< Daniele Cortis
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CAPITOLO VI.


La signora Fiamma


Cortis arrivò a Lugano a sera inoltrata e scese alla modesta Pension du Panorama, una delle casine che biancheggiano col nome di Paradiso sull’orlo del lago, in quel curvo seno lontano dalla città, onde ascendono le subite pendici del San Salvatore. Uscì tosto dall’albergo e prese la stradicciuola che sale queste pendici sino alla terra di Pazzallo. L’amica di sua madre, la signora Leonora Fiamma, gli aveva scritto che abitavano un villino tra il Paradiso e Pazzallo, a sinistra della strada, poco più su di un’osteria appiattata fra le ombre dense d’un vallone boscoso. Bisognava suonare al cancello rosso fra due gelsi.

Cortis trovò il cancello e suonò. S’era fatto precedere da un telegramma; sapeva quindi di essere atteso.

Una cameriera venne ad aprire.

«La signora Fiamma?» diss’egli.

«Sì, signore.

«Come sta l’altra signora?

La cameriera esitò un poco.

«Lei» rispose «è ben quel signore che ha mandato un telegramma?

«Sì.

«Bene, la signora sta lo stesso.

«Male?

«Lo stesso.

«Intendo che mi rispondiate» replicò aspramente Cortis «se sta male o no.

«Glielo dirà la mia signora» rispose indispettita colei; e gli aperse con mal garbo l’uscio d’un salottino a pian terreno.

«C’è qui quel signore» soggiunse guardando verso un angolo del salotto.

Cortis entrò. Vide in quell’angolo e in alto una lampada; sotto la lampada, nell’ombra d’una gran poltrona, de’ lucidi capelli neri, una figura femminile, pure sfiorata qua e là dalla luce.

La testa lucida accennò lievemente di sì, e dopo qualche momento di silenzio, una voce non giovanile nè dolce, ma molto languida e triste, disse piano:

«È lei il signor Cortis?

L’accoglienza e la voce dispiacquero a Cortis, che non rispose direttamente.

«La sua amica» diss’egli «come sta?

«Sempre nello stesso triste stato» riprese la signora. «Si accomodi. Sarà impossibile che Lei la veda questa sera, perchè il medico non lo crede opportuno. Le domando scusa» soggiunse «se la mia accoglienza le pare fredda, se non esprimo tutta la gratitudine che debbo sentire e sento per lei; ma sono anch’io così sofferente!

La signora Fiamma pronunciò queste ultime parole come se stesse per esalare l’ultimo respiro, e arrovesciò il capo sulla spalliera della poltrona. Adesso il lume della lanterna le sfiorava la fronte segnata da sottili rughe e un gran naso tragico. Gli occhi avevano una espressione appassionata e falsa.

Mise un lungo sospiro, quasi un gemito; e girò il capo, senza alzarlo dalla spalliera, verso Cortis.

«Vede?» diss’ella. «Non ne posso più.

«Senta» osservò Cortis, «io stasera, a ogni modo, non avrei voluto vedere la sua amica, che nel caso d’una estrema urgenza. Mi perdonerà, signora, se io le parlo molto francamente secondo la mia abitudine. Ho sempre creduto che mia madre fosse morta. Lei mi dice che vive...

«Le prove?» sospirò la signora Leonora. «Il cuore non le dice dunque» soggiunse con un accento drammatico «che sotto questo tetto...

«Lasci stare il mio cuore, signora» interruppe Cortis. «Sono appunto le prove che io la pregherei di far conoscere.

«Sarà una grande amarezza per la signora Cortis» diss’ella sottovoce, con gli occhi al cielo; «ma è giusto, oh è giusto! Lo abbiamo previsto, sa! Adesso le farò vedere i documenti della mia amica.

S’asciugò gli occhi, a più riprese, con un fazzoletto profumato che poi guardava ogni volta come per vedere se avesse pianto lagrime di sangue. Pregò Cortis di suonare il campanello, si fece portare una candela e si rizzò con uno sforzo manifesto. Era alta e magra, le usciva dal collarino di tulle nero un lungo collo giallognolo; gli occhi neri e grandi eran pur cinti di giallore. Portava un abito nero, a coda, di taglio molto elegante; e camminava un po’ come Lady Macbeth quando viene in scena dormendo, col lume in mano.

Uscita che fu, Cortis diede una rapida occhiata alla stanza, notò due quadretti a olio, una Maddalena e una santa Cecilia, palesemente copie; le fotografie di una vecchia dama e d’un vecchio signore coperto di decorazioni, con la dedica sotto, in tedesco: alcuni libri ascetici, una cestella zeppa di biglietti di visita e un albo di studi dal vero all’acquarello, che portava scritto sulla prima pagina il nome della signora Leonora Fiamma, pittrice di camera di S. A. R. il granduca Leopoldo di... In un angolo del salotto vi era un’arpa polverosa.

La signora rientrò dopo qualche minuto, posò la candela e un piccolo portafogli sul tavolino ovale che stava davanti alla poltrona, disse a Cortis che la sua amica in quel momento aveva bisogno di lei, e che egli era libero di aprire quel portafogli e vedere. Sarebbe tornata più tardi.

Cortis, rimasto solo, dovette certo esercitare un violento impero sopra di sè; perchè, prima di aprire il portafogli, si piantò i pugni sulla fronte, gittò via, con uno scoter furioso del capo, tutte le debolezze che potean turbargli il giudizio. Quando si scoperse il viso era grave, ma pacato.

Gli venne alle mani, anzitutto, una lettera del dottore P... vecchio amico di suo padre. Appariva da questa lettera che, nel 1857, più di un anno dopo la sua uscita dal tetto coniugale, la signora Cortis aveva scritto al marito implorandone il perdono. Il dott. P... le rispondeva, per incarico avutone, che non vi era nessuna disposizione per accordarlo; aggiungeva poi di suo, a quest’amaro messaggio, una lunga coda pietosa d’incoraggiamenti, di consigli, di vaghe speranze per l’avvenire. Il dottor P... era stato collega di Cortis seniore come medico militare in Crimea, mentre la signora Cortis si lasciava sedurre ad Alessandria. Scoperta infedele dal marito al suo ritorno, ella aveva accusato un ufficiale di artiglieria morto da pochi giorni. Il P... le faceva intendere che si credeva ben poco all’ufficiale d’artiglieria, e che questo sospetto le nuoceva nell’animo del marito.

Mentre Cortis stava leggendo, gemiti e singhiozzi scoppiarono sopra la sua testa, nel silenzio della casa. Egli afferrò il lume per accorrere, per vederla; udì un passo, una voce tranquilla; tutto ritornò muto. Allora depose il lume, compiè la lettura, agitatissimo.

Aperse poi un piccolo medaglione d’oro e vi trovò i ritratti dei suoi nonni materni, Carlo e Maddalena Zarutti di Cividale. Da bambino aveva passato due autunni presso di loro a Cividale. Era il nonno, il buon vecchio nonno che veniva a prenderlo ad Alessandria in settembre e ve lo riconduceva alla fine di ottobre. Eccolo lì, tutto sorridente. E anche la nonna, povera vecchietta, come aveva l’aria felice! Erano morti tutti e due in un anno, di crepacuore, e ora parevano dire: «Caro, siamo noi, i nonni!» Cortis non guardò altro, uscì precipitosamente in cerca della signora. Chiamò, aperse a caso degli usci, entrò in uno studio di pittore, zeppo di cavalletti e di sedie, appestato di vernice e di tabacco. Non v’era che una copia di Nanà fra una bottiglia e dei sigari. Un momento dopo sopraggiunse la cameriera tutta affannata.

«Cosa vuole?» diss’ella stizzosamente. «Cosa cerca?

«Questa signora Fiamma?» rispose Cortis. «Andate a dirle che scenda.

L’accento e il volto suo quando disse «Questa signora Fiamma» esprimevano piuttosto fastidio che benevolenza.

La cameriera se n’avvide e si affrettò di chiuder l’uscio dello studio.

«Adesso non può» diss’ella.

«Allora» insistè Cortis «andrò io da lei.

«Oh giusto, oh giusto! No, no, c’è proibizione.

Cortis trasse un biglietto di visita, vi scrisse due parole a matita, poi lo stracciò.

«Andate» diss’egli, «fatele sapere che l’aspetto.

E rientrò nel salotto.

La cameriera tornò qualche tempo dopo con questo scritto della signora Fiamma:

«Sua madre è troppo agitata in questo momento perchè io possa scendere. Venga domattina alle otto. Prenda seco il portafogli.

«Santo Dio» esclamò Cortis. «Ma insomma, l’altra signora, non si può sapere come sta, che male ha? Perchè non la si può vedere stasera? E il medico quando viene? Chi è questo medico? Sa che io la devo vedere? Fuori, parlate, dite qualche cosa. Non siete di casa voi? Non sapete parlare, non sapete dir niente? Ma in nome di Dio, dunque!

«Ssss!» fece la cameriera «la malattia è di nervi. Sa, malattie di donne; non c’è mica pericolo, credo io. Ma se le ha detto che stasera non può vederla, è inutile. Venga domattina.

«Ma il medico, il medico? Come si chiama? Dove sta?

La cameriera nominò il dottor M... Soggiunse che era fuori di Lugano e non sarebbe venuto, probabilmente, che l’indomani sera.

Cortis prese il portafogli.

«Riferite» diss’egli «alla vostra padrona... Ma ditemi: qual’è la vostra padrona?

«Come, qual’è!

«Sì, è la signora Fiamma o l’altra?

«Ah! La signora Fiamma.

«E l’altra? Come va che stanno insieme?

«Non so. Io sono in casa da due mesi soli. Io credo che sieno state sempre insieme.

«Da quanto tempo sono a Lugano?

«Da tre o quattro mesi.

«E l’altra signora da quando è malata?

«Non sta mai bene. Da quando son venuta io, è sempre stata sottosopra.

Cortis non potè cavar altro dalla cameriera.

«Riferite dunque» concluse «alla vostra padrona, che avrei desiderato molto di rivederla stasera, e che le restituirò le carte domattina.

La cameriera lo accompagnò col lume al cancello.

«A proposito» diss’ella, «la mia padrona vorrebbe sapere dov’è alloggiato.

«Al Panorama.

Colei fece una smorfia eloquente e chiuse il cancello.

Cortis discese a gran passi, portato da una piena di sensi diversi e che non trovavano sfogo se non nella azione veemente delle membra. Quella pittrice del granduca Leopoldo, che repulsiva figura! Che profumeria di menzogna, in quella casa, e che nascosto puzzo.

E sua madre, sua madre! Lo stesso angoscioso dubbio ispiratogli dalla rettorica scritta della signora Fiamma, gli si affacciava ora più angoscioso che mai. Amica d’una donna simile! Però il dottor P... aveva ancora qualche stima e amicizia per lei quando le scriveva. Ed ella, almeno allora, aveva sofferto, pianto e pregato. C’era da sperare. Ma pure, tradire un uomo come suo padre!

Quando due opposte induzioni si urtavano in lui, Cortis si fermava su due piedi, parlava ad alta voce, nella notte. Quindi, sfogatosi alquanto, guardava i lumicini umili di Lugano, l’austera passione muta delle montagne che nereggiavano sul cielo, e, più, in fondo, il mistero del lago di cui non era possibile vedere il principio nè la fine. Ricordava un Lugano di mezzogiorno, pien di sole fra le colline e l’acqua scintillante; non era questo. Gli pareva nuova perfin la punta dolomitica nello sfondo di levante, quella minaccia ritta nel cielo; l’altra volta non l’aveva veduta. Prima di rientrare all’albergo andò, lungo il lago, in città. Tutto era deserto. I vapori ancorati tacevano in faccia alle case scure. Solo alcuni forestieri fumavano e parlavano sul terrazzo dell’Hotel Washington, dove Cortis aveva alloggiato con suo padre nel settembre del 1868. Si fermò sul ponte di sbarco dei vapori a guardar il bigio lago immobile e l’alto fantasma del San Salvatore. Era disceso lì tredici anni prima, con tanta gente allegra, un giorno di gran sole e di gran vento. Corse via, rientrò spossato, come desiderava, al Panorama.

Quella notte, nei brevi momenti in cui potè prender sonno, sognò ch’Elena gli conduceva sua madre per mano e gli diceva «confortala.» Sua madre era piccina, bionda, aveva gli occhi celesti e non parlava; non faceva che piangere.

Si alzò prima delle sei e scese nel giardinetto dell’albergo dove un vecchio stava inaffiando i fiori. Il cielo era puro, sul lago e sui monti vicini giocavan le luci oblique e le ombre lunghe del mattino; e, nello sfondo di oriente, la punta dolomitica, circonfusa di vapori azzurrini, non pareva più minacciosa. Cortis domandò conto al vecchio giardiniere delle signore che abitavano da tre o quattro mesi un casino presso Pazzallo. Non le conosceva; aveva conosciuto una signora che si divertiva a dipingere e doveva abitare da quella parte. Era venuta più volte a far colazione al Panorama; ora non veniva più perchè il padrone, non essendone stato pagato che i primi giorni, non ce la voleva. Più di così Cortis non potè saperne. Gli era impossibile aspettar lì e prese la via del monte, risoluto di raccogliere, prima delle otto, altre notizie. Incontrò dei contadini che scendevano alla città con erbaggi e frutta, li interrogò; nessuno gli seppe risponder nulla. Era quasi giunto al cancello rosso quando ne vide uscire una lattivendola. La fermò, si fece dare un bicchier di latte. La donna gli domandò sorridendo se volesse salire il San Salvatore. Cortis bevve e non rispose.

«Udite» diss’egli. «Siete voi che portate il latte, di solito, a quel casino lì?

«Sempre io.

«Dunque conoscete le signore che vi abitano?

«Diamine!

«E come si chiamano?

«Mah! La serva è la signora Barborina, e alla padrona gli dicono un certo nome che io non l’ho potuto tenere a mente.

«E l’altra signora?

«Quale?

«L’altra, l’amica della padrona.

«Caro Lei» disse la donna, meravigliata, «io non la conosco mica.

«Ma se stanno insieme?

«Ah, signor no, signor no; qui di padrone non ce n’è che una.

«Cosa?» diss’egli. «Non sapete che c’è in casa una signora ammalata?

«È ben sempre un po’ sottosopra anche quella pittora lì, ma di altre signore non ce n’è. Se però non è arrivata ieri. L’altro dì sono stata là io tutto il giorno a lavorare nell’orto.

La donna aveva un’aperta faccia onesta e la voce della sincerità.

«Va bene» disse Cortis, pallido. «Andate pure.

Suonò al cancello. L’uscio del salotto fu aperto a mezzo e richiuso subito. Nessuno comparve.

Cortis suonò una seconda, una terza volta, sempre più forte, sempre inutilmente.

Un contadino che passava si fermò a guardare.

«Può ben tirar giù il campanello» diss’egli, «se non vogliono aprire. Succede sempre così con quei malpaga lì.

«Conoscete questa gente?» domandò Cortis.

Colui rispose che conosceva benissimo la signora che lavorava di pittura. Era sola, aveva l’aria di una strega e non pagava nessuno.

Cortis suonò per la quarta volta. Finalmente la cameriera venne ad aprire.

«Non son che sett’ore» diss’ella: «eravamo a letto.

Egli entrò senza rispondere, e la guardò in modo tale che colei allibì, e perdette le parole.

«La vostra padrona?» diss’egli. «La vostra padrona? Su, perchè mi guardate? Perchè non rispondete? È a letto? Bene, le debbo parlare. Venite qua» esclamò poi che la donna si fu allontanata. «Come sta l’altra signora?

Colei gli lesse negli occhi, incominciò:

«La colpa non è...

«Fatemi entrare» disse Cortis.

«La colpa non è mia» riprese l’altra. «Io dico quello che mi comandano.

Cortis le impose di tacere e di precederlo.

Nell’entrare in salotto la cameriera gli disse sottovoce:

«Sono tre mesi che non ho avuto un quattrino di salario.

«Voi mentite per il vostro piacere, dunque?» rispose Cortis. «La signora è in piedi e non a letto.

Qualcuno camminava nella stanza superiore. In quello stesso momento si udì un tocco di campanello.

«Chiama» disse la Barbara avviandosi.

Cortis la fermò.

«Un momento» diss’egli. «Ha proprio nome Fiamma, o no?

Barbara lo guardò sbalordita.

«Ma come? Non ha capito? No no! Quello lì è un nome così che ha inventato la signora. È proprio la mamma sua di lei.

E tornava a incamminarsi.

«Vado io» diss’egli. «Dov’è la scala?

La trovò in fondo a un breve corridoio dove un lumicino a petrolio ardeva davanti a parecchi santi, a madonne d’ogni tipo e d’ogni colore. Metteva il piede sull’ultimo scalino quando l’uscio in faccia si spalancò e la signora Fiamma, scapigliata, con le vesti in disordine, apparve sulla soglia, gittò un grido.

«Ah! lo vedo» esclamò «il cuore te l’ha detto!

Giunse le mani, si buttava ginocchioni quando Cortis l’afferrò alle braccia, la spinse in camera e chiuse l’uscio dietro a sè. Ella smaniava, lottava per porsi in ginocchio, appuntava le braccia alle spalle di suo figlio, rovesciando all’indietro e agitando il capo. Cadde spossata sulla poltrona dove Cortis la spingeva.

«Ho mentito» diss’ella ansando affannosamente, «ti ho ingannato... non avevo il coraggio... di dirti subito... volevo vederti... udirti... almeno un’ora... in pace!

Cortis, curvo sopra di lei, la interruppe alle prime parole, le cacciò le mani sugli occhi, la baciò, con impeto disperato e si strappò subito dalle braccia che gli si erano chiuse intorno al collo. Colei restò con le braccia in aria, spaventata nella sua gioia.

«Daniele!» diss’ella.

Non lo vide più davanti a lei, ne udì la voce dietro la poltrona: la maschia voce armoniosa piena di dolore.

«Scusate; ho baciato mia madre e non volevo che voi mi vedeste.

La signora Fiamma tacque un momento, poi disse sottovoce piangendo:

«Non so che cosa tu voglia dire.

Cortis sospirò e non rispose. Passarono alcuni momenti.

«Qui c’è il vostro portafogli» diss’egli freddo.

«Oh Daniele, Daniele!» gemè la signora a mani giunte. «Non parlarmi così!

E scoppiò in singhiozzi.

«Non ti ho ingannato che a metà» diss’ella. «Soffro tanto! Ho ancor poco a vivere, sai, Daniele! Se non fosse così non avrei mai osato scriverti. Dio è pietoso. Mi ha purificata con un cumulo di dolori, di sventure da non potersi descrivere! Adesso non ne posso più, non ne posso più. Mi hai fatto la misericordia di venire; cerca nel tuo cuore una parola che mi lasci morir contenta!

«Ma non capisci» proruppe Cortis con la più veemente passione «non capisci che non...

Che non ti credo, voleva dire. La signora aspettava, livida, con gli occhi sbarrati, questa parola che non venne. La voce gli morì sulle labbra aperte. Diè di piglio ad una sedia, e fattosi accanto a sua madre, piantò la sedia a terra con tal impeto, da fracassarne quasi le quattro gambe.

«Raccontatemi tutto» diss’egli, cadendovi su di peso. «Tutto, sì, tutto da quel giorno in poi. Non lo potete?» esclamò con gli occhi scintillanti perchè sua madre tardava a parlare.

«Oh lo posso, lo posso» rispose la signora con un gesto drammatico. «Sarà uno spasimo, ma lo posso, lo devo e lo voglio!

Cortis credette riconoscere sua madre in quel momento, meglio che per le carte del portafogli, meglio che per una improvvisa memoria degli occhi noti alla sua infanzia. Pensò che nei loro nervi vi era un po’ dello stesso elettrico, benchè forse sua madre adoperasse il proprio per esperimenti da scena, e lui per il lampo ed il fulmine.

Ella gli fece un lungo racconto sentimentale, bagnando nelle lagrime le sue vecchie frasi perchè potessero parer fresche.

La sua purificazione aveva cominciato il giorno stesso del meritato castigo. Il dolore, i santi propositi, la speranza, sì anche la speranza, non l’avean lasciata mai più. Uscendo dal tetto domestico aveva invocata la compassione di pietosi parenti, n’era stata raccolta. Ma quella vita era troppo molle di agi e di affetti; così non si espiava! Per questo aveva abbandonate le care creature cui volesse Iddio rendere misericordia per misericordia! La signora Cortis insistette molto su questo particolare, temendo di certa calunniosa voce secondo la quale quelle care creature l’avrebbero spinta, dopo tre mesi di prova, fuori dei loro agi e dei loro affetti. Dio le aveva suggerito: tu sai dipingere. Allora si era rivolta all’arte e le aveva detto: salvami!

Era andata a Roma a copiare nelle gallerie, per guadagno. Quindi la granduchessa di... l’aveva nominata sua pittrice di Corte. Altri avrebbero forse detto il granduca, ma lei disse la granduchessa. Del granduca disse solo ch’era morto pochi anni dopo, e soggiunse che l’afflitta vedova, perduto l’amore delle belle arti, non aveva più desiderato pittrici nella sua Corte. Parlava da un’ora, quando giunse a questo punto. Forse per la stanchezza e la commozione; forse perchè nei racconti l’ultima parte è la più difficile, ella cominciò qui a turbarsi un poco, a interrompersi con sospiri e gemiti. Lunghi, lunghi anni di patimenti sfilarono, alquanto in disordine, davanti a Cortis, muto, accigliato. Erano tutti i guai di una vita errante; mali strani cui nessun medico aveva conosciuti mai; fatiche e bisogno.

Era venuta a Lugano alquanti mesi addietro da Düsseldorf, perchè i medici le avevano consigliato il clima d’Italia. Le sue sofferenze, sopite per poco, si erano ridestate più gravi. Il lavoro le era divenuto quasi impossibile. Allora sentendosi venir meno nella lotta durata oltre venticinque anni, vedendo accostarsi in fondo a una tenebra di miseria l’ultimo suo giorno, aveva chiesto a Dio se il calice amaro non fosse finalmente vuoto, se prima di morire non potrebbe vedere suo figlio. E Dio le aveva dato il permesso di scrivergli, ma non il coraggio di farlo. Non osando dirgli «sono tua madre», temendo non esser creduta o peggio, gli aveva scritto come un’amica di lei sotto il suo nome d’arte; un nome intemerato; oh sì!

Ella tacque e pianse, Cortis era più scuro che commosso.

«Soccorsi?» diss’egli. «Mai? Da mio padre, voglio dire.

«Mai. Mai niente; questo no.

Cortis aggrottò le sopracciglia. Ella aveva detto «questo no» quasi volesse esprimerne un lamento e non osasse.

«Cosa intendete dire?» esclamò. «Che avrebbe dovuto soccorrervi?

«Oh no, no» rispose la signora fra i singhiozzi.

«Mio padre aveva già fatto molto» riprese Cortis. «Nell’uscire di casa voi avete riavuta la vostra dote. Non è vero?

«Era ben poco» diss’ella.

Una vampa salì al viso di Cortis. Egli vedeva e sentiva sopra di sè lo sguardo di suo padre; non severo, ma vigile; e aveva più che mai presenti tutti i dolori, tutte le offese che il giusto e forte uomo si era proposto di nascondergli.

«Mio padre è stato generoso» diss’egli. «Del resto nel vostro racconto vi hanno cose che non so spiegarmi.

Colei fu presa da convulsioni violente e poi cadde in una spossatezza così profonda che non poteva nè parlare, nè udir parola. Cortis l’assistè, insieme alla Barbara, con austero volto e in silenzio.



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