico poco disposto ad essere illuminato anche gratis.
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Vi dovette essere qualcuno che t’insegnò tanta malizia, o lettore — devi avere qualche segreto potere che ti fa forte contro le infinite tentazioni della penna, contro le molteplici e svariate seduzioni che dalla mattina alla sera sono la ricerca degli scrittori: tu sorridi quando ti si chiama benigno, benevolo, simpatico, quando ti si dice bella lettrice; sorridi e passi avanti. Non ti curi della lunga schiccherata di collaboratori che sfilano nei programmi delle riviste, bada, nei soli programmi, quasi che tu sapessi essere quello un mezzo di comprare la gloria, tanto per la rivista quanto pel collaboratore — Tu non cerchi vedere chi si nasconde sotto la moderna invenzione, lo pseudonimo; sai forse che lì dietro vi è quasi sempre un nome ignoto, di cui non si deve aver che fare, se lo si lascia tanto comodamente? Tu non sai che farti dell’amore dei libri; ami forse, ma non in quel modo: nè vuoi essere data la legge. Non t’importa che la cronaca ti dica che la gente onesta, pulita, che si rispetta, va a Castellammare o a Montecatini; tu resti un galantuomo, prendi l’asino e te ne vai sul Vomero. Il giornale ti dice di votare pel tal dei tali, tu non ne fai niente. Dimmi, chi ti insegnò queste cose, o lettore? La tua scienza tanto sottile, tanto astuta, tanto fine, dove l’hai trovata?
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Questa volta, a furia di girare e di rigirare la questione, credo di averne rinvenuta la molla segreta e i miei punti interrogativi troveranno una qualunque risposta — se non piace loro, che si stiano. Dunque, studiato, paragonato, osservato tutto, risulta: che si legge poco, perchè si scrive troppo. Che novità, eh? Ma la è così: il campo del pubblico si assottiglia, quello degli scrittori aumenta, ma in quantità non in qualità. Ognuno vuole spifferarci la canzone, la poesia, la novella, il romanzo. — Dopo aver letto le gioie del signor Caio, bisogna sorbirci le disperazioni del signor Sempronio e le bestemmie di quell’arrabbiato di Tizio! I circoli, le associazioni, le scuole, i premi accrescono la terribile mania e siamo inondati di genii in erba, incompresi... perchè non sanno la grammatica — ed atei... perchè non hanno di meglio a fare. — Dinanzi a questa irruzione, il pubblico si arretra, si spaventa, si annoia, perde la fiducia e non legge più; apre i libri quando sono firmati da nomi che conosce, compra il giornale che ha l’abitudine di portarsi a casa, ma davanti all’ignoto, di fronte alla x incognita, fa il niffolo e rifiuta.
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Malgrado questo, la caccia continua, i cacciatori sono accaniti, pazienti, non si scoraggiano, non lasciano la traccia — la selvaggina non si trova, non ci è; è dileguata, scomparsa. E la sorte delle lettere, e l’arte? Mah!..... Dategliele queste lettere, quest’arte, e vediamo se quel caro pubblico dirà di no; ma, a conti fatti, bisogna persuadersene: per fare un libro ci vogliono due persone: l’autore ed il lettore. Nevvero, signor lettore? Nessuno mi risponde: ecco una caccia perduta.