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UN INTERVENTO.
I.
Guido aveva quel giorno l’aspetto di un uomo felice: fronte serena, occhi e labbra ridenti, andatura svelta e spigliata. Ritornava da un banchetto politico — in questo caso la parola pranzo è troppo volgare — dove alle frutta aveva minutamente spiegato ai suoi elettori futuri il suo programma: gli applausi erano fioccati, la cucina del cuoco, lo champagne ed il programma del candidato avevano prodotto molta impressione: l’elezione era assicurata. La sera poi, Guido sarebbe andato ad un ballo, dove avrebbe incontrato la baronessa Stefania, una crudele che cercava da un mese un pretesto dignitoso per lasciarsi intenerire: forse durante un waltzer di Metra o in una visita poetica al buffet, il pretesto si sarebbe offerto da sè: la misericordia divina è così grande! Aggiustati quindi i suoi affari pubblici ed intimi, Guido rientrava per dormirsela un’oretta, come il grande Napoleone alla vigilia di non so quale battaglia.
Ma Giuseppe, un servitore vecchio e fedele, come se ne trovano ancora pochi, Giuseppe rimaneva in posizione rispettosa davanti al padrone; sul suo volto si leggeva il desiderio di dire qualche cosa.
— Ebbene? — chiese Guido, che se ne era accorto.
— Chieggo scusa al signor padrone.... volevo dire....
— Purchè tu lo dica presto.
— Il signor padrone ricorda che giorno è questo?
— No, Giuseppe, no.
— Oggi è il suo compleanno....
— Ah! — fece soltanto Guido, la cui fronte si rannuvolò.
— Altre volte.... ai tempi di qualcun altro.... in questo giorno eran fiori dappertutto....
— ....Erano, non ci sono più! — osservò Guido con una leggiera mestizia.
— Ci sono, ci sono — disse il vecchio servo smascherando un grosso mazzo di fiori che troneggiava sopra una mensola.
— E chi?... — domandò Guido, ma guardando il volto umile e sorridente del servo, comprese subito. — Tu, Giuseppe?
— Il padrone.... scuserà....
— No, non vi è bisogno di scusa. Ti ringrazio: mi hai fatto piacere con quei fiori.
E il candidato al collegio di Roccacannuccia ed al cuore della baronessa Stefania, si commosse, pensando che nel suo compleanno, al solo servo era venuta la gentile idea di un dono di fiori. Ma fa una lieve emozione, perchè anzitutto Guido era un uomo di spirito. Ora chi appartiene a questa onorevole e ristretta classe di persone, ha il diritto di commuoversi ogni tanto, ma a patto che lo faccia brevemente, senza dimostrarlo all’esterno, e che dopo sia pronto a sorriderne.
— Io vado a dormire un poco — riprese Guido; — mi sveglierai alle sette e mezzo.
— Sarebbe meglio che il signore non dormisse.
— E perchè, savio Giuseppe?
— Perchè stamane, mentre in casa vi era soltanto Girolamo, è venuta una signora. Quando ha inteso che il padrone era uscito, essa ha detto: «Benissimo, appena sarà di ritorno, ditegli che verrò nuovamente questa sera alle sei, che mi attenda ad ogni costo, perchè debbo parlargli di un affare urgente». Ed è andata via.
— Bravo! ed il nome?
— Non ha voluto lasciarlo.
— Uhm! roba misteriosa, qualche rondinella pellegrina. Girolamo ti ha detto almeno.... di che si trattava?
— Sì: giovane, alta, bruna, vestita con molta eleganza.
— Di bene in meglio. La mia curiosità è stuzzicata. E tu credi, Giuseppe, che per questa incognita io non debba dormire?
— Sono le sei. Se essa è puntuale, il padrone non avrà neppure il tempo di stendersi sulla poltrona.
— E va bene, facciamo questo sacrificio alla Dea ignota. Giuseppe, dammi i giornali, attenderò leggendo. Una bruna ed alta! giusto, Stefania ha i capelli biondo-ardenti; sarà un diversivo.
Qui la lettrice alzerà gli occhi dalla pagina e penserà che Guido minaccia di essere un Don Giovanni; niente affatto. Non nego che ai suoi venti anni Guido era tanto ricco di cuore da adorarne anche tre alla volta; ma poi era venuta la sua grande passione in cui ce lo aveva rimesso tutto il cuore, poi per una sciagurata combinazione la felicità era crollata come un castello di carta e la grande passione soffocata e seppellita nel passato. Dopo due anni impiegati a farla morire, Guido aveva ripreso la sua vita da giovanotto, un po’ qua, un po’ là: ma erano fuochi di paglia.
— Signore, signore — disse Giuseppe, rientrando tutto turbato.
— È venuta?
— È in salotto.
— La conosci tu?
— No, no.... non la conosco — rispose il servo balbettando.
Ma il padrone era già presso la porta del salotto, dove si fermò un momento per contemplare l’incognita. Costei stava ritta presso il tavolo sfogliando l'album delle fotografie; voltava le spalle alla porta, sicchè non si distingueva altro che una figura alta e graziosa, vestita di un ricco abito di seta nera, carico di merletti.
— Signora.... — disse Guido, avanzandosi.
Quella si rivolse subito: Guido provò come una scossa elettrica, e per celare la grande meraviglia che gli apparve sul volto, fece un profondo inchino.
— Non disturbo? — chiese ella, sedendosi con molta scioltezza, dopo aver risposto al saluto.
— Per nulla; sono a vostra disposizione.
— Peggio per voi se questo è un complimento; io sono disposta a profittarne.
— A mio rischio e pericolo dunque — replicò Guido sorridendo — compiacetevi di parlare.
La signora (in confidenza si chiamava Emma) carezzò un poco il pelo morbido del suo manicotto; pareva che, sicura delle sue idee, cercasse una forma efficace ad esprimerle. Guido si distraeva a guardarla; era proprio lei, sempre bella, sempre affascinante come il primo giorno che l’aveva vista; anzi adesso gli appariva completa, perfetta. Il profilo sempre puro era più deciso, più fermo; la carnagione bruno-pallida si era colorita di una leggiera tinta rosea; gli occhi che prima erano soltanto vivaci, avevano preso un’espressione profonda; quella donna aveva vissuto e sofferto.
— Avete mai recitato la commedia? — chiese lei infine.
— Si vive nel mondo, signora....
— E si recita da mane a sera. Benissimo, vedo d’aver fatta una domanda inutile. Dunque domani la reciterete ancora; ma vi avverto che avrete una parte seria e che il successo sarà difficile a conseguire.
— Tutto dipende dagli attori e dal pubblico.
— Avrete me a compagna.
— Conosco la vostra valentia.
— Nel fingere?
— Nel recitare. Sarà un proverbio?
— Sì, ma senza la moralità negli ultimi due versi. La moralità è nello scopo della rappresentazione: si tratta di un’opera pia.
— Viene da voi — disse Guido con una velatura d’ironia.
— Vale a dire?
— Che voi siete pietosa; e che io non capisco ancora.
— A momenti. E ditemi.... siete in corrispondenza con mio padre?
— Sempre; ma saranno ora due settimane che non mi scrive.
— Invece io ho ricevuto ieri una lettera. Mi scrive che sta bene e che domani arriverà a Milano col treno delle dieci e venti.
Questa volta Guido non credette dover celare la sua sorpresa.
— Domani?
— Proprio domani.
— Vostro padre che non si muove mai?
— Si trova di passaggio per andare a Napoli e fa una breve diversione per vedere....
— Sua figlia....
— E suo figlio, dice lui.
— Sicchè?
— Sicchè ci troviamo in un grazioso impiccio — disse Emma distendendo il piede sopra uno sgabellino di velluto.
— Lo chiamate grazioso?
— Non sono solita a pronunziar paroloni. Pure bisogna trovare un rimedio.
— Io non ne veggo.
— E siete un uomo politico, un uomo di spirito? A che vi giova aver imparato l’arte dei sottili sotterfugi, delle transazioni delicate, delle frasi leali e.... molto diplomatiche?
— Se continuate così, io troverò molto meno il rimedio.
— Bah! io l’ho trovato.
— Lo sapevo.
— Siete cortese anche nell’intenzione.
— Vorrei esserlo nei fatti per voi.
— Vedremo. Dunque vi diceva che un mezzo c’è. Eccolo qui: io, a niun costo, voglio fare sapere a mio padre la verità....
— La triste verità.
— Aggettivo inutile. Mio padre ne soffrirebbe molto ed io avrei un rimorso cocente della sua sofferenza: le colpe dei figli non debbono essere piante dai padri. Finora, per le mie cure e per le vostre, per la lontananza, per la nessuna conoscenza che egli ha di persone milanesi, gli è stato risparmiato questo dolore. Ma domani, tutto questo bell’edifizio di pietose menzogne cadrebbe, e sa Dio quali ne sarebbero le conseguenze. Occorre impedire ciò assolutamente; voi mi aiuterete in quest’opera. Che egli ci ritrovi domani insieme come ci ha lasciati; che non una parola, non un gesto gli riveli il vero stato delle cose: ecco quanto dobbiamo fare.
Tutto questo era stato detto con voce seria e grave, e seriamente Guido lo aveva ascoltato. Pure non rispose subito: rifletteva.
Emma s’impazientì:
— È la commedia, come vedete — essa riprese. — Una commedia per beneficenza, non vi dovrà costare tanto.
— Per me sono pronto. Non temete che avvenga qualche equivoco?
— Quale?
— I servi....
— Darete licenza per domani al nuovo servo che ho trovato stamane. A Giuseppe parlerò io.
— Benissimo: e se viene qualche amico importuno?
— Per domani non riceverete.
— Suppongo che andremo a prendere vostro padre alla stazione e che ve lo ricondurremo; la gente che ci vedrà uniti, che dirà?
— La gente non ci vedrà; andremo nel coupé e di corsa.
— Vostro padre resterà qui una giornata: per quanto sia buono ed ingenuo, credete che non si accorgerà di trovarsi nella casa di uno scapolo?
— Questa sera farò portare qui il mio tavolino da lavoro, i miei libri e la mia musica: sarà la messa in iscena.
— Pure....
— Vi è forse qualche cosa di cambiato nelle camere?
— Nulla vi è di cambiato — rispose Guido con voce grave — la vostra camera è intatta, quale la lasciaste.
— Fate del sentimento?
— V’ingannate, fo del rispetto.
— Grazie; avete altre obbiezioni?
— Nessuna più: resta a vedere se saremo capaci d’ingannare il bravo signor Giorgianni.
— Facendo gli sposini affettuosi? Ci ricorderemo i tempi antichi: le scioccherie del primo anno di matrimonio — disse con sarcasmo Emma.
— Io le aveva dimenticate — rispose prontamente il marito.
Si guardarono in viso, scambiando un’occhiata da duellanti che si riscontrano di prima forza.
— Ma forse io sono un’egoista, a pretendere di sequestrarvi per una giornata intiera. Domani non avete altri impegni?
— No, alcuno: avendone, li lascerei.
— Grazie, di nuovo; per questa sera, poi, siete assolutamente libero: io non ho bisogno di compagnia.
— Come, di compagnia?...
— Certo, io rimango qui stasera. Attendo le mie robe, come vi ho detto: ed intanto mi occuperò ad ordinarle, a disordinarle in modo che sembrino essere state sempre qui. Ma a voi non voglio dare maggiori fastidi; uscite, ritornate a quell’ora che vi piace: fino alle dieci di domani siete un cittadino indipendente.
— Infatti dovrei andare ad un ballo; pure, se volete, rimango.
— E perchè? dovremmo fare conversazione, e fra noi non ci è da dire niente più.
— O troppo; avete ragione. Sicchè chieggo permesso per andare a vestirmi.
Emma s’inchinò e Guido uscì, come un uomo scevro di cure e libero di spirito. Ma dentro era un po’ scombuiato; infatti l’avventura era meravigliosa ed egli ci pensava, ci mulinava tanto che al ballo fu distratto in modo deplorevole. La baronessa Stefania gli gittò sguardi fulminei che egli ebbe l’impertinenza di non vedere: anzi, profittando di una quadriglia che teneva occupata tutta la sala, egli se ne andò senza salutare nessuno.
Ritornato a casa, si ritrovò in un ambiente trasformato, insolito, nuovo, era stata data aria al grande salone, chiuso da tanto tempo; nella camera da letto erano accesi i lumi, gli armadii erano spalancati, si sentiva un sottile odore di violetta. Nel salottino il pianoforte aperto e la musica squadernata sul leggìo, dei fiori freschi nei vasi, cangiato l’ordine dei mobili, ed Emma in veste da camera, che si adergeva sulla punta dei piedi per prendere una statuetta da un'étagère.
Era un sogno quello? Emma in casa che lo attendeva... cioè i tre anni di assenza cancellati, cancellato quel doloroso giorno della separazione... che follie!
— Buona sera — disse Guido e passò.
— Buona sera — rispose lei senza voltarsi.
II.
Mi è d’uopo confessare, che malgrado la stranezza degli avvenimenti, malgrado i dubbi del domani, in quella casa, per quella notte, non ci furono insonnie, nè guanciali bagnati di lagrime. Emma era persuasa che la commediola da rappresentarsi non avrebbe cangiato nulla all’avvenire, e Guido aveva dal canto suo la medesima persuasione; si conoscevano troppo bene e sapevano che nulla, nulla poteva più riunirli. Emma, entrando nella sua antica camera, pensò di essere all’albergo; e Guido nella sua si addormentò dopo tre pagine di Herbert Spencer (non intendo calunniare il filosofo, ma il mio eroe avea sonno).
Era vero, nulla poteva più riunirli. Per maritarsi avevano commesso mille stranezze: Guido era corso dietro ad Emma da Firenze sino a Napoli, aveva passati tre mesi sotto le sue finestre; Emma gli scriveva ogni giorno una lettera di otto foglietti e stava tutta la notte sul balcone. Il padre di lei, un po’ di buona voglia, un po’ per forza, finì per consentire come consentono tutti i papà di questo mondo. In fondo, in fondo, egli era una bravissima persona ed aveva tergiversato perchè gli doleva di allontanarsi dalla figliuola: pure, temendo di vedersela ammalare, disse di sì. I due sposi, schiettamente felici, si adorarono per tre anni di seguito. Non dico che mancassero fra loro le questioncelle, le gelosie, sovratutto da parte di Emma. Essa possedeva un carattere estremo, orgoglioso, irruente; non sapeva amare o odiare a mezzo: invece Guido le si opponeva con quella tinta di freddezza, con quel sorrisetto menomatore ed ironico dei caratteri medii. A volta si urtavano vivamente, ma la pace dopo sembrava più bella.
Un giorno, non so come, Guido ritrovò un’antica fiamma; si rividero, ricordarono, ci corse un biglietto ed un convegno. Guido vi si lasciò trascinare più per debolezza che per un trasporto; più di tutto si vergognava della figura di collegiale. Come lo seppe Emma? Fu un servo imprudente, un’amica zelante, una lettera smarrita? Non si sa, ma fu per certo una prova sicura e lampante: perchè tutto l’amore cieco ed ardente che sentiva per suo marito, le si convertì in un freddo disprezzo. Non trovò per lui una scusa, si sentiva ferita a morte nel suo affetto e nel suo orgoglio di donna felice. Fece venire suo marito e con una calma meravigliosa, senza che mai la voce le tremasse, gli annunziò che si sarebbero divisi senza strepiti, senza scene. Egli strabiliò, per la sorpresa; volle reagire, sorridere, prenderla sullo scherzo, attenuare la sua colpa, ma la moglie gli rispose così fiere e severe parole, che egli dovette tacere. Gli pareva ridicolo continuare a giustificarsi, accettò tutte le condizioni da lei impostegli e la lasciò andar via: la giudicò una donna superba e disamorata. Cercò distrarsi, come ho detto, negli affari, nella politica, negli amoretti; assunse un contegno franco, fece il trascurato e lo scettico; ma solo, in compagnia della sua coscienza, sentiva che la sua vita era infranta e rovinata.
Rivide la moglie due o tre volte, di lontano: si salutarono come due persone che appena si conoscono, l’uno non cercava mai dell’altro; del resto essa faceva una vita molto solitaria, non frequentando mai i teatri e le feste, mentre egli si gittava a capofitto nei rumorosi divertimenti. Si trovavano di accordo in un solo punto: scrivere al padre come se nulla fosse stato; vale a dire notizie stereotipate. Per esempio, Guido scriveva: «Emma sta bene, credo che vi abbia scritto, vi saluta tanto, abbraccia sua zia.» Ed Emma: «Guido sta benissimo, è molto occupato, non potrà accompagnarmi ai bagni.» Così, reggeva, attaccata ad un sottil filo di seta, la felicità del signor Giorgianni.
Nel rivedersi, dopo quell’ultima e crudele giornata, marito e moglie furono molto turbati. Per venire in casa del marito, per vincere le sue esitanze, per assumere quel contegno gaio ed ironico, Emma aveva dovuto domare il suo orgoglio. Per mio padre, per mio padre! andava ella ripetendo per darsi coraggio, ma quello che l’aveva più sollevata fu la gentile freddezza di Guido. Il loro era stato un dialogo cortese, ossequioso, senza allusioni al passato od all’avvenire, salvo qualche frizzo leggiero: non ci erano stati tragicismi, recriminazioni; si erano comportati da persone savie, positive. E il domani?
Il domani sarebbe lo stesso: un po’ di finzione, un po’ di spirito, essere calmi, non tradirsi mai, celare l’inquietudine sotto il sorriso, dire una filza di bugie ufficiose, e riaccompagnato il papà alla stazione, farsi un grande saluto e dividersi: ognuno per la sua strada. Di conciliazione, nemmeno l’idea: Guido non avrebbe mai detto la prima parola, Emma non avrebbe mai perdonato.
Quindi ognuno, dal canto suo, aveva l’animo in pace.
III.
Avevano allora allora finito di pranzare, il signor Giorgianni sorrideva contento e beato, e i due attori si sforzavano di sorridere anch’essi. Ma tutto quello che era loro sembrato facile la sera innanzi, diventava difficilissimo al momento di eseguirlo. Dal mattino, dall’arrivo del padre che li aveva uniti in un abbraccio, erano costretti a darsi del tu, a chiamarsi per nome, ad usarsi quelle affettuose compitezze che sono di due sposi ancora innamorati: e per una parola, per una intonazione di voce, per un ricordo fuggevole del passato, Guido impallidiva, Emma arrossiva ed un imbarazzo visibile regnava fra loro.
Per quanto fossero disposti a tutto, per quanto avessero pensato agli equivoci che potevano sorgere, per quanto cercassero di dimenticare le loro personalità, pure la realtà sorgeva ad ogni istante e gettava lo scompiglio nel loro animo: era inutile, non potevano sopprimere la loro coscienza. Aggiungete il timore che per una lieve imprudenza andassero perduti tutti i loro lodevoli sforzi, e più lontano ancora l’idea vaga, ma persistente, che quella scena così rappresentata non dovesse creare fra loro qualche cosa di nuovo, d’inatteso.
Per le scale, mentre il Giorgianni saliva avanti, Emma rivolse un’occhiata desolata al marito, occhiata che significava:
— Come la dureremo sino a stasera?
E quegli di rimando uno sguardo espressivo:
— Aiutiamoci, chè il destino ci aiuterà.
E via di questo passo. Ma in casa i pericoli raddoppiavano. Il Giorgianni pareva ci si dilettasse a porre su discorsi pieni di rischi, a rivolgere domande ingenue che turbavano chi doveva rispondere; povero e buon padre che amava tanto i suoi figliuoli!
— Sì — riprese egli, dopo aver posata la sua tazza — sono lietissimo di questa mezza giornata trascorsa con voi. Vedi, Emma mia, le lettere sono una bella cosa per chi sta lontano, ma io preferisco le visite, anche di poche ore; almeno ci si vede! Tu, figliuola, stai bene; anzi sei diventata più bella, più elegante. Non è vero, Guido?
— È quello che le dico sempre — rispose Guido sorridendo.
— E lo scrive anche a me! Oh! per questo, figliuola, ti posso assicurare che Guido nelle sue lettere non sa far altro che parlarmi di te; si direbbe che lo hai stregato. Che marito modello!
— Infatti — approvò Emma a voce bassa.
Vi fu un momento di silenzio; dopo la risposta della moglie, Guido aveva chinato il capo e pareva contasse i fiorami della tovaglia. Ma per quel giorno il papà aveva la parlantina:
— La zia Elisabetta vi saluta tanto, tanto. È sempre un po’ brontolona, ma vi vuole un bene dell’anima. Eri tu, Emma, la sua favorita ed ora non fa altro che discorrere di te...
— Buona zia!
— Ottima. Sai che mi diceva poco tempo prima della mia partenza? «Sarei più contenta se la mia cara Emma avesse un grazioso figliuccio...».
Ma qui il Giorgianni, malgrado la sua bonomia, si accorse di aver commessa una imprudenza: vide che il viso di Emma si era tutto rannuovolato, vide che il genero si attorcigliava con mano nervosa i mustacchi.
— Anche la Rosalia, tua cugina — riprese allora per troncare quel discorso — anche la Rosalia sta benino. Ma quella lì ha avuto le sue sofferenze.
— Oh! e perchè? Non aveva sposato il suo Piero? — chiese la figliuola con un po’ di ironia.
— Sì, sì, lo aveva sposato, si amavano molto, Non so come, non so perchè, Piero ebbe un capriccio per una signora napoletana...
— Lo chiamate capriccio, papà?
— Sì, fu un capriccio fuggevole; non essere pessimista. Ma Rosalia n’ebbe un grande dispiacere; vennero pianti, scene...
— Bah!
— Come ti dico. Rosalia se ne fuggì da sua madre...
— Fece benissimo.
— Malissimo, dico io. Una moglie non abbandona mai il marito. Infine, io con la mia eloquenza, la persuasi a perdonargli, a dare un frego su quel debito...
— Voi, papà?
— Sì, e mi glorio del mio intervento. Perchè poi, ad essere intransigenti su queste cose, si finisce sempre per iscapitarci: l’uomo erra talvolta senza sua volontà...
— Comoda morale — ribattè con accento incisivo Emma.
— Era quella di tua madre, figlia mia.
— Come, anche la... mamma era di parere che si dovesse alzar la mano? — chiese Guido con molto interesse.
— Sicuro, sicuro. Quella donna lì era piena di misericordia e d’indulgenza: era buona, buona, buona. Chi ama bene, soleva dire, perdona molto.
Rimasero tutti pensierosi; e Giorgianni, per interrompere il silenzio, esclamò:
— Sicchè, figliuoli, me lo fate vedere questo appartamento, questo nido di seta e velluto? Non ho potuto darci che un’occhiata di sfuggita.
— Andiamo — rispose Guido — cominceremo dal salone.
— Magnifico, magnifico — disse Giorgianni, Quando vi furono arrivati. — Questo è buono per grandi ricevimenti. Date feste?
— Ne davamo.
— Capisco; ora gli affari, la politica v’impediscono di veder troppa gente, ma il salone è bellissimo. E questo salotto, che gusto squisito! Sei stata tu, Emma, a scegliere?
— No, è stato Guido.
— Mi congratulo con lui. Già avrà pensato che in questo salotto tu ti saresti trattenuta di preferenza; qui vengono i tuoi adoratori a farti la corte, nevvero, bricconcella? Non sei geloso, Guido?
— Io? conosco mia moglie.
— E tu, Emma?
— Conosco troppo Guido.
Le due risposte erano scattate rapidissime. Giorgianni ne fu soddisfatto.
— Questa camera da letto è una meraviglia — egli riprese — i colori formano una dolce armonia. Tutto questo bianco e grigio carezza l’occhio.
Egli girava per la camera, come se ricercasse qualche oggetto mancante. Infine chiamò la figlia che era rimasta sulla soglia.
— Emma?
— Papà?
— Dove sta il ritratto della mamma? Non lo veggo.
Essa restò tutta confusa, senza saper rispondere.
— Fummo in Brianza — disse Guido — e di là non sono giunte ancora tutte le nostre robe.
— Quel ritratto avrebbe dovuto giungere prima di tutto. Non importa; Emma non può aver dimenticata sua madre. Che donna, che donna, Guido mio! Peccato che tu non l’abbia conosciuta! Quando essa se ne volle andare, poveretta, si fece promettere che tutto avrei sacrificato per la felicità di Emma; e così anche lei ha contribuito al vostro matrimonio. Quando Emma venne a dirmi: «Papà, senza Guido io sarò sempre infelice», pensai alla mia cara morta e mi decisi. Voi eravate fatti l’uno per l’altro: vi amavate da un anno, Emma mi diventava pallida e triste, tu, Guido, davi nel farnetico: gioventù, gioventù! Ti ricordi, figliuola, di quel ballo dal console inglese, dove andasti con Guido?
— Mi ricordo — rispose essa macchinalmente.
— Ai vostri volti sereni e felici, agli sguardi che vi davate, tutti compresero che eravate fidanzati: e mi chiamavano padre fortunato! Sì, molto fortunato, aggiungo io: voi vi amavate fin troppo.
— Mai troppo — disse Guido.
— È vero. Auguriamoci sia sempre così, nevvero, Emma?
— Auguriamcelo, papà.
— E questa camera chiusa, che cosa è?
Era la stanza di Guido; a sua volta egli si trovò impacciato, ed Emma salvò la posizione.
— È la camera degli ospiti, papà.
— Ah! bravo, bravo. Cioè quella che avrei occupata io, se avessi potuto rimanere una notte con voi. È una disgrazia, ma debbo ripartire.
— È una vera disgrazia — aggiunse il genero.
— Non importa: consoliamoci nel vederla, invece di abitarla.
— Ma...
— Capisco, sarà disordinata, fa nulla.
Guido aprì coraggiosamente; non si poteva più esitare.
— Non c’è male, non c’è male; è anche questa carina, come tutto il resto, Oh! guarda, guarda! Chi ha messo qui il ritratto della mia figlietta? Certo sarà stato un gentile pensiero di Guido; grazie, caro mio. Ma io non posso rimanere; quanto me ne dispiace!
Sedettero in salotto. Marito e moglie erano molto distratti, e se il signor Giorgianni avesse avuto un po’ di naso fino, avrebbe fiutato che qualche cosa di anormale era fra loro. Ma per fortuna il buon papà non era molto furbo.
— Peccato! — egli disse — peccato per tutta questa bella casa!
— Perchè, peccato?
— Gli è che fra poco dovete lasciarla. Se ti eleggono deputato, come ne sei quasi sicuro, ti converrà stare a Roma almeno per sei mesi dell’anno, e non credo che vorrai abbandonare Emma sola a Milano. Dovrete avere due case; sarà un grave impaccio; pure vi è una cosa che mi solleva molto. Se venite a Roma, io potrò capitare da voi almeno una volta al mese: da Napoli a Roma il viaggio è breve e comodo, mentre da Napoli a Milano ce ne vuole, che ce ne vuole! Allora ci rivedremmo spesso!
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IV.
Quando i due eroi risalirono in carrozza, dopo aver accompagnato il papà alla stazione, quando si trovarono soli, dettero in un grande sospiro di sollievo. La era finita finalmente; la vita loro avrebbe ripreso il suo corso regolare. Non si parlavano; Emma guardava le goccioline della pioggia che battevano sui vetri del coupé; Guido non dava segno di vita; erano ridiventati estranei.
Ad un punto, Guido, movendosi, urtò il braccio della moglie:
— Scusate — fece lui.
— È nulla.
Estranei, è vero. Pure ambidue in quel silenzio riandavano sui fatti della giornata; ne ricordavano le più minute impressioni, le sentivano di nuovo.
— Si volta per casa vostra? — domandò Guido, ad un certo punto della strada.
— No, vengo da voi: debbo riordinare le mie cose, perchè la mia cameriera non saprà mai farlo. Andrò via più tardi.
— Benissimo.
A casa, essa entrò direttamente nella camera da letto; Guido si gettò sopra una poltrona del salotto e finse di leggere un giornale. In verità la sentiva andare e venire a passi lenti, la vide anche passare due o tre volte:
— Vi stancate? — le chiese. — Potrei aiutarvi.
— No, grazie; a momenti finisco.
Infatti, poco dopo venne anche essa a sedersi con un’aria molto stanca; quella giornata l’aveva esaurita. Si guardava dattorno come per ritrovare qualche cosa dimenticata.
— Piove meno, mi pare? — disse a Guido che aveva lasciato andare il giornale.
— Piove sempre.
— La carrozza non è ancora pronta?
— Non so, vado a vedere.
La carrozza sarebbe pronta fra dieci minuti.
— Desiderate che vi accompagni?
— Non importa, grazie.
Parvero un secolo od un istante quei dieci minuti? L’uno e l’altro forse.
Quando entrò il servo a dire che tutto era all’ordine, Emma si alzò con un fare deliberato e andò a mettersi il cappello davanti allo specchio; ci volle un po’ di tempo ad annodarne i nastri perchè le dita avevano un lieve tremito. Poi, lentamente, infilò i guanti, li appuntò, aggiustò alcune pieghe dell’abito; e si avanzò verso Guido per salutarlo. Egli si era levato, pallidissimo.
— Addio — disse ella.
Guido non rispose; essa voltò le spalle e traversò il salotto, diritta, fiera, senza barcollare, con un passo fermo ed uguale; pure sentiva benissimo che il marito la seguiva. Presso la porta, alzò la mano per sollevare la portiera ed incontrò quella più pronta del marito.
— Tu dimentichi di perdonarmi, Emma — disse egli con voce in cui combattevano il dolore e la passione.
Essa si rivolse d’un tratto e gli gittò le braccia al collo, soffocata da quell’amore che rinasceva fra loro gigante.
— Non te ne vai più, mai più, cara?
— No, no; manda a prendere il ritratto della mamma, Guido.