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CAPITOLO XI.
Tra Cefalù e Roma.
- Alla baronessa
Elena di Santa Giulia, a Cefalù.
Roma, 19 gennaio 1882.
- Elena,
Una sola parola.
Tu sei andata in Sicilia, lo scorso luglio, con le febbri, e non hai mai scritto niente a tua madre, che lo ha saputo per caso, pochi giorni sono, dal senatore Clenezzi. Hai fatto credere che saresti ritornata nel Veneto ai primi d’ottobre, e poi hai trovato un pretesto per differire sino agli ultimi. Agli ultimi d’ottobre hai scritto che l’apertura del parlamento era vicina e che non ti pareva opportuno di fare un viaggio così lungo per tornare subito sui tuoi passi fino a Roma. Il parlamento fu aperto; tu hai desiderato vedere un po’ dell’inverno siciliano, venire a Roma dopo le vacanze di Natale. Ora tuo marito è qui solo. Egli nemmeno risponde alle lettere di casa Carrè; notizie sicure e precise da lui non si possono avere. La zia Tarquinia partirebbe per la Sicilia se lo potesse. Disgraziatamente Lao è a letto, come sai con l’artrite, ed ella non può muoversi senza assoluta necessità. Per conchiudere, la zia mi scrive stamattina pregandomi di fare una corsa costà, di venirti a vedere.
Memore della tua ultima lettera, e siccome io sono, per mia sfortuna, alquanto dissimile da te, siccome non so mutare animo e linguaggio così prontamente come un’attrice muta parte e toilette, così risponderò, se credi, che sono occupatissimo e non posso muovermi da Roma.
Il tuo aff.mo cugino |
All’Ill.mo signor deputato
- Daniele Cortis a Roma
Cefalù, 23 gennaio 1882.
- Ill.mo signor deputato,
Ho l’onore di rispondere, a nome e per incarico della ill.ma signora baronessa Di Santa Giulia, alla ossequiatissima sua del 19 corrente.
La nobile signora si trova a letto sotto la mia cura, con leggera febbre reumatica, e non può quindi scrivere. Ella significa a V.S. Ill.ma che, salvo questa indisposizione accidentale e di nessuna importanza, la sua salute è buona; e che avrebbe moltissimo dispiacere se lei si pigliasse l’incomodo di un viaggio così lungo. Aggiunge poi che la predetta indisposizione reumatica è stata già portata a cognizione sì dell’eccellentissimo signor barone che della nobile famiglia Carrè.
La signora baronessa m’impone pure di porgerle i suoi ossequi.
Sempre agli ordini di V.S. Ill.ma
umil.mo e dev.mo |
- Allo stesso (riservatissima).
Per espressa volontà della signora baronessa ho dovuto scrivere nei termini ch’ella vede la unita lettera e darlene quindi lettura. Ora la mia coscienza m’impone di aggiungere, in foglio separato, queste poche righe per migliore informazione della S.V. illustrissima.
Infatti la signora baronessa, oltre a una condizione generale anemica, è attualmente affetta, non da febbre reumatica, ma da leggera gastrite lenta, con ingorghi al fegato, probabile residuo di un lungo processo infettivo di febbri miasmatiche. Il male non avrebbe per sè nessuna gravità, ma mi dà pena lo stato generale anemico e la estrema depressione morale dell’ammalata. Ho incominciato da pochi giorni la cura di certe nostre acque minerali che ci vengono da Termini. Ho veduto miracoli di queste acque. Speriamo.
Io non dico a V.S. ill.ma di venire, anche perchè la signora baronessa mi parve allarmatissima di questo viaggio, per riguardo alla di lei salute, e risolutissima d’impedirlo, cosicchè non conviene andar contro alla sua volontà. Debbo solo avvertirla di un fatto. Nella mia visita di ieri fui soddisfatto assai dell’aspetto e dell’umore dell’ammalata. Le avevano recata la sua lettera proprio mentre entravo io, si può dire; ed ella non l’aveva ancora aperta nè la volle aprire, malgrado le mie preghiere, me presente. Pare che l’abbia letta appena rimase sola, e passò poi parecchie ore agitate, una notte cattivissima, con dolore all’ipocondrio destro, dispnea e tosse.
Io non conosco il contenuto della sua lettera. So tuttavia ch’ella è stretto congiunto di questa signora impareggiabile, la quale mi sembra avere un altissimo e meritato concetto della S.V. ill.ma Vorrei dunque pregarla, nella mia qualità di medico, di scriverle, sì, per il gran bisogno che ha di conforti morali, ma di evitare argomenti che possano turbare il suo spirito.
Ella mi perdoni, rispettabilissimo signor deputato, se un sentimento di dovere e di rispettosa affezione per la signora baronessa m’induce a parlare così arditamente; e mi creda sempre, con profondo ossequio
suo dev.mo e umil.mo |
- Alla baronessa
Elena Di Santa Giulia, a Cefalù
Roma, 27 gennaio 1882.
Non m’aspettavo l’ossequioso certificato dell’ottimo dottor Niscemi. Una reumatica? Poca cosa, ma, tanto, sono entrato assai sgarbatamente nella tua camera di ammalata. Perdonami, cara Elena. Non verrò a Cefalù, dunque; farò invece una chiacchierata romana al tuo capezzale. E cercherò di essere un poco più amabile!
Cosa vuoi? Sto nella politica fino alla gola e mi ci guasto i modi e lo stile. Si stava meglio nel mio lago dei giardini, quella notte di giugno! La prima immersione nel pelago parlamentare agghiaccia fino al cuore. Vedo parecchi miei colleghi novellini tuttora aggranchiti dal gelo, smarriti, malati di nausea e di nostalgia. Pensano: qui è il cuore, questa è la sapienza d’Italia? Lo scorso dicembre un ministro ci è venuto a dire che Bismarck paragonando l’Italia politica alla Spagna ci ha fatto onore; e noi, vanitose ombre querule, sopraffatti in quel momento dalla coscienza, abbiamo taciuto.
Io studio, intanto; studio uomini e cose per l’avvenire. Il presente non è buono ad altro. Ho anche parlato un paio di volte, molto brevemente, su argomenti di poca importanza, per accordare lo strumento e trovare il la. L’ultima volta c’era nella tribuna della presidenza una signora che ti somigliava molto. Si discuteva il bilancio dell’agricoltura e io parlavo di boschi. Ho paura d’essere stato, in grazia di quella signora, più fiorito e frondoso delle mie foreste.
Faccio sempre, malgrado la politica, delle cavalcate mattutine. Il tenente colonnello B..., addetto ora al comando generale dello stato maggiore, mi presta una sua piccola baia che salta all’irlandese come le lepri. Stamattina ho fatto una galoppata fuori di Porta Maggiore, per via Prenestina, in cerca del Tempio della Quiete; non c’era una volta un Tempio della Quiete da quelle parti là? Ma è scritto, credo, che un tal tempio non lo troverò mai. Faceva sereno in cielo, caldo, polvere e verde in terra: le montagne avevano uno spruzzo di neve. Passai quel gran pino a destra e lo scoglio a sinistra su cui sedemmo, ti ricordi, fra i papaveri, a guardare il subito mare della campagna, e tutte quelle tombe, quegli spettri d’acquedotti. La cavalla mi si piantò sulle quattro zampe a mezzo chilometro di là, sul sentiero che taglia la via Labicana, presso a una tomba quadrata. Forse la credette il Tempio della Quiete, perchè è intelligente: forse udì il treno di Napoli fischiar da lontano nel silenzio. Lo udivo anch’io, pensavo alla Sicilia e a te, ma in modo nuovo, penetrato dalla calma delle solitudini.
Roma, città dell’anima; chi ha detto così? Io non mi ricordavo più d’avere un corpo e, sopratutto, un cavallo fra le gambe. C’è caso che ammali di misticismo miasmatico con estasi al cervello? Non sarebbe proprio la mia tendenza; però c’è dei cattivi indizi. Figurati che mi viene qualche volta l’idea di vivere nel palazzo di Settimio Severo con Tommaso da Kempis e i corvi.
Chiacchiero troppo, forse, e tu ti stanchi. Dovresti farti leggere le lettere dall’ottimo dottor Niscemi che potrebbe interromper le troppo lunghe con qualche sarà continuato. Il consiglio viene un po’ tardi per questa volta, ma pure non è da buttar via, perchè io ti scriverò ancora e presto e a lungo. Addio, cara Elena. Salutami l’eccellente dottore e abbiti una cordiale stretta di mano del
tuo aff.mo cugino |
Al dott. Antonino Niscemi, a Cefalù
Roma, 27 gennaio 1882.
- Egregio Signore,
Gratissimo a V.S. della sua lettera riservata, la prego di volermi fornire informazioni frequenti ed esatte sullo stato dell’ammalata. Se peggiora, o anche solo se non vi ha un pronto miglioramento, le consiglierei di scrivere direttamente e segretamente alla contessa Tarquinia Carrè. Ove ella non credesse di poterlo fare per riguardi personali, m’incaricherei volentieri io stesso di far sì che la contessa venisse a Cefalù senza comprometter lei.
Ho scritto oggi stesso a mia cugina giusta i suoi consigli; le scriverò presto; ma prima desidero conoscer l’effetto di questa seconda lettera. Io ho moltissima stima di mia cugina e siamo sempre stati buoni amici, ma qualche volta non c’intendiamo e allora io le dico il mio parere forse un po’ troppo bruscamente.
Mi creda
suo dev.mo |
All’ill.mo signor deputato
- Daniele Cortis, a Roma
Cefalù, 31 gennaio 1882.
- Ill.mo signor deputato,
La signora baronessa ha ricevuto l’altro ieri, martedì, la sua lettera. Io non ero presente ed ella non me ne ha ancor detto nulla. Lo seppi dalla cameriera, la quale mi soggiunse che la signora non parlò, ma che i suoi occhi erano molto contenti.
Io pure sono molto contento della nuova cura. Abbiamo da due giorni un miglioramento sensibile. Ieri la baronessa, che è solita passare dal letto a una cislonga, potè fare qualche passo per la casa, e mi confessò che da un pezzo non aveva preso cibo con minore ripugnanza. Stamattina la trovai a piangere. Mi disse, sorridendo fra le lagrime, che era commossa di sentirsi così bene e che si godeva tanto di piangere. Effetto di debolezza. La debolezza è ancora grande e la dieta non può essere finora che lattea e vegetale; ma, se arriviamo a far tollerare il ferro e le carni, spero in un pronto ristabilimento.
Con profondo ossequio
suo umil.mo e dev.mo |
- Alla baronessa
Elena Di Santa Giulia, a Cefalù.
Roma, 4 febbraio 1882.
- Cara Elena,
Nè mi rispondi, nè mi fai rispondere quando una parolina basterebbe. La mia coscienza dice che avrei fatto bene ad accontentar tua madre senz’altro.
Questa reumatica non è partita? E il dottor Niscemi è egli à bout della sua letteratura? Le equazioni a due incognite non sono mai state il mio forte.
L’altro giorno ti ho scritto dalla Camera; oggi scrivo nel mio quartierino di via Principe Amedeo, con le finestre aperte a un tepido sole petrarchesco, a una primavera platonica, a tutte le trombe, a tutti i fischi di quanti tram e locomotive Lucifero ha messo al mondo. Se ci fossero stati cent’anni fa, Alfieri non avrebbe potuto, suppongo, scrivere la Merope, come la scrisse, secondo una lapide, a pochi passi da casa mia; e io non avrei fatto ridere, vociando come un forsennato nel teatrino del mio collegio:
Ahi, quanta è impresa il mantenerti, o trono!
Questo dei rumori è un guaio, ma ho la veduta libera sulla discesa del Viminale, un guazzabuglio pittoresco di tetti scaglionati; al di là della strada, proprio qui sotto ci ho un bel tappeto verde, degli agave, delle rose, dei zampilli: e a sinistra, in capo al cannocchiale della via ombrosa, uno sfondo di cielo, i monti Albani. Sono lontano dalla Camera, ma in quei quartieri laggiù non ci potrei vivere e fino a quando Settimio Severo non m’appigiona una sala, mi attengo a Roma buzzurra.
A proposito di Camera, l’altro giorno mi scordai di dirti che ho parlato anche in favore dei frati, proprio, dei frati francescani. Oh! dice lei. Sì signora, dico io, e ho fatto molto bene, quantunque le mie parole sieno cadute sulla strada o fra le spine. Figurati che si è raccomandato al ministro di largheggiare nei sussidi alle nostre scuole laiche d’Oriente e di affamare le scuole tenutevi da corporazioni religiose. Il ministro ha risposto timido timido, non convinto in cuor suo, ma inchinandosi a tanta sapienza; c’est bête, mais c’est comme ça. Solo un signore di sinistra ha osato dire che, se noi viviamo nella luce della filosofia e della scienza, quei poveri asiatici stanno ancora nell’ombra della religione; e che volendoli pigliare, bisogna pigliarli per quel verso, come la Francia! Già qui non si è buoni che a dire: «Vedete come fa la Francia! Vedete come fa l’Inghilterra!» A questo modo io dispero che si arrivi mai, negli altri paesi, a dire: «Vedete come fa l’Italia!» Stavolta però quel signore l’aveva imbroccata giusta, e ho parlato anch’io in nome di un interesse politico, per quei poveri grandi cuori che tanto fanno per un’idea, che non cercano fama, nè onori, nè ricchezze, e che si vorrebbero lasciare in abbandono da questi piccini ben pasciuti liberi pensatori della commissione del bilancio. Non li ho mica chiamati così, sai, alla Camera; li ho turibolati, anzi. Dopo aver parlato dell’interesse italiano, pregai la loro alta sapienza di considerare se la nostra stessa splendida civiltà, che ora produce, all’infuori di ogni azione religiosa, tali luminosi Parlamenti, non abbia più bisogno di adoperare il Vangelo; nel qual caso ci sarebbe una certa convenienza di restituirlo all’Oriente che ce l’ha prestato, e quindi di aiutare quei frati a somministrarlo. Sull’atto il mio discorso non fece nè caldo nè freddo. Molti si congratularono meco e mi diedero ragione, ma dopo la seduta e fuori dell’aula. Posso però dire che fui ascoltato più delle altre due volte.
Una signora voleva persuadermi, giorni sono, di andare col Papa con lei e altri. Ho rifiutato, non potendovi andare col mio nome e la mia qualità di deputato al Parlamento. Mi accontento di visitare, quando posso, quell’imo Pontefice che dice il De profundis nella confessione di San Pietro, e che fa tanto pensare il mio cuore.
Ho bisogno di Dio, cara Elena; sento che la mia vita deve oramai rispondere vigorosamente alle opinioni che manifestai agli elettori, e per le quali combatterò. È anche un dovere politico: bisogna fare un pezzo solo con la propria bandiera se deve star salda.
Ciò vuol dire, cara, che le mie passioni non saranno un pericolo per alcuno. Quella che più temo è la collera; vedrò tuttavia di star in riga e di non schiaffeggiare la gente che se lo merita. Prega per me riguardo a questo ultimo pericolo, perchè qui si è tentati ogni momento, tanti sono gli esseri volgari, tronfi e villani; io non ho moltissimo tempo di pregare! Non sono però di quelli che la zia Tarquinia chiama «turchi.» Domenica scorsa sono andato a messa a San Pietro e vi ho udita poi una musica straordinaria. Non mi hanno saputo dire di chi fosse. Io sono un barbaro in fatto di musica, ma quella lì mi ha fatto una impressione! Mi parve una profezia sinistra rotta dal pianto. Quando uscii di chiesa il cielo era nero sul Vaticano, una occhiata di sole incendiava la fontana di sinistra, il colonnato e il palazzo; in piazza non c’era un’anima. Che presentimenti mi vennero di tempesta e di rovina! «Tout cela passera comme une voix chantante.» Fra quanti anni? O fra quanti secoli? Si ha un bel fare, ma i nostri nipoti o i nostri pronipoti vedranno quel giorno. Un poeta, amico mio, mi diceva l’altro dì che i caratteri indecifrabili di tutti questi obelischi gli mettono paura, gli paiono tanti Mane, Techel, Phares per la città eterna. Io non so leggere gli obelischi, ma leggo e compito un poco gli uomini e le cose passate e presenti, e vedo incominciato un discorso che, dopo Dio sa quante virgole e quanti punti, deve andare a finir male. Non mi perdo di coraggio, per questo. Se si arrivasse a salvar una generazione o due, ti parrebbe poco? Ma m’irrita la cecità di certuni, m’irrita di udire, per esempio, il deputato L., un grande ingegno e un gran galantuomo, dire che se si vogliono ottenere migliori condizioni per gli operai, bisogna predicare, non mica la carità e la vita futura, ma il tornaconto. Come se non fosse d’egoismo ai visceri che il secolo soffre. L’una e l’altra cosa doveva dire. Del resto io invidio chi vedrà, sì, le rovine di San Pietro e del Vaticano, ma vedrà pure i sublimi pontefici degli ultimi giorni, se saranno secondo la mia immaginazione e il mio cuore.
Mia madre è ancora a Lugano e vorrebbe venire a Roma. Io ho fatto pagare i suoi debiti, le ho assegnato una mesata sufficiente, ma a patto che viva dove e come voglio. A Roma no; almeno fino a che ci sto io.
Partirò presto per Villascura dove mi godrò le vacanze di carnevale nella neve, probabilmente. Ma prima mi tratterrò in città un paio di giorni con tua madre e tuo zio, che sta sempre, scrivono, allo stesso punto. Sai chi mi parla spesso di te? Il buon Clenezzi che vedo qualche sera in casa D. Non posso incontrarlo una volta, neppure per via, senza che mi dica nel suo particolare idioma di confidenza, un quarto italiano e tre quarti bergamasco: «E ixe? Ha notissie?» È un gran caro uomo, la perla del Senato. Addio, Elena. Come vedi, non ti ho risparmiate le chiacchiere. Ora fammi tu saper qualche cosa di te. Ti stringo cordialmente la mano.
Il tuo aff.mo cugino |
- All’ill.mo signor deputato
- All’ill.mo signor deputato
Daniele Cortis, a Roma.
Cefalù, 8 febbraio 1882.
- Ill.mo signor deputato,
La guarigione della signora baronessa procede abbastanza lodevolmente, grazie a queste nostre acque di Bivuto. Ma ora, per non ricadere, ci vorrebbero certi farmachi che l’infelice medicuzzo non tiene e il miserabilissimo speziale nemmeno. La mia cara Cefalù non è più aria per questa signora. Io l’ho scritto all’eccellentissimo signor barone, ma siccome V. S. ill.ma certo conosce tante cose e tante persone, così lo scrivo anche a lei. Il ragionamento, s’ella ci riflette su, è forse un poco cefalutano, ma buono.
Io credo che la signora non può avere qui una buona respirazione morale. Pare ora che la signora contessa sua madre, visto ch’ella, signor deputato, non può muoversi di Roma, intenda venir lei a portarsela via. La baronessa Elena sfavillava di gioia quando ebbe questa lettera; poi mi disse che non sarebbe mai più partita da Cefalù, e andò al balcone sul mare come per vedere il tramonto, ma in fatto per piangere, secondo il solito. Io non capisco. Teme ella di doverci restar per sempre, a Cefalù, o lo desidera? Ora si direbbe una cosa, ora l’altra. Ma ella conduce qui la più misera vita del mondo. Non vede nessuno tranne mia moglie che ha, poverina, una soggezione terribile, ed è una eccellente compagnia per me, ma non per la signora baronessa. In barca non ci può andare perchè si smarizza subito; cavalli non ne tiene; passeggiare non può ancora molto. Suonerebbe tutto il dì certe musiche barbare da fare sbadigliare la Sicilia intera, e lei ci si rimescola ch’è una pietà. Io vengo, la faccio smettere; ma poi passa per la via, com’è successo ieri, un mascalzone, cantando:
Ventu marinu, dimmi comu ha statu
e la signora mi si commuove peggio di prima. È vero che quello straccione pescator di sardelle aveva una maledetta voce di violoncello, dolcissima, e che la sua musica non era tedesca.
Preme dunque, illustrissimo signor deputato, preme infinitamente che la signora baronessa se ne vada presto, se ne vada lontano, che viva lietamente in mezzo a gente lieta, e faccia della santa musica di Cimarosa.
Con profondo ossequio
suo umil.mo e dev.mo |
All’on. Daniele Cortis
- deputato al Parlamento, a Roma.
Cefalù, 14 febbraio 1882.
Faccio bene a scriverti? Faccio male? Non lo so. Perdonami questo esordio incoerente. Sono stata malata più che non credi. Ora guarisco, Dio solo sa perchè, ma non sono più Elena, non ho più la mia volontà forte, sono una foglia che trema ad ogni vento; anche l’intelligenza mi si è confusa, il cuore è debole debole, piango di nulla, m’irrito di nulla, son troppo bambina, son troppo donna.
Ho avuto una lettera strana che mi ha turbato infinitamente. È tua madre che mi scrive, che mi scongiura d’interpormi presso di te. Vorrebbe vivere teco. Ella dice morire vicino a te, ma forse s’inganna: non si muore quando tutto lo promette e tutto v’invita! Ma perchè si rivolge a me? Le hai tu parlato di me? Il primo istinto fu di risponderle: io sono già morta; si rivolga altrove; le auguro tutto il bene possibile. Poi ho pensato: Daniele mi ha scritto due buone lettere, tanto interessanti; io lo ringrazierò e gli parlerò anche di questo. Povera donna, mi prega con un calore tale! Ci sono anche delle cose misteriose nella sua lettera, delle allusioni che non s’intendono. Pare che qualcuno della mia famiglia le abbia fatto un gran male.
Chi sarà? Ma non è questo che mi tocca: non puoi credere quanto sono diventata indifferente a certe cose, con la mia sensibilità di disordine. È proprio lei che mi fa pena; ti trovo troppo severo, ti temo ingiusto! Hai trovato una donna corrotta; ma non è anche una donna infelice? E quanta parte avranno avuta nelle sue colpe la natura, gli uomini, le cose? Permettile di venire a Roma, di parlarti qualche volta, di vederti, almeno; almeno di vivere nello stesso paese, di saper che se muore puoi esser lì al suo letto in un attimo ad udire le sue ultime parole. Chi sa cosa può uscire da un cuore quando si rompe? Dev’essere un momento ben felice quello di sentir la fine e di poter dire tutto. Sono sicura che di momenti felici tua madre non ne ha avuti molti; concedile questo. Ti dico io di prenderla con te? No, mai. La donna che io desidero con tutta l’anima di vedere in casa tua, deve essere interamente nobile e pura; ma pietà anche per l’altra! Daniele, io lo so, Dio castiga le virtù altere che si ribellano al contatto di un povero essere debole, tentato e caduto. Sei tanto forte: sii pietoso.
La testa mi si smarrisce e il dottor Niscemi mi sgriderebbe se sapesse che ho scritto tanto. Domani vuol condurmi a Cerda e quindi a Termini per una visita di gratitudine a certe acque ch’egli si figura di avermi fatto prendere. Pover’uomo, se sapesse quanto poco l’ho ubbidito! Spero in una tua lettera, in una buona notizia. Lascia che faccia anch’io un po’ di bene a questo mondo e credimi sempre
tua aff.ma cugina |
Alla baronessa
- Elena Di Santa Giulia, a Cefalù.
Roma, 18 febbraio 1882.
Povera Elena, c’era proprio bisogno di venirti a turbare, a contristare anche te, sola, malata, fuori del mondo! Ho avuto un colpo di collera nell’apprenderlo. Anche te!
Sì, ti ho nominato a mia madre lo scorso giugno, a Lugano, e voglio dirti come. Ella mi fece un discorso sibillino per dissuadermi dall’aver relazione con la famiglia Di Santa Giulia. Io credetti a qualche calunnia stupida perchè ella aveva dei corrispondenti segreti a Villascura. Protestai e nel protestare dissi il tuo nome. Allora mia madre dichiarò che non aveva inteso alludere a te, bensì a tuo marito. Non si spiegò di più, quella volta: promise di riparlarmene. Ma intanto io dovetti partire a precipizio da Lugano e non la rividi. Nè lei nè io toccammo più, scrivendo, questo argomento. Confesso anzi che non ci pensai più. Pur troppo vi è un tal baglior d’oro e un tal suono falso in tutte le parole di quella donna, che nessuno le può accettar per buone. Voleva dirmi, probabilmente, ciò che io subito pensai; il mio sdegno le fece mutare strada lì su due piedi, ed ella ne uscì con la prima invenzione che la soccorse.
Tu mi preghi per lei, Elena, mi trovi severo, ingiusto, mi dimandi pietà. Tante parole? Non era necessario dirmi ingiusto; tu non la conosci e non sai! Mi pareva più opportuno che restasse dov’è, fuori del mondo, sotto la vigilanza, però, di persona fidata. Ma verrà in Roma, e verrà in casa mia, perchè ella è tale che io non posso lasciarla qui sola, libera di scegliersi l’ambiente e le amicizie che più le talentano. Non pensare a me, cara Elena, nè alla moglie ideale che mi desideri. Non amo, non amerò mai; non vi è più tempo nella mia vita, non vi è più posto nel mio cuore per quest’amara vanità; e una famiglia mi sarebbe d’impedimento. Ho già la cara famiglia delle mie idee. Sai che tua madre diceva qualche volta: già, quando Daniele sposa un’idea! Ecco, ne ho sposate, le amo, le possiedo, e se Dio ci aiuta metteremo insieme al mondo una forte prole. Lo diceva ieri sera a M. camminando al chiaro di luna sotto i lecci della Trinità dei Monti. M., con tutta la sua imbottitura di stoppa che chiama statistica e la sua gotta che chiama nevralgia, è innamorato morto e mi faceva le sue confidenze. Poi mi chiese le mie. Io gli mostrai la luna. «Oramai» dissi «non capisco altri amanti che Caligola: plenam fulgentemque lunam invitabat assidue in amplexus.» Questo è un latino che intendi anche tu.
Ah, cara Elena, quante volte, pensando ai miei ideali mi faccio l’effetto di un babbeo che contempla la luna con una scala in mano! Per fortuna sono dubbi che passano, e la mia fede in me stesso è pronta a ben più dure prove che le presenti. Ma che lavoro ingrato su questo floscio buon senso italiano che domanda a tutte le audacie il bilancio preventivo e ha tanta paura di passar per poco pratico, e, sopra tutto, di perder l’ora del pranzo e la pace della digestione! Siamo, in fondo, un popolo di droghieri. Ecco quello che tocca a me, per esempio. Per maturare le idee, bisogna metterle al sole. Alla Camera ce n’è troppo poco. Ci vuole un giornale. Mi occorre assolutamente un giornale e non puoi credere quanto mi costi metterlo in piedi, benchè molti, anche miei colleghi, consentano meco a parole. Quando si tratta di fare, tutti sono linci per le difficoltà: il paese non è preparato, il momento non è buono, il mio programma di politica interna non si può attuare se non con Trento e l’Istria in tasca, e di ciò non deve parlarsi. Tu rispondi che appunto il paese bisogna prepararlo, che al momento buono bisogna trovarsi a posto e che, se tutto dipende da un gran successo di politica estera e dal ministero che l’otterrà, bisogna incominciare dal combattere questo che c’è ora. E allora cosa ti si replica? Niente di chiaro, ma si capisce che un droghiere non vuol seccarsi, un altro non vuol arrischiare i suoi danari, un terzo ha paura degli amici, un quarto degli elettori, un quinto, anzi una folla di droghieri, trema di passare per clericale. Riuscirò malgrado tutto, ma mi ci vuole una energia, e una certa perseveranza. E ora lasciamo questi fastidi.
Sei stata malata, dici, più che io non creda. E perchè macchiare la coscienza del troppo docile dottor Antonio? Comprendo abbastanza che tu ne abbia fatto mistero con tua madre; ma con me? E come posso ora io credere al tuo guarisco?
Tanti saluti di Clenezzi. Ho saputo iersera che adora la musica più ancora del vino d’Albano e di un certo cibo bergamasco, che chiama casonsèi e che va a mangiare una volta per settimana in Trastevere, da un oste suo compatriota. Iersera c’è stata in casa S... una mezza accademia di musica antica, e donna Laura cantò una arietta del Pergolese che trasse delle vere lagrime al nostro vecchio amico valbrembano. Io scherzai un po’, gli dissi che te lo avrei scritto. «Certo» rispose «e le mandi anche l’aria o almeno i versi di Metastasio che valgono, essi soli, tutti i moderni elzeviri.» Eccoli come li ho trascritti dalla musica di donna Laura:
Se cerca, se dice: |
Mi ricordai, rincasando, di un aneddoto che mi raccontava il maestro Braga, il gran violoncellista, e che non so d’avere mai trovato nei libri. L’Olimpiade dove si trova quell’aria lì, fu data all’Argentina e fischiata brutalmente. Il povero Pergolese, ferito a morte, piegò sul suo stallo d’orchestra, si nascose il viso tra le mani. Il teatro si vuotava ed egli era sempre là, prostrato, quando la mano di una persona invisibile, uscì da un palchetto, gli gittò dei fiori e disparve.
Fortunato lui, perchè non vi è premio migliore nella nostra misera vita che questi fiori di una persona invisibile. Credi tu, cara Elena, che Pergolese e lei sieno ora insieme? Ti confesso che tornando a casa mi son posto anche questo problema, poichè lo scrutinio di lista è votato e non ci si pensa più.
La Camera s’è prorogata al due marzo. Io parto domattina; passerò il lunedì e forse anche il martedì grasso in casa Carrè. Poi vado a Villascura. Ci ho dei fastidi anche là. Circolano proteste, si raccolgono firme contro i miei discorsi e i miei voti.
Mi fischieranno; che importa? Nessuna mano mi gitterà fiori; sia! Se avessi uno stemma, vorrei questo motto: «contro i più». Addio, cara Elena. Credi tu che Pergolese e lei sieno ora insieme?
Daniele.
Al Senatore
- G. B. Clenezzi, a Roma.
Cefalù, 4 marzo 1882.
- Caro Clenezzi,
So ch’ella mi è sempre stato un buono e fedele amico; so che si ricorda ancora di me dopo tanti secoli; anzi la ringrazio di avermi fatto mandare, quindici giorni or sono, dei versi che hanno toccato il cuore a me come a lei, anche senza la musica del Pergolese e la voce di donna Laura. Ma per me, caro Clenezzi, la poesia è morta o almeno è partita piangendo, come dicono quelle strofette che io ricambio in ingrata prosa. Oramai preferisco la prosa, quantunque triste, quantunque dura. Sono come qualcuno che, avendo perduto una persona cara, si mette tutto negli affari più aridi, più molesti e fugge la musica.
Lei sa che il 31 marzo scade l’ultimo pagamento che deve fare mio marito, secondo la convenzione con l’avvocato Boglietti, sotto pena del procedimento penale. Ora credo che ci troviamo in pessime acque e che mio marito non potrà assolutamente pagare. Le dirò tutto: non mi costa affatto il parlarne. Una piccola malattia da cui esco mi ha affatto spostata la sensibilità. Certe inezie mi fanno piangere, certe rovine mi lasciano indifferente.
Quando dunque mio marito andò a Roma nel novembre dell’anno scorso, credo che del soffio di fortuna toccatogli, com’ella sa, in estate, non rimanesse quasi più traccia. Il pagamento di settembre, e, probabilmente, altri debiti urgenti avevano consumato quasi tutto. È anche per questo che io restai a Cefalù, desiderando evitare ogni spesa superflua. Mio marito mi lasciò, partendo, pochissimo danaro. Appena partito lui, scopersi una quantità di debitucci anche qui, con operai, con piccoli commercianti, da arrossirne! Io avevo da parte la somma speditami a Roma da mio zio lo scorso luglio e che lei ritirò per me dalla Banca Nazionale. Mio marito non ne sapeva niente, e poichè, allora per allora, dopo la sua vincita al giuoco non gli occorreva più, io la serbavo per l’ultimo pagamento, certa com’ero che ci si sarebbe trovati alle strette da capo. Della povera gente veniva da me tutti i momenti per avere il suo. Scrissi a mio marito. Mi rispose che persuadessi costoro ad aver pazienza, che per ora non poteva assolutamente soddisfarli. Cosa dovevo fare? Pagai con questi danari che avevo in disparte.
Mio marito fece una corsa qua dieci giorni sono. Seppi dopo la sua partenza che ha cercato invano di contrarre un prestito. Seppi altresì che la persona cui si rivolse era disposta a dargli una somma ragguardevole purchè la cambiale fosse sottoscritta anche da mia madre. Mio marito ruppe le trattative. Non n’ebbi sorpresa. Egli insistette lungamente, l’anno scorso, presso la mia famiglia per avere del danaro che gli fu ricusato, e potè pensare, per effetto di un equivoco inutile a raccontarsi, che mio zio, mia madre ed io ci fossimo fatti giuoco di lui. Ora ella comprende la sua fierezza. Lo credo capace di affrontar qualunque rovina piuttosto che accettar niente da noi. Vi è questo buon metallo nel suo carattere, e, ogni volta che vi cade su un gran colpo, suona. Quando seppe che avevo pagato quei piccoli creditori, di cui le parlai, andò sulle furie e volle farmi subito un’obbligazione per l’intera somma sborsata. Io gli toccai allora del prossimo pagamento; mi rispose che non avessi a incaricarmene. Adesso mi si riferiscono delle mezze frasi sinistre che gli sarebbero sfuggite qui; e forse qualche ambigua parola la disse a me pure. Anche l’estate scorsa, in Roma, mi parlò di quel che avrebbe fatto non potendo salvar l’onore; però allora tornava dal giuoco, ebbro di fortuna.
Caro Clenezzi, è una cosa semplice. Tutto quello che farebbe la moglie più devota al proprio dovere, voglio farlo. Quale via tenere non lo so; e non posso pensarci, proprio fisicamente. Se lei mi dicesse: bisogna dare tutto fino all’ultimo anello, vivere di carità, io darei tutto e morrei, ecco. Mi dica dunque che debbo fare. Lei penserà: perchè non scrive alla sua famiglia? Debbo scrivere? Scriverò. Ma in ogni caso bisognerà che il danaro sia spedito a lei, che lei abbia la bontà d’aggiustar la cosa con l’avvocato Boglietti come crederà meglio, conoscendo l’animo di mio marito presso i Carrè. Quale somma chiederò? Mi risponda subito, perchè aspetto mia madre fra pochi giorni. Vorrebbe venir per mare ma potrà anche mutar itinerario, e passare da Roma, se occorre che porti questo danaro. Mio zio è appena convalescente e non vorrei scrivergli una lettera simile quando sarà solo.
Ho rimorso, amico mio, d’imporle tanti fastidi per un po’ di gratitudine stanca e fredda. Non mi sento neppur il coraggio di offrirgliela. Le dirò solo: faccia un’opera buona. Vorrei tanto farne anch’io e non posso! Non parli a nessuno di questa lettera, e quando può pensare alle cose inutili, pensi anche a me.
L’amica sua |
Alla baronessa
- Elena Carrè Di Santa Giulia, a Cefalù.
Roma, 7 marzo 1882.
- Gentilissima amica,
Da quattro giorni sono inchiodato in casa con i miei dolori soliti. Che fare? La cosa premeva forse più di quel che lei crede. Mi perdoni, ho fatto chiamare suo cugino il deputato Cortis, per il quale ho grande stima, gli ho detto tutto e l’ho pregato di fare le mie veci. Credo per verità che in questo momento sia sopraccarico di lavoro: commissioni parlamentari, un giornale da fondare, il riscatto delle ferrovie venete che l’occupa moltissimo. Non saprei tuttavia chi potesse incaricarsi con maggior interesse. Infatti appena ebbi pronunciato il suo nome, s’impadronì del mandato, più che io non glielo abbia offerto.
Per parte mia non posso che darle un consiglio: venire a Roma.
Scusi la calligrafia: sono costretto di scrivere con la mano sinistra.
Le bacio la mano con la più viva speranza di presto vederla.
Suo dev.mo |
Alla baronessa
- Elena Di Santa Giulia, a Cefalù.
Roma, 14 marzo, 1882.
Non dolerti di me, cara Elena: non potevo rifiutare un servigio a Clenezzi che malediva la gotta. Per quell’ottimo uomo farei qualunque cosa, anche la parte dell’intruso.
Sono andato dunque dall’avv. Boglietti martedì 7, ma era a Firenze per una causa, e seppi che non sarebbe tornato prima di iersera. Lo vidi stamattina, gli parlai e sono incaricato da Clenezzi di riferirti cosa si è conchiuso. Boglietti era molto inquieto per questa scadenza. La somma che comprende capitale, interessi e spese, ammonta a L. 16,800. Io credetti rassicurare l’avvocato dicendogli che se il suo debitore non fosse stato in grado di pagare, la famiglia Carrè avrebbe sicuramente provveduto. Lo persuasi quindi dell’opportunità di astenersi per qualche tempo da qualunque procedimento contro tuo marito, quand’egli non adempisse all’obbligo proprio. Si convenne che mi avvertirebbe subito del mancato pagamento e che aspetterebbe il danaro sino al 15 aprile. Ora Clenezzi che, tra parentesi, sta meglio, chiamerà a sè tuo marito, e parlandogli quasi a nome della presidenza del Senato, già mescolata a questa faccenda, gli domanderà se crede di poter pagare; rispondendo egli negativamente gli prometterà di ottenergli una proroga. Intanto, voi avrete agio, fino al 15 aprile, di fare il pagamento e di cercare o no una spiegazione per tuo marito.
Scrissi a mia madre di venire a Roma appena le sarà possibile. Poichè la cosa deve farsi, si faccia subito. Pare che arriverà verso la fine del mese. Ho preso da domani, 15, un appartamento in piazza Venezia. Strepito grande: mia madre vi si deve divertire. Non so perchè mi pare che stando con lei preferirò anch’io lo strepito alla quiete. Ma questo che importa? In altre circostanze il viver con lei mi sarebbe un sacrificio incomportabile; ora ci sono quasi indifferente, non posso in coscienza farmi un gran merito presso di te se ho ceduto alle tue preghiere.
È probabile ch’io rassegni presto le mie dimissioni da deputato. E anche di questo che mai te ne importerà? Eh, Elena, Elena, faccio forse male a scriverti così, ma se il mio cuore certe volte trabocca, bisogna bene che n’esca del sangue amaro. Ho dunque ricevuto dal collegio una lunga lettera di protesta contro la mia condotta parlamentare. Non crederai mica che l’amaro stia qui? La lettera ha 266 firme; non ti so poi dire quante sieno false, quante di non elettori. Ne fu spedita una copia autentica alla presidenza della Camera. Questi 266 imbecilli non si avvedono di rendermi un gran servigio. In tutt’altro momento mi sarei riso della loro prosa; ora è una fortuna per me di poter uscire da questa Camera che affonda, posando la mia candidatura per le elezioni generali a suffragio allargato. Non so se mi dimetterò ora o se aspetterò la discussione delle spese militari che mi tenta. Probabilmente mi atterrò al primo partito e bisognerà decidersi presto, perchè pare che la Camera si proroghi fra dieci o dodici giorni. Farò un’uscita rumorosa, rompendo tutti i vetri possibili.
Riprendo a casa questa lettera incominciata alla Camera dove oggi credevo parlare sul riscatto delle ferrovie venete, che poi passò in silenzio, perchè tutta questa gente pensa ad altri attuali o futuri affari consimili delle proprie rispettive provincie, figli tutti di un solo riscatto.
Uscii a pigliar aria con il mio discorso e molte altre gravi cose sullo stomaco. Mi sentivo male. Trovai una signora che voleva condurmi a Villa Borghese nella sua carrozza; ma io avevo bisogno di preparare, almeno mentalmente, un articolo di rivista che devo consegnare fra tre giorni e di cui non ho ancora scritto una riga. Lasciai dunque la signora e mi feci portare alla villa Wolkonsky, dove c’è delle rose, delle rovine, dei corvi e del silenzio quanto se ne può desiderare in certi momenti psicologici che conosco. Sedetti all’ombra di un’arcata dell’Acqua Claudia, in faccia a Santa Croce in Gerusalemme e al deserto romano, e incominciai a meditare il mio articolo: Un’idea del principe di Bismarck. Usciva, lì accanto a me, dai mattoni del pilastro antico, una piccola mano di marmo con il suo avambraccio tornito.
Per un momento non pensai a Bismarck nè alla sua idea di un solo ministro responsabile nel gabinetto. Della poesia, cara Elena? Del sentimentalismo? Dove posso aver preso questo male? Sta tranquilla, mi durò poco. Mi dissi subito che le piccole mani bianche non hanno più che far meco oramai, e finii l’articolo con un calore d’ambizione che dovrò poi smorzare al tavolino. Se invecchierò e non sarò diventato ministro, mi farò eremita a Santa Croce in Gerusalemme; e nell’ora del demonio meridiano andrò là lontano sotto gli archi solitari, nella fragranza malinconica delle rose, a meditar su quella mano femminile e sul tempo passato.
Credo che a quest’ora la zia Tarquinia sarà arrivata costà. Ti prego di farle i miei saluti.
Se ti avessi proprio offesa nell’assumere un incarico affidato da te al senatore Clenezzi, e nello scriverti ancora malgrado il tuo silenzio di un mese, perdonami.
Clenezzi ti saluta e saluta tua madre. Mi disse oggi stesso: le scriva di venire a Roma, presto, subito. Io stavo per chiudere la lettera senza riferirti le parole dell’amico tuo. Perdona anche questo, se credi, al
devoto cugino |
A Daniele Cortis
- deputato al Parlamento, a Roma.
Cefalù, 18 marzo 1882.
- Caro Daniele,
Elena ti ringrazia tanto di quello che hai fatto per lei e ti dice che aveva scritto a Clenezzi perchè ti sapeva tanto occupato. Cosa vuoi? Non bisogna più meravigliarsi di nulla. Quando si dice che ti scrivo da Cefalù e che sono all’albergo, a pochi passi dalla casa di mia figlia! Non so più in che mondo mi sia. Ho trovato Elena abbastanza bene di salute, ma molto e molto giù di spirito. Povera Elena, se sono disgraziata io d’avere un genero simile, figurati lei! Per fortuna ella è meno sensibile, meno nervosa di me; al suo posto sarei morta dieci volte.
Pare che a giorni partiremo per costà. Grazie a te, si potrà respirare un poco, prima di questo benedetto pagamento; ma pure è bene, come dice Clenezzi, di venire sul luogo. Ti prego di trovar due camere e un salotto alla Minerva, possibilmente non troppo in alto. Ti telegraferò il giorno dell’arrivo, quando però non si cambi idea, poichè qui si cambia idea tutti i momenti. Non conosco più Elena.
Ho lasciato mio cognato a star benino. C’entra pure la volontà sua se sono all’albergo. Ah, caro Daniele, fra che gente mi tocca vivere!
A rivederci presto, speriamo. Cerca, se è possibile, che le camere guardino sulla piazza.
La tua aff.ma zia |
PS. Arriva ora un biglietto enigmatico di mio genero che aumenta le inquietudini d’Elena e spaventa me pure. Ora è deciso che saremo a Roma il 24 col diretto delle 1,45.