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CAPITOLO XXII.
Come gli astri e le palme.
Non fu possibile a Cortis ed Elena rimaner soli, prima del pranzo, neppure un istante. Elena uscì in giardino pensando che Cortis ve l’avrebbe raggiunta; ma Cortis credette leggere un sospetto, un’attenzione insolita negli occhi del conte Lao, ancora torbido; e non si mosse. Le ne disse il perchè con gli occhi quand’ella rientrò delusa, trepidante come se temesse un abbandono. Non soffriva meno, lui; ma era padrone di sè. Elena invece non sapeva più dominarsi; allegò un forte dolor di capo. Parlò pochissimo, e mai a Cortis; ma lo guardava troppo spesso, con gli occhi pieni di fuoco triste.
Il caffè fu servito in loggia. La contessa Tarquinia propose una trottata in Val di Rovese. Avrebbe fatto bene anche a Elena, secondo lei. Clenezzi domandò se si sarebbe raggiunto il confine austriaco. No, era troppo lontano per andarvi dopo pranzo. Al confine si poteva andare lunedì o martedì, partendo la mattina. Elena posò con mani tremanti la sua tazza di caffè.
«Mi rincresce» diss’ella, «ma forse martedì devo andare in città. Anzi vi pregherò, se vado, di darmi i cavalli.
Suo zio e sua madre non capivano perchè dovesse andare proprio martedì. Elena rispose escludendo il forse di prima, affermando la necessità di questa corsa senz’addurne ragione alcuna. Aspettava con ansia una parola di Cortis, un eccitamento a differire. Non venne; Cortis s’era voltato a guardare le praterie.
«Allora» disse la contessa dopo un po’ di riflessione «potrete andare mercoledì.
Ma Elena non prometteva di tornare dalla città prima di mercoledì sera. Pensò che, se partisse, la sua famiglia non dovrebbe sospettar di nulla fino a quando ella non fosse in mare. Lao si stizzì.
«Che affari hai?» diss’egli.
La contessa s’interpose subito, osservò che si poteva differire a giovedì. Qui il senatore Clenezzi mise in campo, con molte cerimonie, le sue ragioni di lasciar Passo di Rovese martedì. Esclamazioni. In quel punto il landeau, scrosciando sulla ghiaia, venne a fermarsi davanti alla loggia, troncò il dialogo.
Si voleva che il conte Lao salisse in carrozza con Elena, Clenezzi e Cortis, ma il conte rispose che di pazzie ne aveva fatte abbastanza, quel giorno. Cercavano di mandarlo all’altro mondo?
«Senti, piuttosto» diss’egli ad Elena. La prese a braccetto, le sussurrò all’orecchio che, al ritorno, salisse da lui: le doveva parlare.
La contessa Tarquinia prese, in carrozza, il posto di suo cognato. Elena e Cortis erano seduti a fronte. Sulle prime la contessa cercò tener vivo il dialogo, ma con poco frutto. Gittava delle occhiate inquiete a Elena e anche a Cortis. Non parlavano mai; cosa avevano? Finì con ammutolire anche lei.
La carrozza correva lungo una delle selvagge pareti giganti fra cui scende il Rovese. Quante volte Elena e Cortis non avevano fatta quella strada! Pochi giorni prima n’erano calati al fiume per un viottolo dov’essa aveva dovuto talvolta appoggiarglisi tutta. Passando di là si guardarono, si ricordarono l’un l’altro, tacitamente, quei momenti felici. Si guardavano con pochissima prudenza, oramai. Quel correre silenzioso nell’ombra, fra montagne enormi, verso paesi reconditi, li faceva sognare, dimenticar tutto che non fosse la passione. Non udirono neppure la voce di Clenezzi che domandò loro il nome di due squallide torri in rovina, sedute sugli scogli di là dal Rovese a guardar giù la ghiaia bianca. La contessa Tarquinia rispose per essi.
Al ritorno la contessa fece fermare presso il ponte della Pria. Bisognava scendere, mostrare a Clenezzi, dal ponte, le casupole accoccolate per i macigni sullo sfondo pittoresco della gola, e, abbasso, lo spacco dove va, chiusa, l’acqua verde, potente, a spandersi poi giù verso i prati, in un largo clamor di spume. Elena si appoggiò al parapetto, fissando le rocce appassionate, tragiche. Cortis le si piegò vicino.
«Per parlarci» sussurrò, «se non possiamo stasera, domattina alle sei in loggia.
E raggiunse Clenezzi all’altro parapetto.
Anche questo tormento, pensava Elena, di non poterci parlare, di non poter stare insieme liberamente! Bisognerebbe proprio aspettare fino all’indomani?
Appena tornata a casa salì dal conte Lao. Sulle scale ricordò quell’altra sera in cui era salita dallo zio dopo le parole misteriose di Daniele: «Una cosa grave.» E adesso!
Il conte Lao era ancora molto scuro. Sdraiato nella sua poltrona, teneva sulle gambe una coperta di mal augurio. Girò appena il capo a salutar sua nipote.
«Son qui, zio» diss’ella.
«E son qui anch’io e avrei fatto meglio a non muovermi mai. Con quell’aria, con quell’umido d’oggi, sento che mi son tornati tutti i miei malanni. Me lo merito. Ho voluto fare il bravo e sono il caval di Gonella. Ma questo non importa. Ho anche un dispiacere.
«Che dispiacere, zio?
Era una gran fatica per Elena di stare attenta a quel che egli diceva, di pigliarvi interesse.
«Ho avuto una lettera da Roma, oggi» rispose il conte. «Un biglietto della Cortis che mi accompagna questo foglio qui. A te; leggi.
Elena prese il foglio, si fece alla finestra per leggerlo. Era una lettera dell’arciprete alla signora Cortis, in cui si parlava molto dei frequenti passeggi di Cortis con Elena, dei commenti che se ne facevano in paese. Il signor arciprete non voleva pronunciar giudizi temerari, ma deplorava lo scandalo e la nessuna cura di evitarlo. Egli avrebbe voluto parlarne con qualcuno della famiglia, ma non l’osava; preferiva rivolgersi a lei che forse avrebbe avuto mezzo di far qualche cosa. La signora chiedeva al conte Lao, nel suo biglietto, se fosse persuaso, adesso, di quanto gli aveva detto a Roma.
«Quell’asino intrigante non porterà più i piedi qua dentro» disse Lao «ma...»
Elena, che leggeva ancora tenendo la lettera a due mani, la sbattè giù a mezza persona, si eresse fieramente.
«Ma cosa?» diss’ella.
«Ohe!» fece Lao. «Bambina! Calma!
«Nessuna calma! Cosa vuoi dire?
«Cosa voglio dire?
La considerò in silenzio, poi le stese la mano. «Senti, Elena.
Ella non si mosse nè rispose. Egli le accennò allora col capo di avvicinarsi, le ripetè con dolcezza:
«Senti.
Ella venne lenta, riluttante. Ci volle un altro silenzioso invito perchè prendesse la mano stesale.
«Insomma» esclamò il conte dopo un breve indugio «fino a stamattina sono stato cieco, ma poi no.
Elena non arrossì, non abbassò il viso.
«E cos’hai veduto?» diss’ella fremendo. «Hai veduto il mio cuore? Il cuore è libero. Hai pensato delle cose cattive?
«Ho pensato che col tuo carattere tu soffrirai, ti tormenterai Dio sa quanto; e ho pensato che Daniele fa molto male di attaccarsi a te. Diavolo! malissimo!
«Non devi dir questo, zio; non devi dir questo!» proruppe Elena, piegandosi, tutta anelante, a suo zio. «È tanto nobile, sai, zio mio! È tanto...
Non potè soggiunger parola. Si sentiva soffocare.
«Lasciamo stare, cara» rispose il conte. «Non dico mica che non sia nobile. Credo. Capisco benissimo quel che vuoi dire, ma son cose che cominciano sempre così, sai, fra gente come voi, e finiscono poi come fra gli altri che non sono nobili. Gli uomini sono uomini. Lui è migliore di tanti altri, ma è di carne ed ossa anche lui. Io non credo nè ad angeli nè a santi, lo sai bene. Se ci fosse il divorzio avrei preso moglie anch’io. E non l’avrei cambiata mai! E sarei stato felice! Ma il divorzio non c’è, e tu non hai voluto che quell’altro... Quella è stata una bestialità! Basta, non ne parliamo più. Adesso c’è da pensare all’onor tuo e della famiglia.
«Se è nelle mie mani è in buone mani» rispose Elena fieramente, strappandosi da lui per uscire. «No, no» soggiunse perchè la richiamava. «Non dovevi dirmi questa parola, tu.
Presa da un singhiozzar convulso, senza lagrime, appoggiò la fronte allo stipite della porta. Lao buttò via la coperta, si alzò per andar da lei; ma ella fece l’atto di respingerlo col braccio teso, senza volgere il capo.
«Mi passa subito» disse. «Mi passa subito. Sta quieto.
Ma Lao non poteva star quieto. Un po’ si rimproverava, un po’ si rammaricava, spiegava le proprie parole. Non aveva voluto dire ch’ella potesse disonorarsi.
«Se me l’avesse detto la mamma» mormorò Elena dolorosamente «sarebbe niente; ma tu, zio!
«Ma io» rispose Lao «parlavo del mondo, dei suoi giudizi, dell’andar per le bocche della gente.
«Oh, il mondo!
Non vi poteva essere, nella voce di lei, maggior dolore, maggior disprezzo.
«Cara mia» disse Lao, piccato. «Io sarò uno stupido, ma la buona e la cattiva fama sono sempre state qualche cosa. E se una signora ha l’aria di condursi male e la sua famiglia ha l’aria di essere compiacente, capisci!
Gli occhi di Elena lampeggiarono.
«Io non ho l’aria di condurmi male» diss’ella.
«Se, dico! Se ha l’aria!
Elena lo guardò ancora. Cosa potè vedere in quel caro viso serio, serio, mortificato? L’espressione del suo venne rapidamente mutando.
«Oh zio, zio!» diss’ella, e gli si slanciò nelle braccia. «Tienmi qui con te, sempre con te! Non ho niente, sai, da rimproverarmi, neppur un pensiero!
Lo stringeva, lo stringeva, parlava con voce rotta da singulti.
«Per amore del Cielo!» esclamò il povero Lao, commosso, spaventato. «Cosa ti pensi? Che ti voglia mandar via? Cosa ti pensi? Matta che sei!
Si mise a ridere forte nervosamente.
«Matta che sei! Non sai che non ci ho che te, al mondo? Cosa ti pensi? Ma no, cara, ma quietati. Cosa vuoi? Mi faceva una gran pena che tu ti trovassi in una condizione da soffrire; sai, cara? Lo so bene che non hai niente a rimproverarti. Non avevi bisogno di dirmelo. Ma quietati, via, quietati.
Se la serrava al petto, le accarezzava i capelli con tenerezza materna.
«Adesso va» disse. «Va a far le mie scuse col senatore. Digli che non scendo perchè non sto bene; che vado a letto presto. Guarda se volesse far due passi con te e con Daniele. Potreste andar giù al ponte di Rovese che lui non v’è ancora stato.
Adesso, solo adesso, al suono della voce mite, cadevano le lagrime ad Elena.
«Va, va» insisteva Lao, dolcemente. Ella non si moveva, pareva che non udisse. Suo zio intese che non volesse uscire così turbata, che aspettasse di ricomporsi.
«Si è divertito, Clenezzi» diss’egli «alla trottata? Fino a dove siete andati?
Elena gli abbassò il viso sul petto.
«E la mamma?» mormorò.
«Cosa, cara?
«La mamma? Lo sa di questa lettera?
«No, cara. Io non le ho parlato di sicuro.
Tacquero un momento. Poi Lao tornò a dire che oramai doveva proprio andare. Ella alzò il viso, gli sorrise, gli baciò, rizzandosi sulla punta dei piedi, le guance, e uscì.
Si trascinò a fatica nella sua cameretta. Si sentiva talmente male, talmente spossata! Cadde sul letto e vi giacque come morta, bevendo a sorso a sorso anche quest’altro dolore, che il suo segreto non era più suo.
Entrava dalla finestra il vento fresco della sera, l’odor delle rose e del glicine, la ruvida voce dolente del fiume. Dal fogliame agitato delle rose traspariva un chiarore caldo; la camera era quasi scura. Altro non vi si moveva che l’ombra delle foglie inquieta sul pavimento; altro non si udiva che il correr trepido di un piccolo orologio invisibile. Elena sognava ad occhi aperti: era malata e non poteva muoversi dal letto; egli veniva a tenerle compagnia, a leggerle. Passavano mesi in questo stato, passavano anni ed ella diceva a sè stessa: «Vedi come sei cattiva? Tu non credevi che il Signore si occupasse di te, ed egli è stato invece tanto buono con te.» Ecco, Daniele era lì seduto accanto al letto, leggeva con la sua bella voce grave, la guardava ogni tanto, le sorrideva, le posava pian piano le labbra sui capelli; ah! Stese le braccia, lo chiamò sottovoce:
«Daniele! Daniele!
Non rispondeva che il rombo del fiume, come un pianto delle cose nella solitudine.
Intanto si faceva sempre più scuro; attraverso il fogliame delle rose si vedeva tremare una stella.
Quando Elena se n’accorse, si rizzò sbigottita a seder sul letto. Che ore erano adesso? Da quanto tempo giaceva lì? Non ne sapeva niente, come se uscisse da un sonno profondo. Forse era tardi, forse non potrebbe più veder Daniele. Il capo le ardeva, le doleva forte, ma che importava? Si ravviò in fretta i capelli, a caso, perchè non aveva lume; e discese. Sulle scale incontrò sua madre che veniva in cerca di lei, credendola ancora presso suo zio.
«E il tuo mal di capo?» diss’ella.
Elena rispose che lo aveva ancora, che sarebbe probabilmente andata a letto presto. Le gambe le tremavano, discendendo; non le sentiva quasi più. Dovette afferrar il cordone lungo la parete. Cercava intanto raccapezzarsi sul colloquio avuto collo zio: la sua testa era così confusa! Si ricordò, le tornò un lampo di sdegno, un lampo, con lo sdegno, di vigore.
In sala non c’era nessuno. Cortis e Clenezzi erano in giardino sui sedili di ferro verso il cipresso. La contessa Tarquinia non capiva come si potesse affrontar quel vento. Soffiava forte, ora, muggiva negli abeti. Ma Elena ne aveva bisogno, e uscì mentre Clenezzi rientrava. Egli tentò trattenerla, e, non riuscendoci, voleva tornar fuori con lei, ma la contessa gli disse: «Lasci andare i matti» e lo tenne seco.
Elena e Cortis stettero un momento senza respiro, attendendo che Clenezzi tornasse fuori, che la contessa venisse a chiamarli. La udirono ridere in sala, allontanandosi. Allora Elena afferrò la mano di Cortis.
«Hai visto?» diss’ella.
Era scuro, oramai, e dalla sala non potevano esser veduti. Cortis, per tutta risposta, sciolse con impeto la propria mano, ne cinse la spalla di lei, la piegò a sè.
«Non vado mica via, sai» sussurrò Elena con voce morente, cedendo. «Non vado, non posso. Sto qui vicino a te, sempre vicino a te, sempre.
Egli rallentò la stretta, non ebbe una parola, non un atto di gioia, non uno slancio d’affetto.
«Oh Signore!» esclamò Elena affannosamente, rialzandosi. «Parlami, Daniele; dimmi tu, allora, quel che devo fare. Tutto quello che tu vuoi, tutto, tutto! Io non posso più neppur pensare.
«Insomma» gridò la contessa Tarquinia, aprendo la porta della sala, «volete proprio pigliarvi un malanno?
«Veniamo subito, zia» rispose Cortis.
In quel momento entrava in sala, dalla parte opposta, la solita compagnia del tresette. La contessa si allontanò.
«Dunque?» disse Elena.
Cortis le strinse le mani silenziosamente.
«Adesso no» diss’egli poi. «Adesso non c’è tempo di parlare. Domattina, non è vero? Alle sei, in loggia.
Ella non rispose, tremava da capo a piedi.
«Vorrei dirti una cosa sola, adesso» riprese Cortis. E aggiunse a voce più bassa:
«Vi è Uno cui domandar consiglio prima che a me.
Anche la voce sua tremava un poco. Elena scosse il capo in silenzio; egli le posò le labbra sulla fronte e disse piano piano, rialzandole:
«Prega.
Ella si coperse il viso con le mani.
«Lo sai» riprese «che non ho mai potuto pregare come te.
«Prega ora» rispose Cortis.
Elena tacque, poi gli gittò di slancio le braccia al collo, gli posò la fronte sul petto.
«E tu» diss’ella palpitante «credi proprio di cuore a quello cui vorresti far credere anche a me?
«Sì» rispos’egli tranquillamente, «ci credo di cuore.
«E se credo per amor tuo» proseguì Elena, «merito che il Signore accetti una fede così?
«Ma sì, ma sì!
Elena staccò le braccia dal collo di lui, alzò il viso e disse soavemente:
«Pregherò, sai. Sei contento?
Vi fu un silenzio solenne. Elena guardava sorridendo l’amico suo che non le poteva rispondere per l’emozione. Tacevano e tremavano sentendo il Padre loro dentro a sè nell’ardor dello spirito, sopra di sè nello scintillar delle stelle gloriose.
«Bisogna entrare, adesso» disse Elena. «Domattina alle sei. Addio.
Attraversò in fretta la sala e scomparve per lo scalone, mentre Cortis andava a farsi vedere nella stanza del piano dove si giuocava, si chiacchierava, si rideva. Egli vi si trattenne alquanto e poi si avviò agli abeti. Là, appoggiato al vecchio abete dei rami cadenti, richiamò avidamente le parole «pregherò, sai, sei contento?» vi si immerse con febbrile piacere, esaltandosi nel pensiero di quell’amor sublime ch’era suo, nel pensiero che Dio li aveva presi, Elena e lui, per sempre, che gli erano più vicini, l’uno e l’altra, che la loro unione aveva oramai qualche cosa di santo e di eterno, per cui il dolore e la morte non la potrebbero sciogliere. Pensava così, ebbro di una felicità fiera e sicura da qualsiasi vicenda terrena, ciecamente convinto che Dio gli dicesse: «Tu hai l’anima sua, avrai lei nell’altra vita. Io volli questo frutto dell’amore che v’ispirai. Ora ch’ella parta, e tu, temprato da un valoroso fuoco, va, combatti, soffri ancora, sii nobile strumento, fra gli uomini, di verità e di giustizia.» Le stelle, le montagne, i grandi abeti severi gli erano testimoni ch’egli rispondeva: «sì, lo sarò.
Tornò passo passo verso casa, verso il lume della sala che luceva lontano in capo alla strada diritta, al portico, alla loggia, come un occhio di fuoco in capo ad un cannocchiale puntato da lui, Cortis. Elena stava forse pregando, lassù, nella sua camera. Andò a sedere sotto la finestra di lei, verso il cipresso, vi rimase fino a mezzanotte quand’ella spense il lume.
Il mattino vegnente Cortis uscì di camera, adagio adagio, alle cinque e tre quarti. Il domestico che dava ordine alla sala gli disse sottovoce: «alzato presto, stamattina, il signor Daniele!» L’aria fresca, vitale, entrava da tutte le porte spalancate. I capineri cantavano sul cipresso.
«S’è alzato nessuno?» disse Cortis.
«Nessuno.
Si fermò un momento ad ascoltar gli uccelli, a guardare, sul cipresso, il verde chiaro, i bei grappoli celesti delle glicine tremanti al vento nell’ombra pura del mattino; e lassù verso il cielo le rupi del Corno Ducale tutte infocate dal sole. Anche i denti grigi del Rumano e tutta la lunga costa del Passo Piccolo in faccia alla loggia aveva il sole. Cortis sedette lì sul canapè rustico di fianco all’entrata della sala, aspettando.
Suonavano le sei a Villascura quando Elena, tutta chiusa in uno scialletto nero, apparve sulla porta. Cortis si alzò. Si strinsero la mano, gravi, a lungo, senz’altro saluto. Ella era pallida, ma aveva un viso più quieto, degli occhi meno torbidi che la sera precedente. Cortis le disse in francese che lì non potevano stare; il domestico passava ogni momento, in sala, davanti alla porta. S’incamminarono verso il porticato. Una vecchia, ferma sull’entrata della stalla, li salutò; anche laggiù agli abeti si vedeva gente. Svoltarono fuori del portone, a sinistra, per la strada che scende a Passo di Rovese. Lì non c’era anima viva. Adesso Elena tremava, non osava neppur guardare l’amico suo che era per parlarle, finalmente. Rallentò il passo.
«Passiamo il Rovese?» diss’egli piano, rispondendo, quasi, all’atto di lei. «La saremo più liberi.
Elena assentì del capo, gli chiese muta il braccio, vi si appoggiò, lo serrò forte, stringendo le labbra, guardando diritto davanti a sè.
«Addio» sussurrò Cortis. Ella gli serrò ancora il braccio.
«Penso così anch’io, sai» gli disse.
«Come, cara?
Elena fece ancora qualche passo e rispose:
«Come te.
Non era una voce, era un alito leggero; non eran le labbra, era l’anima che aveva parlato così.
E ancora ancora si strinse al braccio, con maggiore passione che mai.
«Oh Daniele!» mormorò.
«Sii forte» diss’egli, accorato. «È il nostro dovere.
«Sì, sì, è stato un momento; perdonami! Sono tanto più tranquilla di ieri. Mi sono donata tutta al Signore, sai.
Erano giunti alle prime case; ora non parlarono più sino al greto deserto del fiume.
«Ho fatto il sacrificio, oramai» diss’ella. «Mi sento consolata. Ho qualche momento, così, di spasimo, ma passa subito. Ieri sarei stata contenta di morire pur di non andar via; adesso no. Sai perchè?
Non attese la risposta, soggiunse, a voce più bassa, piegando il viso:
«Perchè sono stata cattiva, sai, incredula orgogliosa per anni e anni. Ho bisogno di soffrire. Allora il Signore mi perdonerà; non è vero? Ho tanta paura anche adesso, di non credere come te, di credere solo perchè voglio bene a te. Se fosse così, Daniele, cosa mi succederà nell’altra vita? Potrò andare anch’io dove andrai tu? Oh Signore, tu sarai tanto in alto!
Egli negò con uno slancio del cuore sincero, con gli occhi ardenti.
«Tu sei umile» disse, «tu sei santa.
«Sono umile col Signore e con te» rispose Elena, «ma con gli uomini no. Ho paura di non poterlo esser mai.
«Ed io? esclamò Cortis.
No, neppur egli, fiero dispregiatore d’ogni volgo arrogante, fiero soltanto nelle idee, neppur egli era umile con gli uomini.
Elena tacque.
«Ed il sacrificio che fai?» rispose Cortis.
«Questo lo facciamo tutt’e due» diss’ella, «e se non eri tu, io sarei stata vile. Restavo qui.
Avevano passato il ponte di legno sul Rovese e presa la stradicciuola che piega a sinistra fra un limpido canaletto e la costa sfranata del monte nudo. Elena si fermò, sciolse dolcemente il braccio suo da quello di Daniele. «Ho un’altra cosa sul cuore» diss’ella. «Credevo di non dovertela dire. Non so ancora se faccio bene, ma non posso tacere, mi parrebbe una slealtà verso di te, in questo momento.
Cortis, sorpreso, le domandò come mai potesse credere di dovergli tacere qualche cosa. Ella pensò sentire nella sua voce un rammarico, gli afferrò subito il braccio, si strinse a lui, gli disse con tenerezza, con angoscia:
«Non è mica una cosa mia, sai. Non potrei tacerti niente di quello che è mio.
Non proseguì se prima Cortis non le ebbe detto che le credeva.
«È una cosa terribile, vedi. Se tu la sapessi, forse non mi daresti il consiglio di andar via. È per questo che mi pare di dovertela dire.
«Una cosa terribile?
Elena prese la viottola che cala al fiume là dov’è reciso da un gran sostegno di pietra, e fatti pochi passi cadde a seder sull’erba.
«Si tratta di tua madre» diss’ella.
«Cosa è accaduto?» chiese Cortis.
«Nulla, ora; ma tanti, tanti anni addietro... Oh Daniele, adesso mi pento, non vorrei dirtelo!
Tacque, piegò il viso sulle ginocchia. Cortis le sedette accanto, le accostò le labbra all’orecchio.
«Non parlare» diss’egli.
«E se faccio male?» rispose Elena.
Egli ripetè, più forte stavolta, quasi supplichevole:
«Non parlare!
«Vorrei» mormorò Elena «che il Signore m’ispirasse.
Cortis si chinò ancora all’orecchio di lei.
«Alessandria?» diss’egli sottovoce, «1855?
Elena girò a lui il viso stupefatto.
Egli la guardava pallido, con un dito sulle labbra.
«Lo sapevi?» diss’ella.
Non rispose.
Ella si fece grave, grave, cinse d’un braccio il capo di lui, lo piegò a sè, sfiorò, con le proprie labbra, le sue.
Fu un suggello di silenzio. Ella gli prese una mano, se la tenne in grembo, l’accarezzò guardandolo, cercando il suo sguardo. Ma lui taceva, smorto, fitti gli occhi nella corrente ombrosa ai suoi piedi. Stettero così a lungo. Finalmente Elena gli sussurrò umile umile: «mi perdoni?» Egli le posò la mano sul capo, un momento. Subito dopo si alzò, le propose di andar sul macigno proteso del fiume, di fianco al sostegno di pietra. Sedettero là nel rombo dell’acqua che traboccava in un tremolo arco vitreo dall’orlo del sostegno alla spuma sonora, e correva via tutta gorghi e fremiti verso il sole. Là davanti la valle aperta era tutta una luce, un verde giù fino al cielo.
«L’ultima volta!» disse Elena.
Cortis le domandò a che ora partirebbe. Certo per tempo dovendo trattenersi alcune ore in città prima di partire per Venezia. Avrebbe voluto prendere il treno delle dodici e mezzo. Questo aspetto pratico delle cose, queste cifre trapassavano il cuore ad ambedue.
Gli occhi d’Elena si velarono. Lottò, lottò angosciosamente, ma due lagrime le tremavano sul ciglio.
«Daniele» diss’ella «ci vedremo più?
«Dio è buono» rispose Cortis, gravemente.
Le due lagrime caddero silenziose.
Ci vollero alcuni istanti prima ch’ella potesse pronunciare una timida parola:
«E scrivere?
Cortis esitò un poco;.
«Non vedo ragione di non farlo» diss’egli. «Solamente ho pensato che sarà meglio compiere il sacrificio, scrivere come amici.
«Sì, sì» rispose Elena con un gelo nella voce e nel cuore, «certo come amici.
Le pareva una cosa tanto dura, ma l’aveva detto lui: bastava. Lo pregò quindi di trascrivere l’iscrizione latina della colonna. Rispose che gliela trascriverebbe e anche delle altre parole latine; d’un santo. Le prese le mani, le disse all’orecchio:
«Sono sposi senza nozze, non con la carne ma con il cuore. Così si congiungono gli astri e i pianeti, non con il corpo ma con la luce; così si accoppian le palme, non con la radice ma con il vertice.
Ebbro delle parole sublimi, le ridisse forte al cielo, alle montagne, al fiume rumoreggiante:
Innupti sunt coniuges non carne sed corde. Sic coniunguntur astra et planetæ, non corpore sed lumine: sic nubent palmæ, non radice sed vertice.
Ardeva nel viso e nel cuore. La sua voce potente parve prolungarsi nel fragor del fiume, dominar la sorte ed il tempo.
Elena gli domandò poi come dovesse comportarsi con la mamma e con lo zio. Le era dolorosissimo di dover partire così, senza commiato, con un inganno; ma non era possibile fare diversamente. Bisognava lasciare una lettera, un saluto, qualche cosa, ed ella non si sentiva la forza di scrivere: perchè poi avrebbe avuto tante cose a dire! Raccontò allora il suo ultimo colloquio con lo zio. Avrebbe pur voluto fargli sapere quanto si fosse ingannato col suo scetticismo riguardo a Cortis. Questi ne la sconsigliò. Non doveva alludere in nessun modo a lui. Non doveva far credere allo zio che le sue parole, i suoi sospetti le avessero data l’ultima spinta alla partenza. Sarebbe bastato, per ora, mandar poche righe da Venezia e riservarsi di scrivere a lungo da Yokohama.
Elena chinò la fronte.
«Farò così» diss’ella. «E tu?» soggiunse dopo un istante.
«Io parto domani sera. Vado a Roma.
Ella godeva che tornasse al suo posto di combattimento, ma pure le parve che lo schianto di lasciare il suo paese, la sua casa, fosse più forte, perchè andava via anche lui.
«Mi scriverai tutto» disse, «delle tue battaglie, delle tue vittorie.
Cortis rispose che non ci potevano ancora essere vittorie, per le sue idee. Neanche vere battaglie. Non c’era che da cominciare l’insurrezione con della gente deliberata di farsi schiacciare.
Un’altra domanda venne sulle labbra d’Elena:
«E a Roma?...
Non osò proseguire.
«Provvederò» diss’egli indovinando; «ma vivere insieme, no; basta.
Era tempo di tornare a casa. Anche quest’ora di effusione, quest’ora dell’ultimo giorno era trascorsa, e la vita non ne aveva forse più per essi un’altra così.
Tornarono per la romita strada lungo il canaletto, adagio adagio, in silenzio. Presso al ponte dove la Posèna e il Rovese uniscono le loro acque, Elena ricordò un discorso fatto da lui tempo addietro sui due fiumi che si sentono da lontano e non si vedono, si cercano nella furia dell’amore, si scoprono, si precipitano l’uno all’altro, si uniscono con tempestosa gioia, sereni.
«È stato sul ponte» diss’ella, «il 12 giugno, fra le nove e le dieci del mattino.
«E tu non hai detto niente. Guardavi da un’altra parte. Non pareva neppure che ascoltassi.
Elena si fermò sull’erta del ponte, guardando il sentiero a sinistra, lungo il fiume.
«Vado via senza sapere tante cose di te» diss’ella amaramente.
Cortis le porse la mano senza parlare, l’aiutò a passare la palancola gittata sopra una gora tra il ponte e il sentiero.
«Sono due» sussurrò Elena, «le cose che vorrei sapere.
Egli la fece sedere sul tronco d’un pioppo caduto, attraversato al margine verde; aspettò che parlasse.
«Vorrei sapere» diss’ella con voce incerta «se hai amato... prima.
«Ho amato te da ragazzo» rispose Cortis. «Poi non ci ho pensato più per molti anni. In quel tempo ho bevuto del fango assai, perchè ero violento, allora, in tutto. Ho creduto d’essere innamorato otto o dieci volte. Non era vero, mai. E dopo?
«Dopo... vorrei sapere... quando...
Ella abbassò il viso sul petto, non disse altro.
«Quando ho incominciato ad amarti? Non lo so bene. Mi era parso tante volte di amarti, e poi mi era parso che non fosse vero. Fu l’ottobre dell’altr’anno, dopo la tua partenza, che m’avvidi di non poterti dimenticar più. Tu sei tornata in maggio. Allora!...
Un palpito violento gli sollevò il petto, gli ruppe la parola.
Ella sapeva, oramai.
Si alzò, prese il braccio di Cortis, raccolse negli occhi, nell’anima ogni forma, ogni colore del caro paese: le ghiaie bianche, l’acqua veloce e verde nel filo della corrente, il prato dell’altra sponda, il grosso rivo spumeggiante che vi casca sotto le case del villaggio alte a destra e bianche di sole, umili e scure a sinistra dietro i gelsi; e, sopra i tetti di queste, gli erbosi pendii, gli abeti della villa Carrè, il Passo Grande.
«Daniele, Daniele» diss’ella col pianto nella voce, «andiamo via!»