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CAPITOLO XXIII.
Hyeme et aestate.
L’indomani mattina pioveva. Elena discese in sala alle sei e mezzo. Il cocchiere, che aveva ordine di attaccare alle sette e mezzo, usciva dalla cucina quando Elena entrava in loggia dalla sala. Le domandò se, piovendo ancora alle sette e mezzo, si sarebbe partiti egualmente. Elena accennò di sì con la testa. Colui se ne andò. Nello stesso punto venne il domestico per domandare alla contessina se dovesse portare o no il caffè al senatore. Partivano anche se pioveva? Elena lo guardò. Aveva dimenticato, per un momento, che venisse anche il senatore. Sì, lei partiva sicuro. Forse più tardi? No, perchè Clenezzi doveva prendere il diretto delle undici per Milano.
«Già piova lunga non fa certo» disse il domestico dopo aver considerato il tempo. Usciva il sole, allora. Il Rumano e il Passo Grande erano tutti neri sotto una fascia pesante di nebbione; Villascura e i prati avevano il sole. Pioveva un polverio lucente. Laggiù in fondo al cannocchiale del portico, di là dagli abeti, si vedeva un verde livido, il cielo turchino sulla pianura.
Elena uscì senza ombrello, andò fino al vecchio abete dai rami cadenti che ora è scomparso, ha ceduto, dopo secoli, alla tempesta, come per avverar il triste sogno della sua giovane signora cui non vedeva più. Elena posò un momento la mano sul poderoso tronco fedele, tornò indietro. La nebbia argentea si rompeva qua e là sul Corno Ducale, mostrando al sole qualche scoglio verdognolo, come sospeso in cielo. Era un augurio? Un uccellino cantava sui campi, «sì, sì, sì,» ma Elena non gli credette, continuò sospirando le sue visite di addio. Andò nel piccolo studio tutto aperto, sedette sul sofà, prostrata, guardando per la porta tremare al vento il cespuglio di rose, muoversi le frondi della vite cadenti dall’alto e quelle della magnolia a sinistra e l’erba del prato. Il parato bianco e rosa ondulava, ondulavano le cortine con un tintinnio quieto, continuo dei vetri. Il volume di Châteaubriand era aperto sul tavolino. V’erano ancora i fiori appassiti. Elena prese il libro, vi rilesse «jamais ternie.» Dio, Dio, si sentiva morire. Lo chiuse in fretta, lo posò; ma poi lo riprese per portarselo via. Prima di uscire aperse il cassetto del tavolino, stette come stupida a guardar le parole e le cifre scritteci da lei. L’ultima era questa «29 giugno 1881?». Si ricordava di aver voluto dire con quel punto interrogativo; tornerò mai più? Pensò un poco, indi prese la penna, scrisse tremando come una foglia: 18 aprile 1882? La parola e le cifre paiono scritte da un bambino.
Uscendo, trovò che non pioveva quasi più. Sopra il nebbione del Passo Grande s’intravvedeva qualche pallida sfumatura d’azzurro. La finestra di Cortis era aperta. Elena lo sapeva partito all’alba per Villascura.
S’erano accordati fra loro che avrebbe fatto così. Ell’aveva temuto tradirsi, smarrir le forze se Cortis fosse stato presente alla sua partenza, o anche solo se l’avesse veduto poco prima. Sapeva che sarebbe venuto a salutarla ad un bivio, dove la strada che ella doveva percorrere è raggiunta da un’altra che move direttamente da Villascura.
La contessa Tarquinia era alla finestra, in veste da camera. Chiamò Elena a piè della finestra, le diede una fila di commissioni per la città, le raccomandò di non farsi aspettare, l’indomani, a pranzo. Non v’era di peggio per metter di malumore lo zio! Elena non rispose, salì nella sua camera. Passando per la loggia incontrò Pitantoi.
«Se è vero» diss’egli «che si disfanno i deputati d’adesso e che dopo ci danno il bollettino anche a noi, pesce popolo, lo facciamo ancora, sa, il signor Daniele.
Elena gli disse «bravo» sottovoce, gli stese la mano.
«Gesummaria, contessina?» disse Pitantoi tutto sorpreso e confuso. «Bene, bene» soggiunse perchè ella insisteva, «faremo anche questa!» E toccò appena quella piccola mano che strinse la sua con gratitudine.
Passando, nella sala superiore, davanti alla porta dello zio Lao, Elena ci gettò un bacio. Lo zio aveva protestato, la sera prima, contro una partenza così mattutina. A quell’ora lui non s’alzava nè per Domeneddio nè per il prossimo. Elena era contenta, ora, di non vederlo. Ripose il volume delle Mémoires nella borsa da viaggio, insieme a un ramoscello di rosa con bottoni, foglie e spine. S’inginocchiò un momento davanti alla finestra e discese frettolosamente. Trovò sua madre e il senatore in loggia a scambiarsi gli ultimi ringraziamenti. Borse, ombrelli e mantelli erano già accatastati sul tavolino rustico.
«Come sei pallida, Elena!» disse la contessa. Anche il senatore la trovava un po’ pallida; più bella, però, se possibile. La contessa era in collera con Cortis ch’era fuori e non si sapeva dove. Un bell’originale anche lui, però! Il senatore lo scusò; Elena tacque. La contessa entrò in sala, le accennò di seguirla.
«Cos’hai?» diss’ella piano. «La Bettina mi dice che certo devi avere qualche cosa.
«No, no, niente, niente» rispose Elena, e le sfuggì subito, ritornò in loggia, domandò se non fosse ora d’attaccare.
Mancavano dieci minuti alle sette e mezzo.
«A proposito!» esclamò la contessa Tarquinia. «Ho visto che porti via un baule, nientemeno.
«Sai» rispose Elena, «porto in città tante cose che mi è inutile di tener qui.
Cinque minuti ancora e la carrozza tempestò sulla ghiaia, entrò fragorosamente sotto il portico. Era chiusa, perchè piovigginava ancora.
«Dunque, cara contessa...» cominciò il senatore.
Elena ebbe paura di non reggere, si rifugiò in carrozza subito, senza salutar sua madre, si rannicchiò in un angolo.
«La baronessa ha premura» disse poi il senatore, sopravvenendo.
Era appena a posto quando la cameriera corse a dire che il conte Lao aveva udita la carrozza e mandava a vedere se il signor senatore volesse venirlo a salutare un momento. La contessina, no; non la voleva.
«Dio mi aiuta» pensò Elena.
La contessa Tarquinia si fermò a chiacchierare allo sportello fino al ritorno di Clenezzi.
«Son qua» disse questi, affrettandosi. «Il conte mi ha ordinato di dire a donna Elena ch’è in collera perchè ha voluto partir oggi e così per tempo. E anche se non tornerà domani a pranzo, non gliene importa niente, dice.
«E come sta?» chiese la contessa.
«M’ha detto «da cane» ma mi pare che stia meglio di ieri.
Intanto il senatore s’era venuto accomodando a fianco d’Elena; borse, ombrelli, mantelli e scialli erano a posto.
«Contessa» disse Clenezzi, «mi saluti anche don Bortolo:
Se cerca, se dice: |
«Morì» corresse la contessa, spensieratamente. «Avanti!
«È la stessa cosa, contessa, quando si parte da casa Sua!» replicò il senatore spenzolandosi fuori dello sportello mentre la carrozza partiva.
Nè l’uno nè l’altra avean badato al pallore d’Elena, all’angoscia che le si leggeva in viso. Dio l’aiutava davvero.
Ella chiuse gli occhi senz’averne coscienza. Clenezzi cominciò subito a parlar dei giorni deliziosi che aveva passati, di tante belle cose vedute, di tante gentilezze usategli.
«Lei non si sente bene?» diss’egli a un tratto. «Lei ha mal di capo?
Elena aperse gli occhi, rispose sgomentata:
«Sì, sì, mal di capo.
Clenezzi voleva avvertire il cocchiere, tornare indietro. Ella gli afferrò un braccio.
«No! La prego.
Richiuse gli occhi, non voleva che pensare in silenzio a lui. Pochi minuti ancora e gli darebbe l’ultimo saluto. Come correvano i cavalli! Riaperse gli occhi. Dio, come correvano! Avrebbe voluto che quel mezzo miglio di strada fosse eterno.
Alla salita di San Giorgio il cocchiere mise i cavalli al passo. Poco dopo si voltò a dire:
«C’è il signor Daniele.
E fermò i cavalli.
«Guardate un po’!» esclamò il senatore. «Come sono mai contento di salutarlo!
Cortis venne allo sportello di destra. Era pallido, contraffatto. Nè lui nè Elena articolarono sillaba.
«Caro Cortis» disse il senatore un po’ sorpreso, «se permettete.
E gli porse la mano. Cortis la strinse senza parlare.
«Venite anche voi in città?» riprese il senatore. «Mi pare che ci pensiate. Andiamo?
Elena fece un cenno negativo, impercettibile. Troppo forte cimento! Si erano accordati, la sera prima, di non affrontarlo. Ah, sarebbe stato meglio, forse, non rivedersi neppure adesso, partire senza l’ultimo addio.
Parve a Clenezzi che Cortis esitasse.
«Coraggio!» diss’egli.
«Non posso» rispose Cortis.
Elena aperse la sua borsa, ne tolse il volume di Châteaubriand, lo fece vedere a Cortis e lo ripose dopo averne tratta una lettera che gli porse.
«Per lui» diss’ella.
Cortis prese la lettera e la mano con ambo le proprie, fe’ cenno ad Elena di volerle dire una parola in segreto, le posò all’orecchio un addio, un bacio lieve ch’ella ricevette ad occhi chiusi, cercando aria colla bocca semiaperta.
Cortis diè un passo indietro, bruscamente, salutò con la mano. I cavalli focosi balzarono avanti. Nell’atto stesso ella gittò il viso alla portiera. Cortis si protese a lei, pensando quasi che volesse slanciarsi fuori, ma poi non vide più che la mano, la piccola mano ignuda, spenzolata come una cosa morta.
La carrozza non si vedeva più da un pezzo, che egli guardava ancora da quella parte, immobile.
Andò verso casa, spossato, senz’altra coscienza che di un dolor sordo al cuore. Non entrò nella villa, prese la stradicciuola che cinge in alto i giardini. Scavalcò la siepe al gran tiglio e salì verso la colonna. Lassù, fra i castani che guardano la valle e il piano, si gittò nell’erba molle ancora di pioggia.
Ecco finito tutto; era solo.
Dio, cos’aveva fatto! Il sole era scuro, il mondo era morto, il cuore gelava. Chiamò: Elena, Elena! Piante ed erbe tacevano in un silenzio desolato.
Giacque senza moto, senza pensiero, guardando le nuvole passar lente, trasformarsi di continuo, turbate da uno spirito muto.
Quanto tempo gli fosse trascorso così, non lo seppe mai. Si levò finalmente a sedere. Tutto gli faceva male: il corpo e l’anima. Quello scritto, ultimo tesoro che gli restava d’Elena, lo doveva leggere subito? Per un momento aveva pensato d’aspettar la sera, di riserbarlo per l’ora sconsolata.
Considerò la lettera. Era stata nelle sue mani, era una cosa sacra, per sempre. Vi posò le labbra. La considerò ancora, la baciò ancora, gittò uno sguardo e l’anima, un istante, laggiù nella pianura immensa, dietro a lei.
Aperse la busta. Non v’era che questo:
«D’inverno e d’estate, da presso e da lontano, fin ch’io viva e più in là. 18 aprile 1882.»
Cortis guardò le solenni parole, come impietrato. Il petto gli si venne gonfiando, il respiro diventò affannoso, una tempesta di dolore gl’irruppe alla gola. Si difese a morsi nelle labbra, a strette di convulse pugna nelle tempie; poche lagrime roventi gli oscurarono la pagina aperta sulle sue ginocchia.
Quando gli si snebbiò la vista era più sollevato. Una voce gli disse nel cuore: «S’ella tornasse un giorno, anche fra lunghi anni?» Immaginò il caro viso guasto dal tempo e dal dolore, bello per lui solo oramai, più dolce che nella giovinezza; immaginò la mano ancora giovane e gentile, la voce ancora soave, gli occhi stanchi e quieti, che dicevano ancora, ma quasi timidamente: «Fin che io viva e più in là.
E se accadesse ora qualche cosa per cui ella non partisse più?
Cacciò questo e ogni altro fiacco pensiero. Il sacrificio era stato liberamente voluto, per il bene; e la debole natura s’era sfogata abbastanza. Di più non voleva concederle. Si alzò risolutamente e discese, pensando a Roma, al suo giornale, al febbrile lavoro di cui sentiva bisogno.
Ebbe, scendendo fra gli abeti e i pini, la visione dell’avvenire. Lotte con la penna, lotte con la parola, nella stampa, nella Camera, nelle riunioni, per le sue idee di governo, contro la indifferenza pubblica; prime vittorie, ossia abbandono di amici, sarcasmi di sedicenti liberali, villanie di sedicenti cattolici; pertinacia indomita, favore di Dio nel suo spirito, negli eventi; paurose crisi, giorni d’angoscia, improvvise chiome, nel suo pugno, della fortuna, giorni di potenza; una grande via aperta al rinnovamento sociale in senso cristiano e democratico, e su questa via, avanti a tutti, l’Italia.
Dio lo voleva tutto per questo. Dio gli toglieva la famiglia, l’amore, la giovinezza, lo chiamava, con un soffio di fuoco, alle opere sue.
Prima d’entrare in casa fece sciogliere Saturno che da lunghi mesi era tenuto a catena. Il cane enorme corse furiosamente su e giù per il prato davanti alla villa, si precipitò in sala a spiccar lanci smisurati intorno al suo padrone, che, afferratolo per le zampe anteriori, se lo rizzò davanti, tutto fremebondo, lo guardò negli occhi lagrimosi lucenti.
«Saturno!» diss’egli. «Povero Saturno!
Ella gli aveva voluto bene a Saturno.
Cortis lo lasciò cadere sulle quattro zampe e andò nel suo studio, seguito dal cane che gli si coricò a lato guardandolo fiso, dimenando forte la coda ogni volta che l’occhio pensoso del padrone incontrava il suo. Il padrone preparò questo telegramma:
- Senatore P. — Roma.
«Parto subito per mettermi interamente a disposizione degli amici.
Cortis.»
Suonò il campanello.
«Portare subito questo telegramma» diss’egli al domestico. «Poi andare a Villa Carrè a prendere la mia roba; poi avvertire Schiro che sia qui col cavallo alle due per andare in città. Saturno viene con me.
«Fino in città, signore?
«Fino a Roma. Se a casa Carrè vi domandano qualche cosa, rispondete che a momenti ci vado io.
Il domestico fece un inchino e uscì.
Cortis, rimasto solo, sorse in piedi. Incrociate le braccia, guardò con piglio severo, là di fronte, suo padre, e disse forte:
«Ecco.
Fine.