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CAPITOLO X.
Gli affari del barone.
I Di Santa Giulia erano a Roma da due giorni, e il barone non aveva ancor detto una parola a sua moglie. Tenevano due camere e un salotto all’Hôtel Bristol, avendo lasciato un mese prima, per andare nel Veneto, il loro solito quartiere di via Quattro Fontane. Il senatore aveva scelto l’Hôtel Bristol, in piazza Barberini, per non dilungarsi troppo dal vecchio alloggio; benchè di luglio, a certe ore del giorno, piazza Barberini bruci. È vero che il senatore ne soffriva poco. Si alzava dopo le due, usciva e non rientrava che all’alba. Elena non lo vedeva neppure. Il primo giorno la cameriera dell’albergo le aveva detto che il signor barone era uscito e avrebbe pranzato fuori. Il secondo giorno si trovò in salotto quando suo marito passò accigliato e duro.
Nè lui nè altri le disse niente; lo udì tornare alle quattro del mattino. Era una cosa naturale, ora.
Meglio così per Elena; meglio non vederlo, meglio sapere ch’era fuori; poco le importava il dove, se al Senato, se al club o in qualche casa equivoca dove si giuocasse più forte e più secretamente che al club. Le avevan susurrato, tempo addietro, di un luogo simile nei pressi di piazza Barberini. Era forse là che suo marito passava le notti. Le era venuto questo pensiero la prima notte udendolo camminare nel salotto. Non che ne fosse turbata; vi era indifferente.
Neppure di Cefalù si turbava; attendeva con apatia il mare e la solitudine. Forse potevano diventarle amici; ma si curava poco anche di questo.
Era dai primi giorni del suo matrimonio ch’ella non provava uno scoramento così profondo. Il suo virtuoso sacrificio, il suo proposito, fermato e in parte eseguito, di togliersi, per quanto era in lei, dal cuore e dal cammino di Cortis, non le recava neppure quella sicura coscienza dell’opera buona che esalta lo spirito. Sentiva invece acutamente il male che doveva aver fatto a Cortis con il suo freddo biglietto; si odiava, certi momenti, per essere stata troppo più dura che non convenisse, per non avergli neppur fatto cenno della lettera ricevutane da Lugano. E subito dopo si rimproverava queste ribellioni del cuore, queste debolezze della volontà.
Appena arrivata a Roma scrisse un biglietto sufficientemente affettuoso alla mamma. Alla lettera dello zio Lao rispose il giorno dopo, ringraziando e non accettando il danaro offerto. Scherzò sulla predica che il burbero signor zio le aveva fatta a suon di polka per questo benedetto danaro, scherzò sulla prodigalità del predicatore. Parlò poi del caldo di Roma dove non c’era più nessuno, disse che sospirava il mare e che avrebbe preferita la Sicilia ai soliti bagni noiosi del continente. Chiuse la lettera annunciando che stava per andare ai Cappuccini a prendere un po’ di fresco e a pregare per gli zii reumatizzati.
Si stupiva amaramente, scrivendo, si sentiva umiliata di saper recitare così bene la commedia. Tutto oramai le compariva commedia nella vita, tutto le compariva falso, facce, parole ed opere umane. E il sì dell’altare, non poteva considerarsi un «sì» da commedia?
A quest’idea il suo sangue insorgeva. Mai mai! Nessun sentimento, neppure il religioso, parlava così forte in lei come la fiera lealtà. Non credeva, del resto, nella propria religione; sua madre era sempre andata troppo a messa, e suo zio troppo poco. Aveva solo una triste fede austera in Dio, una fede che s’interdiceva, come impuro e indegno, ogni desiderio di premio, di felicità personale, sia nella presente vita che nella ventura. E talora questa stessa ultima luce pareva mancarle. Anche lì ai Cappuccini, quando avrebbe voluto pregar con fervore, chiedere aiuto a Dio contro sè stessa, le tornava viva nel cuore una sinistra impressione riportata in quella chiesa, anni addietro. Un laico le aveva fatto vedere le orribili cappelle mortuarie senza troppo commuoverla; poi, in chiesa le aveva detto placidamente, con la sua faccia marmorea: «Sotto questa pietra è sepolto il cardinale Barberini, fondatore del tempio. Qui signora; veda la iscrizione: — hic jacet pulvis, cinis et nihil — che vuol dire — polvere, cenere e niente.
Pulvis, cinis et nihil. Elena aveva guardato con stupore e paura le parole incise sulla lapide sepolcrale, come se venissero su dal mondo dei morti, a dire il triste mistero dell’essere umano, pulvis et nihil, a negare lo spirito; e l’uomo dalla faccia marmorea le era apparso il sacerdote di una tragica religione della morte e del niente. A Roma ella era spesso assalita da questi miasmi di scetticismo desolato; li sentiva nelle sparse rovine di una fede morta, nel fasto invecchiato di un’altra fede inferma, nella campagna che le cinge entrambe di silenzio e di solitudine.
La seconda sera dopo il suo arrivo andò in carrozza da Loescher a pigliare le Mémoires d’outre tombe, e vi fu veduta dal senatore Clenezzi di Bergamo, un vivace vecchietto che l’avrebbe adorata ginocchioni per la sua bellezza, per il suo ingegno e perchè non gl’infliggeva mai, rara avis, nè biglietti di concerti, nè associazioni a opere di autori deputati. Non sapeva che Elena fosse a Roma. Le baciò la mano con una commozione insolita e non rifiniva di dire «cara donna Elena, cara donna Elena!» tanto che il commesso di Loescher, ritto lì con il Châteaubriand in mano, sorrideva. Elena gli disse, tornando alla sua carrozza, che credeva fermarsi ancora qualche giorno prima di andare ai bagni e che sperava rivederlo.
«Alle Quattro Fontane?» domandò il senatore.
«No, al Bristol.
«A che ora non si trova suo marito?
Elena si mise a ridere.
«Io non lo vedo mai» diss’ella. «Venga quando vuole. Perchè ha paura di trovar mio marito? Si sono bisticciati?
«Non è questo» rispose il vecchietto.
«Allora?
Quegli l’aiutò a salire in carrozza.
«Son proprio così vecchio?» diss’egli. «Lei mi dà una coltellata, ma vengo egualmente, sa.
«Va bene» rispose Elena sorridendo. «Venga, e se c’è ancora qui qualcuno dei nostri amici, me lo porti. Sono sempre sola; venga presto se vuol trovarmi.
«Madonna, non sa niente!» disse fra sè il Clenezzi rientrando da Loescher mentre la carrozza scendeva verso piazza Colonna.
Si recò l’indomani all’Hôtel Bristol. Elena gli fece un’accoglienza quasi rumorosa, gli parlò di questo e di quello con una gaiezza febbrile che lo imbarazzò non poco. Le rispondeva a monosillabi, si contorceva sulla sedia, aveva l’aria di starci male e di non potersene alzare, tanto che Elena gli disse: Cos’ha, Clenezzi? Pare une âme en peine. Dica su. Lei ha da fare un discorso in Senato; no?
«Madonna!» esclamò il senatore spaventato. «No, no, in Senato no.
Elena pensò un momento.
«Ah» diss’ella, abbassando la voce al tono di una gelida indifferenza, «è a me che vuol parlare. Qualche cosa in cui c’entra mio marito?
L’imbarazzo di colui gli cadde a un tratto, scoperse uno sguardo angoscioso, una faccia trepida.
«Dunque lo sa?» diss’egli.
Elena crollò il capo, alzando le spalle e le sopracciglia, rispose con voce appena intelligibile:
«Non so niente.
Clenezzi, stupefatto, restò lì a bocca aperta, non sapendo se proseguire o fermarsi. Elena mosse le labbra a un altro sussurro:
«Dica.
Parve al senatore ch’ella fosse indifferente. Protestò, rosso rosso, che non aveva nessuna voglia di entrare in certi discorsi, che solo un sentimento di devozione ve l’avrebbe potuto indurre, ma che se a donna Elena non gliene importava nulla, lui non voleva...
«Clenezzi!» diss’ella interrompendolo con accento di dolente rimprovero; e gli stese la mano.
Queste bizze del suo vecchio amico le erano familiari; egli aveva, a sessant’anni, il fuoco d’un ragazzo di venti.
«Mi scusi» rispose questi, baciando con certa ingordigia la bianca mano affilata. «Ho torto. Son di Bergamo, son nato sul Brembo, son furioso.
«No, no» interruppe Elena, «ma senta. Se avessi figli! Però mi dica. Tutto quello che posso per mio marito, lo devo fare e lo farò.
Allora il senatore le domandò se non avesse mai sospettato di qualche disordine negli affari di suo marito. Sì, ell’avrebbe potuto sospettarne da molto tempo se si fosse curata di certi ceffi che venivano a cercar di suo marito, di certe lettere che lo irritavano, del tempestare che faceva per ogni piccola spesa domestica. Sapeva pure che giuocava, n’era stata informata prima da lettere anonime pervenute a lei e a suo zio; poi un’amica zelante gliel’aveva sussurrato a Roma. Nel maggio, prima di andare a Passo di Rovese, suo marito l’aveva richiesta d’interporsi presso i Carrè per fargli avere una certa somma.
Elena si fermò a questo punto. A Clenezzi pareva impossibile che il barone non avesse lasciato trapelar niente a sua moglie delle minacce che gli pendevano sul capo. Era proprio così. Donna Elena non ne sapeva niente e le tornava in viso la gelida indifferenza di prima. L’altro incominciò allora bruscamente a dire che poteva trattarsi dell’onore e della libertà.
Elena si scosse.
«Non credo!» diss’ella.
Sapeva di avere un marito rude, violento, vizioso. Non lo credeva capace di un delitto ignobile.
«Ah, donna Elena!» esclamò Clenezzi con uno sguardo che diceva cento cose. E raccontò che, due mesi addietro, l’avvocato Boglietti, mandatario di un istituto siciliano di credito, era venuto alla presidenza del Senato portando una gravissima accusa contro il senatore Di Santa Giulia. Quell’istituto aveva incaricato lui, suo consigliere d’amministrazione, di esigere un capitale dovuto da una casa bancaria di Roma e di depositarlo presso il Ministero delle finanze per certa cauzione. Di Santa Giulia aveva eseguito la prima parte dell’incarico, non la seconda. Il Consiglio d’Amministrazione, scoperta la cosa, aveva immediatamente chiesto spiegazioni al suo incaricato. Qui c’era un punto buio. Pareva che Di Santa Giulia avesse addotto un pretesto qualsiasi e persuaso con larghe promesse il Consiglio, dove sedevano alcuni suoi aderenti, a non procedere oltre. Ma la cosa si era risaputa fuori e il Consiglio aveva pur dovuto agli ultimi di maggio eccitare Di Santa Giulia alla restituzione del danaro e al risarcimento dei danni entro il 18 giugno, con la minaccia di un procedimento penale per appropriazione indebita. Il barone aveva chiesto allora una rateazione del pagamento, proponendo di sborsare metà della somma il 30 settembre di quest’anno e l’altra metà il 31 marzo 1882. Egli confidava che i suoi amici del Consiglio gli farebbero approvare una convenzione su tale base. Invece l’avvocato Boglietti aveva ricevuto l’incarico di tentare per l’ultima volta una soluzione pacifica, chiedendo l’immediato pagamento di un terzo della somma e consentendo che il rimanente debito fosse saldato in due volte, giusta la proposta del barone. In mancanza del pagamento c’era l’ordine di denunciare il senatore Di Santa Giulia all’autorità giudiziaria. L’avvocato aveva creduto bene di rivolgersi tosto alla presidenza del Senato, informandola di ogni cosa, onde trovasse modo di evitare un così grande scandalo e di costringere il barone all’adempimento del proprio dovere. Allora la presidenza aveva telegrafato, il 29 giugno, a Passo di Rovese, richiamando a Roma il senatore Di Santa Giulia. Il primo luglio, alle quattro pom., poche ore prima che Elena e Clenezzi s’incontrassero da Loescher, un membro dell’ufficio di presidenza s’era fatto promettere dal barone che addiverrebbe al chiesto pagamento prima del 7, o rassegnerebbe le dimissioni da senatore del Regno.
Ora non c’era nessuna probabilità che Di Santa Giulia potesse trovare il danaro necessario. Lo si diceva invescato nei debiti fino ai capelli. Gli verrebbe in aiuto la famiglia di sua moglie?
«In questi casi» s’affrettò a conchiudere Clenezzi «non ci sono che i parenti.
«Credo» incominciò Elena «che la roba mia sia sfumata; e pensa lei che la mia famiglia non abbia mai fatto niente?
«Capisco; ma...
Elena pensò un poco.
«La somma?» diss’ella.
«Dalle dodici alle quindicimila lire. Se si trovano, suo marito non deve manco vederle. Bisogna consegnarle all’avvocato Boglietti, prima di giovedì.
«Ah, caro Clenezzi» sospirò Elena «se il danaro potesse tutto! Basta, poniamo che si trovi; io lo faccio avere a lei? Dopo ci pensa lei? Se occorresse ritirarlo dalla Banca Nazionale, me lo fa lei questo piacere?
Il senatore, che per donna Elena, e pur di non metter fuori quattrini, sarebbe andato nel fuoco, si pose con devozione commossa, agli ordini suoi. Guardò l’orologio. Quel giorno si doveva presentare al Senato il progetto di riforma elettorale, e forse si sarebbe discusso sulla composizione dell’ufficio centrale. Gli premeva trovarsi per tempo in Senato.
«Speriamo» diss’egli alzandosi.
«Cosa?»» rispose Elena con un sorriso così amaro, con uno sguardo così triste che al povero senatore vennero quasi le lagrime.
«Che la mi scusi tanto!» esclamò. «Io sono un povero vecchio, io sono un povero fatuo, ma se lei fosse la mia ragazza, Madonna Signore! La porto su al mio paese com’è vero Dio, e quel muso che venisse a prenderla, in Brembo a pedate!
«No, no» diss’ella, bruscamente, quasi offesa. «Lei non mi conosce.
«E me?» ribattè il senatore. «Mi conosce? Vorrei vedere.
Parve ch’Elena avesse paura di discutere questo punto perchè s’affrettò a replicare:
«No, no, vada al Senato, vada al Senato» e toccò il bottone del campanello.
Rimase sola, ritta, in mezzo alla camera, fissando con il suo solito sguardo vitreo la piazza, il Tritone della fontana. Un cameriere aperse l’uscio e disse: «desidera?» Ma ella non rispose. Colui ripetè: «la signora baronessa desidera?
«Ah!» fece Elena, lo guardò senza raccapezzarsi, e soggiunse:
«Niente.
Appena il cameriere si fu ritirato, ella si ricordò d’averlo fatto venire e perchè, corse all’uscio, gli gittò dietro due parole « una carrozza » e tornò lentamente a contemplar la Fontana. Era dentro a lei una confusione di pensieri, un viavai d’immaginazioni commiste a un sentimento nuovo, il ribrezzo del marito, lordo di danaro altrui. E poi pareva che tutto questo tumulto si chetasse; come se le si fosse aperta in fondo allo spirito una invisibile uscita. Restava un vuoto, un buio; e come gli occhi guardavano inconsciamente la fontana, così tornavano inconsciamente alla bocca poche parole lette mezz’ora prima nelle Mémoires d’outre tombe, le parole della povera De Beaumont a Tivoli: «Il faut laisser tomber les flots.»
Ma questo mortale silenzio interiore non poteva durare in Elena. Appena il cameriere tornò ad avvertirla che la carrozza era pronta, si scosse, non pensò più se non a fare quel che doveva. Si fece portare in fretta al telegrafo e vi scrisse un telegramma per lo zio Lao, accettando il danaro prima rifiutato, sollecitandone l’invio e promettendo spiegazioni per lettera. Nel tornarsene all’albergo, amaramente contenta di sè, pensava ai turbati commenti che del suo telegramma si farebbero a villa Carrè, alle collere dello zio, ai lamenti della mamma. Le vennero in mente, chi sa perchè, anche le povere rose che guardavano nella sua cameretta deserta. Dalla mamma aveva ricevuto, la mattina del giorno avanti, una lettera piena d’affetto, di paure, di rimproveri. Cosa penserebbe adesso? Sull’angolo dei Due Macelli e del Tritone credette veder suo marito prendere frettoloso una viuzza a sinistra. Una breve vampa di collera le salì al viso. Sarà stata lì vicino questa casa di giuoco? Ella fu per scendere e raggiungerlo. Prevalse il disprezzo; lo lasciò andare. Rozzo, violento, vizioso, lo conosceva da un pezzo; ma gli aveva sempre attribuito una certa grossolana onestà, una brutale franchezza da barbaro; anche del cuore. Ora no; ora quel danaro altrui glielo rendeva immondo. Lo lasciò andare.
All’albergo trovò la lettera di Cortis. Lasciando a passo di Rovese quell’altro biglietto per lui, il suo proposito era stato d’irritarlo, di far sì che non le avesse a scrivere almeno per un gran pezzo. Nella lontananza, nel silenzio c’era da sperare; non per sè ma per lui. Trasalì, vedendosi fallito il disegno, di una gioia invincibile; e non sapeva ella stessa nell’aprir la lettera se avesse paura o desiderio di parole appassionate. La divorò prima da capo a fondo correndo via sulle poche espressioni d’affetto come se bruciassero; specialmente su queste: «non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver detto a questa rosa moribonda, la quale non le riporterà.» Pensò che Cortis non avrebbe dovuto scrivere così; e, giunta alla fine, tornò di slancio alla prima pagina dov’egli parlava di sua madre, rilesse quelle poche righe sconsolate, ne ebbe un dolor profondo. Non sentiva più, in quel momento, i dolori proprii, nè la dolcezza di sapersi amata. Era tutta nel cuore di lui, soffriva con esso, sentiva quel disinganno, quella solitudine amara, la sentiva tanto che n’ebbe paura ella stessa; le parve di non appartenersi più, di essere diventata una parte di lui. E l’elezione? Daniele ne parlava scherzando, ma c’era lì e in altri luoghi della lettera una gaiezza nervosa che tradiva il turbamento dell’animo. Un impeto di sdegno, contro quegli stupidi elettori fe’ tremar le mani e le labbra mute d’Elena. Prima un impeto di sdegno, poi un impeto d’orgoglio; l’uomo ch’ella amava non poteva piacere alla folla. Però non le veniva neppur l’ombra d’un dubbio sull’avvenire. L’avvenire di Cortis non era certo in poche mani d’idioti. E questo c’era di buono e di confortante nella lettera, che vi si sentiva un’energia morale più forte dell’amore, un animo grande che poteva soffrire per l’abbandono di una donna, ma non accasciarsi, non declinare nella sua via. Così, così Elena lo amava! Quanto a sè, qualunque dolore, qualunque sorte le toccasse, non ne doveva importar niente a lei stessa, nè al mondo, nè a Dio.
Una fugace visione la smentì, le mostrò il laghetto cheto di Villa Cortis e, seduto sulla riva, Daniele. Ella gli sedeva a fianco, fuggita da Roma, da un marito indegno; le ombre dei giardini, il lago e i loro cuori erano una pace sola fin dentro alle più nascoste profondità. Cacciò con un subito aggrottar del ciglio la immagine. Non sarebbe mai! Cortis non doveva amar lei. Ella non poteva offrirgli, sacrificando sè, che un febbrile presente e un avvenire sinistro; anche solo lasciandosi amare idealmente, gli contristava la vita. Egli era solo al mondo e lo aspettavano, sulla via prescelta, fatiche, angoscie, ferite; come non avrebbe una famiglia per suo riposo e conforto? Bisognava farsi dimenticare. Pensò al piccolo prato presso gli abeti, dove era sceso Cortis, pensò al colchino d’autunno, al vago fiore dal succo mortale che aveva voluto ostinatamente per sè; sorrise e pianse.
Suo marito non ricomparve in tutto il giorno. Elena avrebbe dovuto andare in via Urbana da certi amici che le facevano il favore di custodire i suoi argenti di casa, ma non si sentì in grado di veder gente, di mettersi una maschera gaia. Lesse e rilesse, nelle Mémoires, tutti quei passi di cui le aveva parlato Cortis, ma sopratutto le lettere di madama di Caud; tornava ogni tanto a quelle parole sull’urtar di passaggio, senza volerlo, nel destino di un altro. Non pranzò. Alla sera, dolendole, per il continuo leggere, il capo e gli occhi, sentendosi morire nell’afa delle sue camere, si fece portare, in carrozza, fuori di porta Pia. L’ultimo tramonto colorava di viola i monti della Sabina, l’aria era fresca, Elena non fece che piangere; ma l’ora mesta, la solitudine, e, laggiù, verso ponte Nomentano le rovine sparse per la campagna avevano voci di consenso con lei, le rendevano il pianto meno amaro. Nello scendere a ponte Nomentano il cocchiere mise i cavalli al passo. Una vecchia domandò l’elemosina alla bella signora, l’ebbe, e vedendole gli occhi lagrimosi, le disse:
«Fija mia, Dio te ne darà pace.
Nello stesso momento Elena si sentì correre un brivido nella persona, pensò alle febbri, a una pace possibile e desiderabile, alle parole marmoree dei Cappuccini: «pulvis, cinis et nihil.» Tornando verso Roma si vedeva davanti, un po’ a destra, la luna falcata cader sui cipressi di villa Albani, sentiva tratto tratto, lungo i giardini, un odore acuto di magnolie. Vicino a porta Pia incontrò un cavaliere e un’amazzone, giovani, belli sui loro cavalli focosi. A lei le voci della sera parlavano di tristezza, ma quanto dolcemente non dovevano parlare agli altri d’amore!
Alle dieci della sera le giunse un telegramma dallo zio Lao che incominciava promettendo il danaro fra tre giorni per mezzo della Banca Nazionale, e seguiva: «Nelle elezioni d’oggi Cortis ebbe voti 342, X 339. Eletto Cortis.»
Elena si sentì un lampo di piacere nel cuore, una vampa nel viso e nel cervello. Si portò la palme alla fronte, bruciava; alle tempia, battevano.
Eletto Cortis! Egli aveva vinto, aveva superato il primo gran passo, doveva esser felice. Sarebbe venuto a Roma, vi avrebbe dimorato lunghi mesi, mentre vi poteva essere anche lei. No, no, gran Dio, via questo pensiero! Lei andava a Cefalù per restarvi sempre, per non rivederlo nemmanco, non esserne riveduta, sopratutto, e tradirsi. Oh Signore, e non mandargli neppur una parola! Cosa penserebbe mai di un silenzio simile? Certo che ne indovinerebbe la causa vera; non sarebbe peggio? Ci voleva una riga, una parola; e allora bisognava rispondere alle sue molto freddamente, molto duramente, per allontanarlo! Si pose a scrivere questa risposta dura e fredda colla febbre nel corpo e nell’anima.
Roma, 2 luglio 1881.
- Caro cugino,
Mi annunciano la tua elezione. Sono sinceramente lieta di vederti sulla via maestra per un cammino che desidero onorevole e felice.
Ebbi pure la tua lettera, e quello che scrivi di Lugano mi fece gran pena. Affretto con i miei voti il momento...
(Qui due lagrime le caddero sul foglio, ma ella tirò avanti a scrivere stringendo le labbra convulse):
... in cui una donna pura e fedele ti consolerà, scalderà il tuo focolare deserto.
Io penso e ho sempre pensato a te con amicizia, ma non vi può essere nel mio cuore e non posso ammettere in te un sentimento diverso. Sono quindi costretta a dirti che alcune frasi del tuo biglietto da Lugano e della lettera d’oggi mi spiacciono, mi offendono. Spero non sarà molto difficile mutare d’animo e di linguaggio; altrimenti preferirei non avermi a trovar teco.»
Elena cessò di scrivere. Era stato troppo grande lo sforzo di cercar queste parole dure; la fantasia, stimolata dalla passione e dalla febbre, gliene diceva di troppo diverse. Non sapeva come continuare. E mentre cercava una via cogli occhi fermi sul foglio bianco, mentre passava di pensiero in pensiero, la sua mano inconscia scrisse lentamente «d’inverno, d’estate, da presso e...»
Si scosse, vide, e lacerò il foglio. Soffriva, era mortalmente stanca, ma il pensiero di trovarsi ancora lì, all’indomani, quella lettera sul tavolino, le metteva paura. Prese un altro foglio e ricopiò il primo fino alla parola teco.
«Mi permetterai» continuò «di essere assai breve. Trattenendomi a Roma pochi giorni debbo camminar molto e alla sera mi trovo stanchissima. Ti prego di dire alla mamma e allo zio che sto benissimo e mi diverto. Roma mi affascina sempre!
Addio e mille felicitazioni ancora dalla
tua aff.ma cugina |
Chiuse la lettera e la mandò subito alla posta. Appena partito il cameriere sentì rimorso di non avere nemmeno scritto a Cortis che le rincresceva dargli quest’afflizione; ma poi disse a sè stessa ch’egli, con il suo carattere, si sarebbe irritato e non afflitto di quella lettera. Meglio così! perchè certo l’amore di Cortis non somigliava alla inestinguibile passione sua. Egli ora andrebbe in collera, non le scriverebbe più; era facile, durante quel silenzio sdegnoso, uscirgli a poco a poco dal cuore. Ma, e se venisse a Roma subito? Se lo dovesse vedere?
Elena passò la notte in una veglia affannosa, tribolata da continui fantasmi. Si addormentò all’alba e si vide, in sogno, sulla riva del laghetto di Villascura, sola con un volume di Shakespeare fra le mani, fissi gli occhi nell’acqua immobile, fisse nel cuore le parole malinconiche di Porzia nel Mercante di Venezia: «Il mio piccolo corpo è stanco di questo gran mondo.»
Alle sei si bussò forte al suo uscio, e perchè ella non rispose subito, qualcuno aperse e a scosse, a urti, a colpi, entrò in camera tempestando:
«Santo diavolo, è Gaeta qui?
Elena alzò il capo dal guanciale, vide suo marito che spalancava a furia le finestre.
«Che fornace!» sbuffò lui, accostandosi al letto. «Come va?
Elena gli rispose sdegnosamente. Era un bel modo di entrare quello? Il barone aveva il pelo arruffato, la cravatta in disordine, gli occhi lucenti. V’era in quel suo mugghiare una bonarietà di bestione allegro.
«Sei in collera?» diss’egli. «Son tre giorni che non ci vediamo.» E allungò una mano sul letto, le prese un piede.
Elena trasalì, ritirò il piede.
«Lasciami stare» diss’ella.
«Bel modo anche questo!» esclamò il barone. «Caro marito, si dice, come stai bono d’essermi venuto a trovare dopo quel tiro che t’ho giuocato!
Elena non degnò rispondere.
Colui trascinò una poltrona accanto al letto, vi si sdraiò a gambe aperte, sbadigliando.
«Sto bono» diss’egli. «Quanto sto bono!
«Perchè ho questa voce» soggiunse, «perchè ho questa facciaccia di diavolo cefalutano, perchè ci ho addosso il fuoco dell’isola, voialtri pupi del settentrione mi avete per un Sata-liviti, per un Dionigi, che so! Guarda, tu che sei l’angelo del paradiso, che non si è degni di toccarti un dito, tu mi hai ingannato, tu ti sei provata di togliermi la vita, pupattola mia!
«La vita?» interruppe Elena.
«La vita, la vita! Quelle quindici mila lire erano l’onore per me e ti prego di credere che quantunque io sia uno scelleratissimo tiranno, se avessi a perdere l’onore gliela getterei dietro sul momento, la vita! Là! tu hai fatto il possibile perchè io non avessi il danaro, capisci? Ho dovuto dare tre notti al diavolo per averlo. E ora sto qui bono come un agnello.
Si alzò in piedi, le si accostò con un sorriso:
«E ti voglio bene, cuoruccio mio.
Ella lo respinse con un gesto.
«Hai paura di Cefalù? Allora non ci si va. A quegli altri no, ma a te ti perdono. Chi sa dove si va. Affogo nel danaro, capisci! Ma bisogna voler bene a suo marito, signorina mia.
Una goccia di vino non l’aveva presa; ma la fortuna del giuoco, le lunghe veglie e, per così dire, l’amore gli mettevano un chiarore d’ebbrezza negli occhi.
«Hai giuocato?» disse Elena.
«Tre notti. Ho guadagnato ventiseimila e cinquecento lire. Andrei volentieri ad Aix adesso che sono in vena.
«No, no. E l’avvocato Boglietti? Non ci vai subito?
«Accidenti a lui!» imprecò il barone. «Cosa ne sai tu? È stato qui quel birbante? Mascalzone! Sì che ci andrò e lo pagherò e gli darò anche la rata di settembre, e non so se ci si divertirà molto. Ah è stato qui il cane? Gli rompo il ceffo, stavolta!
«No» disse Elena «non ci è stato.
«Oh allora, come lo sai?
«Non importa.
«E io non te lo domanderò. Mi sento di latte e miele stamattina. Di’ la verità, io sono un buon diavolaccio, un nuvolone che tuona e non dà mai grandine. Mi piace un poco di giuocare; niente altro. Non ti posso dire i buoni pensieri che mi vengono; sarei persin capace, forse, di salutar tua madre e tuo zio se m’incontrassi con loro. Bisogna volermi bene, bella mia.
Si chinò rapido su lei per un bacio, ch’ella ebbe, voltandosi, sui capelli.
«Va via» disse, «chiudi le imposte, lasciami quieta!
«Cosa c’è?» fremette suo marito impaziente.
«Ho la febbre.
Egli credette che mentisse, ebbe un lampo d’ira negli occhi e le afferrò il polso.
Si venne mutando in viso, e finì con gittar sul letto quella bianca mano inerte, dicendo:
«Lo fai per dispetto? Oggi avevo anche invitato gente a pranzo.
«Va bene. È febbre romana. Stasera non l’avrò.
«Febbre romana?» esclamò il barone aggrottando le sopracciglia. «Faccio venire un medico.
«Non occorre. So io cosa ci vuole subito subito.
«Cosa?
Elena girò il viso verso di lui.
«Sicilia» diss’ella.