< Daniele Cortis
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CAPITOLO VII.


Pronto!


La signora Cortis non si riebbe per tutto quel giorno, malgrado i soccorsi della sua farmacia omeopatica e qualche bicchierino di rhum, la più sgradita, secondo lei, delle medicine. A sera tarda si addormentò. Allora Daniele, che aveva appena trovato il tempo di pranzare e di scrivere un biglietto ad Elena, scese a Lugano. Prima di partire si fece aprir lo studio dalla Barbara; non v’eran più nè la bottiglia, nè il libro, nè i sigari.

«Ci vien qualcuno a trovarla?» disse Cortis.

«Pochi o nessuno» rispose la serva. «Viene qualche volta una signora russa.

«Chi è?

«Credo che sia una donna di teatro. Ma è vecchia come la padrona, anche lei. Ha scritto il suo nome in un libro. Ieri era qui, ma adesso non lo vedo più. La padrona l’avrà portato via iersera.

Cortis guardò uno studio del monte Rosa, da Pazzallo, e un ritratto d’uomo; le sole tele in lavoro.

L’uomo era un medico luganese che, dopo le prime visite e le prime pose, non s’era più lasciato vedere.

«Lo sapevate, voi» disse Cortis uscendo dallo studio, «che la signora mi aveva scritto?

«Sì, signore» rispose la serva sottovoce e in aria di mistero, «me l’ha raccontato lei l’altro giorno, quando è arrivato il suo telegramma. Mi ha raccontato... tante cose; e piangeva che bisognava vedere.

«Cosa vi ha raccontato?

«Lo so io? Tante cose. Che lei non aveva potuto vivere col suo povero marito, e che era andata per il mondo, e che aveva un figlio signore, per dire come ha detto lei, e che adesso questo figlio doveva venire a trovarla, e che lei non aveva piacere di essere conosciuta subito, e che per questo gli aveva scritto così e così. E allora mi ha detto che anch’io poi, quando sarebbe venuto, se mi avesse domandato, per esempio, di quest’ammalata, dovevo far mostra di niente e dire che stava sempre lo stesso.

«E cosa mi avete detto stamattina? Che non vi si paga il salario?

«Sicuro. Son tre mesi che non prendo un soldo.

«E cosa vi dice la signora?

«Che adesso non ne ha, ma che ne aspetta. Quello che dice a tutti.

«Come a tutti?

«Ah signore, caro lei! L’è una roba che se la dura, io scappo, io scappo, io scappo! Tutti i momenti è qui l’uno, è qui l’altro, un mucchio di gente che vuol essere pagata: il padron di casa, il macellaio, il pizzicagnolo, il droghiere. E denari non ce n’è; e loro, si sa, la più parte sono gente senza educazione e ne dicon di tutti i colori. Io glielo dico, neh, perchè certe cose, le pare? è meglio...

Barbara lasciò la frase a mezzo per correr via in fretta col lume dietro a Cortis, che, curandosi poco delle sue conclusioni, le aveva voltato le spalle.

Egli tornò al mattino seguente e trovò sua madre alzata. Non le parlò più del passato; volle solamente sapere come avesse potuto dirigergli la lettera con tanta sicurezza a Villascura. Ella non nominò alcuno, ma asserì di aver sempre avute informazioni esatte sul conto del suo amatissimo figlio: di averlo sempre seguito col pensiero e col cuore. Gli parlò della contessa Tarquinia e di Villascura. Sapeva che la Villa Cortis era un gran palazzo squallido e aveva pensato tante volte quanto il povero Daniele vi si dovesse trovar male così soletto. Cortis la condusse a parlare del suo stato presente, delle sue necessità; ed ella gli raccontò un’iliade di guai. Ma cos’erano le privazioni, il bisogno, appetto all’angoscia della solitudine? Soffrire, sì, era giusto e anche gradito per chi aveva commesso, come lei, una colpa, una sola colpa: una colpa — se tutto si sapesse! — se tutto si potesse dire! — quasi involontaria; ma soffrire sola, segregata da ogni affetto, da ogni pietà! Non era più possibile; no, no, non era più possibile.

Ella versò a questo punto un fiume di lagrime. Cortis taceva.

«Stanotte... ho fatto... un sogno» disse la signora, lottando con i singhiozzi.

Cortis non fiatò.

«Troppo bello» mormorò l’altra socchiudendo gli occhi e lasciando spenzolar un braccio dalla poltrona.

«Troppo bello.

Scosse lentamente il capo inclinato sulla spalla sinistra e sospirò ancora:

«Troppo bello.

Cortis non desiderava proprio di conoscerlo.

«V’è un genere di miserie» diss’egli «che non deve toccarvi. A questo penserò io.

«Ti ringrazio» disse la signora «ti ringrazio.

Aperse la bocca ad altre parole, le richiamò con violenza al petto.

«Prego Dio» aggiunse dopo un breve silenzio «che mi accordi il favore d’esserti a carico il meno possibile. È Dio già che mi ha ispirato di mettermi a Lugano. Ho trovato proprio l’aria che mi ucciderà presto.

Daniele ebbe un bel dirle e ridirle che poteva cercarsi fra le Alpi e il Mare un’aria più benigna per i suoi nervi. Ella ripeteva, sempre più compunta, sempre più rassegnata, lo stesso tragico ritornello.

Se aveva sognato dopo tante vicende di tempeste e di sereno, rallegrarsi lo squallido pomeriggio con un raggio di sole, tramontar dignitosamente e placidamente nelle sale di Casa Cortis, sognava uno stolto sogno, la signora; e metteva pietà quel suo battere e ribattere di soppiatto, con volgare artificio, a una porta chiusa, sorda e muta.

Più tardi si parlò d’affari giù nel salotto terreno. Daniele volle saper l’ammontare dei debiti di sua madre e non fu così facile, anche perchè, secondo lei, neppure un quarto s’era veduto in casa della roba che i bottegai bugiardi avevano scritta. Intervenne, per fortuna di costoro, la Barbara, che aveva memoria migliore, e dopo un lungo battibecco ad ogni partita, ad ogni cifra, tra padrona e serva, Daniele potè conoscere, presso a poco, la verità.

Rimasto solo con sua madre le annunciò che sarebbe partito all’indomani e che fra pochi giorni le avrebbe mandato il denaro e fatto conoscere il modo in cui provvederebbe, per l’avvenire, alla sua esistenza. La signora Cortis gli chiese quando lo avrebbe riveduto. Questo, Daniele non lo poteva dire. Dipendeva da tante cose; dal successo della elezione politica, da altri suoi particolari interessi. Allora ella cominciò a dire, tutta gemebonda, che Daniele aveva ogni ragione di non volerle bene, che lei gli andrebbe in casa per serva, per guattera, ma che già non era degna di star sotto lo stesso tetto; no, no, non era degna.

«Non credo» diss’egli «che convenga nè a voi nè a me.

Sua madre tacque un momento e poi mormorò portandosi il fazzoletto agli occhi lagrimosi:

«Offro questo sacrificio alla Santissima Vergine.

Cortis andò sbuffando a pigliar aria sulla porta del salotto. Subito una voce flebile gli gemette dietro:

«T’ho offeso?

Egli fece le viste di non udire. Guardava fra i gelsi luccicanti il cancello aperto, la strada piena di sole, e, di là dal parapetto, il profondo lago sereno, le montagne cenerognole di Val Colla. Erano un ristoro, quell’aria pura, quel riso di vita innocente. Il treno di Milano passava allora tuonando, fischiando, sotto le pendici del San Salvatore.

Cortis guardò l’orologio e domandò a sua madre se sapesse l’ora esatta della prima corsa.

«Oh Dio» diss’ella, «a cosa pensi mai! Vien qua, Daniele, ti supplico» soggiunse dopo un momento. «È vero che io non posso parlarti come una madre; ma pure, tu che sei un angelo, mi permetterai di chiederti se vi è forse qualche cara e virtuosa fanciulla...

«No» disse Cortis senza voltarsi.

«Ah, ne sarei stata tanto felice!» esclamò la signora sospirando. «Ma già non lo speravo.

«Perchè?» domandò Daniele sorpreso.

«Oh niente. Così, per l’idea che non puoi trovarla, no, una donna degna di te!

Cortis saltò giù dalla soglia del salotto, si cacciò fra i gelsi e il granturco, fuori della vista di sua madre.

Costei strinse nelle pugna i due capi del fazzoletto bianco che aveva in mano e diede due così rabbiose gomitate al vento, che strappò la tela.

«Già in questo maledetto paese» fremè fra i denti «non ci sto di certo.

Detestava Lugano perchè si era innamorata, con i suoi cinquantadue anni, di un giovane medico, e questi, nauseato di tali affetti, non aveva più voluto saperne di visitarla. Si rizzò in piedi e, aperto un armadietto a muro, vi cacciò la mano, tracannò qualche cosa in furia e lo rinchiuse adagio adagio con l’occhio alla porta; poi brontolò fra sè: «Adesso glielo dico», e uscì in cerca di Daniele. Lo incontrò subito.

«Daniele» diss’ella, «abbi pazienza. Ho una grazia, una sola grazia a domandarti.

«Che cosa?

«Un po’ più lontano» sussurrò la signora dopo aver guardato su alle finestre aperte.

Entrarono sotto un pergolato a mancina della casetta. Cortis non pareva niente affatto curioso di sapere che grillo fosse saltato a sua madre, le camminava accanto guardando giù il treno girar via sul largo arco dei colli.

«Quella Villascura, Daniele!» diss’ella. «Quella Villascura!» Si fermò e si coperse il volto con le mani.

«Cosa, quella Villascura?» domandò Daniele, distratto.

«Vien via per amor del cielo!» esclamò sua madre. «Sta a Roma, sta a Udine, sta dove vuoi, ma non là!

«Perchè?

La signora abbassò gli occhi e rispose sottovoce:

«Non è possibile dirtelo.

«Allora...» fece Daniele, come se il discorso gli paresse chiuso.

«Non mi accontenti?» insistè sua madre.

Daniele non capiva.

«Ma come mai?» diss’egli.

Guardò l’orologio. Aveva pensato di scendere, a una cert’ora, all’albergo, per vedere se ci fossero lettere o telegrammi.

«Almeno» esclamò con subita passione la signora Cortis «non andare a casa Carrè!

Cortis aggrottò le sopracciglia: una vampa di rossore gli salì al viso.

«Perchè?» diss’egli con voce vibrante di collera. «Io andrò sempre a casa Carrè.

«Oh Daniele, almeno finchè ci sono i Di Santa Giulia, no!» In quel momento il viso e la voce della signora ebbero un lampo di sincerità.

«Va benissimo» rispose Cortis amaramente. «Dite al vostro corrispondente, qualunque egli sia, ch’è un bugiardo e uno stupido, e che quella signora e io siamo troppo al di sopra di lui e di molti altri, perchè questo veleno ci possa offendere.

Delle voci maligne n’erano corse a Villascura. Cortis lo sapeva.

«La signora?» domandò sua madre con un lampo negli occhi. «Non so niente della signora.

Cortis, che guardava da un’altra parte, voltò la testa con impeto, le piantò gli occhi in viso, aspettando che si spiegasse meglio. Ma ella non parlò più.

«Dunque?» proruppe Cortis.

«Niente» rispose l’altra con un gran sospiro.

Cortis insistè.

«Cosa mai vi hanno scritto?» diss’egli.

Sua madre gli posò una mano sulla spalla e con l’altra si battè la fronte, dicendo:

«È scritto qui, nessuno mi ha scritto. È una cosa scritta qui.

Daniele perdette la pazienza.

«Parlate chiaro» diss’egli. «Lì non so leggere.

«S’io parlassi chiaro» sussurrò la signora Cortis mettendogli il viso addosso con tanto d’occhi spalancati e scotendo in aria l’indice della mano destra «tu proveresti un rimorso eterno di avere stretta la mano scellerata (quell’indice teso andò su su verso il cielo) di lui!

«Cosa ha fatto?» disse Daniele sorpreso.

Ella giunse le mani, mise un lungo gemito per le labbra strette, e, data una giravolta in fretta, corse via a capo basso, raccolse, presso lo scalino della porta, le sottane in due bracciate, e saltò in casa.

Daniele la seguì, ma ella, prima ancora d’essere interrogata diede in ismanie, lo supplicò di non chiederle nulla, promise che in un momento più tranquillo avrebbe parlato. Intanto lui doveva togliersi da Villascura, andar lontano, ben lontano.

«Io spero» diss’ella «che ti facciano deputato, che tu ti stabilisca a Roma. Allora ci vengo anch’io a Roma. Roma è la città dell’anima mia. Oh se potessi morire a Roma! Là ti vedrei spesso, almeno dalle tribune della Camera. Non è vero, Daniele?

«Cosa ha fatto Di Santa Giulia?» diss’egli.

«Ma, Dio!» rispose la signora. «Perchè mi vuoi tormentare? Del resto, è impossibile che tuo padre non te ne abbia mai parlato.

«Sì, so che lo ha conosciuto in Piemonte quando emigrò per entrare nell’Accademia militare, che gli era stato raccomandato da un medico siciliano, ma che non veniva quasi mai in casa nostra, che non era un cattivo soldato, che giuocava molto, però, e non studiava punto.

«E l’hanno fatto senatore?» susurrò la signora parlando a sè stessa.

«L’hanno fatto senatore subito dopo il suo collocamento a riposo, perchè si voleva un senatore di quella provincia e lui possedeva un bel nome, un bel grado militare e molti appoggi in alto. Non sarà mica questo il suo delitto? Mio padre non m’ha detto altro. Cosa poteva dirmi?

«Niente, niente, non poteva dirti altro.

Cortis si strinse nelle spalle, tacque un poco, guardò l’ora per la seconda volta e disse:

«Vado.

Sua madre non desiderava che la finisse così liscia.

«Parti domattina colla prima, non è vero?» diss’ella. «Alle sei?

«Sì.

«Spero bene che ti fermerai qui un pezzo ancora.

«Sì, sì» rispose Cortis, distratto, cercando il suo cappello.

«Allora parleremo stasera.

Parve che queste poche parole costassero già un doloroso sforzo alla signora Cortis che piegò, nel pronunciarle, il capo sul petto e chiuse gli occhi.

Daniele si fermò prima d’uscire, a considerarla. Adesso che gli occhi falsi non si vedevano, che non si udiva la voce ingrata, sentì per un momento quanto gli avrebbe potuto essere cara. E subito un lampo nella memoria gli mostrò suo padre ginocchioni che diceva un requiem per la povera mamma.

«Era meglio!» esclamò afferrando e levando in aria il cappello.

La signora drizzò il capo spaventata.

«Cosa?» diss’ella.

«Niente» disse Cortis, e corse via senz’altro.

La Barbara gli aperse il cancello e gli disse sottovoce:

«La padrona non vuol credere, ma della roba se n’è così consumata, sa! Solo tutte le costolette fresche che si tien la notte sulla faccia!

All’Hôtel du Panorama era arrivato pochi minuti prima di Cortis, questo telegramma dal capoluogo del suo collegio elettorale:

 «Daniele Cortis

 «Lugano — Hôtel du Panorama.

«Stampa avversaria pubblica tua lettera privata accusandoti appartenere partito clericale. Grande impressione. Domani seguirà qui adunanza elettorale ore una pomeridiana. Vieni o rispondi telegramma da pubblicarsi. Spedisco giornali.

«B.»

Il prossimo treno per Milano partiva fra tre quarti d’ora. Cortis buttò giù precipitosamente un biglietto alla madre e la seguente risposta telegrafica al signor B.:

«Sarò costì domattina alle 11 ½

«Cortis.»

Quindi raccolse in furia la sua roba e arrivò alla stazione mentre i viaggiatori salivano in treno.

«Fertig!» gridò il conduttore.

Cortis non aveva pensato, fino a quel momento, che a non perdere il treno. Appena entratovi, si vide nella sala dell’adunanza elettorale, in faccia ad amici atterriti e accigliati, fors’anche ad avversari beffardi, solo, assalito con armi sue proprie, con parole che non conosceva ancora ma certo scritte da lui, chi sa dove, chi sa quando, ma certo sincere, non disposto a nessun sotterfugio mai, a nessuna ritrattazione, a nessuna viltà, costretto a dar battaglia con una bandiera nuova, in altro tempo e in altro luogo che non avrebbe voluto. Vide tutto questo e sentì insieme affluirsi al cervello e al petto un’onda di fuoco vitale, si sentì lo spirito più potente che mai, e sdraiandosi con certa noncuranza leonina sul sedile di velluto rosso, rispose mentalmente al conduttore:

«Va bene, pronto!

Passando sul ponte che cavalca la stradicciuola di Pazzallo, corse un istante col pensiero quella via nota, ma non arrivò lassù sulla casetta dal cancello rosso, dove pure avrebbero dovuto, fra poche ore, spiegarsi delle parole strane, scoppiar delle accuse lanciate in aria. Il suo pensiero tornò subito alla via di ferro che lo portava alla meta.

Intanto le acque di levante, nere di vento, si allargavano, si allungavano fin laggiù alle radici lontane della nota roccia dolomitica che usciva lentamente dietro agli altri monti e si scopriva in faccia a Cortis tutta intera, sino alla punta formidabile, come un esempio di audacia che sta.



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