Questo testo è completo.
Traduzione dall'inglese di Adelina Manzotti Bignone (1919)
1905

...Un assai lungo momento è il soffrire.

Noi non possiamo dividerlo per stagioni, ma soltanto renderci conto de' suoi modi e calcolarne i ritorni. Per noi, il tempo stesso non cammina; e sembra piuttosto descrivere un circolo intorno ad un centro di dolore. La paralizzatrice immobilità di un'esistenza in cui ogni particolare è regolato da un immutevole dèspota (in modo che noi mangiamo, beviamo, dormiamo e preghiamo – o, almeno, c'inginocchiamo per pregare – secondo le leggi di una formula ferrea); questo carattere statico che rende, fino nei più piccoli atti, ogni giornata uguale alla precedente, pare che si comunichi a tutte quelle forze esterne delle quali l'essenza consiste appunto in un mutamento continuo.

Noi non sappiamo nulla del periodo della semina o del raccolto, dei mietitori proni in mezzo alle spighe, o dei vendemmiatori sparsi tra i vigneti; nulla sappiamo dei prati verdi che gli alberi di primavera nevicano di petali e che gli alberi del verziere, in autunno, cospargono di frutti maturi – e nulla mai ne possiamo sapere.

Per noi non c'è che una stagione: quella del dolore. Sembra che ci abbiano anche defraudato del sole e della luna. Fuori il cielo può essere d'azzurro e d'oro, ma la grossa vetrata del piccolo abbaino dalle sbarre di ferro sotto cui ci si accuccia non lascia filtrare appena che una povera luce sporca. Dentro le celle c'è sempre la semichiarìa del crepuscolo; e il crepuscolo invade pure ogni cuore. Nell'orbita del pensiero, come in quella del tempo, il moto non esiste più. La cosa stessa che da gran pezzo voi, personalmente, avete dimenticato o che potete dimenticare con facilità, la medesima cosa mi succede ancora in questo stesso momento e mi accadrà nuovamente domani. Tenete presente tutto ciò e vi sarà possibile comprendere il perchè io scrivo in questo tono...

Una settimana dopo mi trasferiscono qui.. Passano ancora tre mesi e mia madre muore. Nessuno seppe quanto profondamente io l'amassi e la venerassi.

La sua morte fu per me una cosa terribile; ma io, già un tempo principe dello stile, non trovo nemmeno una parola per esprimere la mia angoscia e la mia vergogna. Essa e mio padre mi avevano lasciato in retaggio un nome glorioso d'onore e di nobiltà, non solo nei campi della letteratura, dell'arte, dell'archeologia e della scienza, ma anche nella storia del mio paese d'origine e nella sua evoluzione nazionale. Ebbene, io ho macchiato questo nome d'un obbrobrio eterno. Io ne ho creato un epiteto ignobile per il volgo. Io l'ho trascinato nel fango. Io l'ho dato in balìa dei bruti, affinchè lo rendano brutale ed ai nemici perchè ne facciano un sinonimo di follia. Quel che ho sofferto allora e lo strazio che ancor oggi io provo, no! nessuna penna lo potrà scrivere, nessun foglio di carta lo potrà rivelare. Mia moglie, sempre buona e nobile verso di me, temendo che la notizia della sciagura mi giungesse per mezzo di estranei, quantunque tanto malata, si mise in viaggio da Genova per l'Inghilterra per venire essa stessa ad annunciarmi questa perdita irreparabile. Le lettere di simpatia mi arrivarono da tutti coloro che avevano ancora serbato dell'affetto verso di me. E perfino delle persone che io non avevo mai conosciuto direttamente, quando seppero che una nuova disgrazia era venuta ad abbattersi sulla mia vita, scrissero, pregando di comunicarmi ch'essi m'erano accanto nel grande dolore...

Tre mesi passano. La tabella-calendario della mia condotta e del mio lavoro giornaliero, appesa esternamente sull'uscio della mia cella, con scrittovi sopra il mio nome e la mia condanna, m'informa che siamo giunti al mese di maggio...

La prosperità, il piacere e il successo possono essere volgari e refrattari, ma il dolore è la più sensibile di tutte le cose create. Nulla succede nel mondo del pensiero cui il dolore non faccia eco con delle vibrazioni infinitamente vive e terribili. In suo confronto, la sensibilissima foglia d'oro battuto, che indica la direzione delle forze che l'occhio non riesce ad afferrare, è grossolana.

Il dolore è una ferita che sanguina quando una mano la tocca, tranne quella dell'amore, ed anche premuta da una carezza buona essa fa sangue, quantunque non la strazi più la sofferenza.

Dovunque c'è il dolore ivi santa è la terra. Un giorno si capirà ciò che questo significa. Nulla si saprà prima di questo. *** e delle indoli come la sua, sì, possono comprendere. Quando, costretto fra due gendarmi, io fui condotto dalla mia prigione alla Corte dei Fallimenti, *** attese nel lungo e tragico corridoio per potersi togliere con atto grave il suo cappello davanti a me, in cospetto della folla che fu ridotta al silenzio da un gesto così semplice e così dolce, mentre io passavo innanzi a lui colle manette ai polsi e colla testa china.

Molti uomini si sono guadagnati il regno dei Cieli con delle opere assai meno meritevoli di questa. Non è con tale spirito, forse, e animati da simile amore che i Santi si inginocchiavano per lavare i piedi dei poveri o si curvavano per baciare sulle guancie i lebbrosi? Io non gli ho mai detto una parola di ciò ch'egli fece quel giorno. Non so nemmeno, in questo momento, s'egli pensa ch'io abbia potuto intravedere il suo atto.

Oh, non è una cosa per la quale si rivolgono dei ringraziamenti formali con delle parole formali! Io l'ho racchiusa nel tesoro del mio cuore. Ivi la serbo come un debito segreto che sono felice di pensare che non potrò assolvere mai. La imbalsamo e la rinfresco con la mirra e gli aromi d'infinite lagrime.

Guardate: la saggezza non mi riuscì di nessun profitto e la filosofia rimase infeconda e gli adagi e le frasi di coloro che tentarono di consolarmi furono come della polvere e della cenere nella mia bocca, ma il ricordo di quel piccolo gesto d'amore, adorabile e silenzioso, ha riaperto per me tutte le fonti della pietà, ha fatto fiorire il deserto come una rosa, m'ha strappato dalla disperazione solitaria dell'esilio per mettermi in armonia col grande cuore ferito e spezzato del mondo. Quando gli uomini saranno capaci di comprendere non solo quanto quel gesto fu bello, ma pure quale intimo significato ebbe per me e quale valore avrà per me sempre, allora forse essi sapranno in che modo e in quale stato d'animo mi devono avvicinare.

I poveri sono saggi e più caritatevoli e più propensi alla bontà di noialtri. Per loro la prigionia è una tragedia nella vita di un uomo, una sciagura, una disgrazia, qualche cosa, insomma, che merita la simpatia altrui. Essi parlano di colui che è in carcere come di uno che «passa un guaio», semplicemente. È l'espressione che adoperano sempre ed essa contiene la perfetta saggezza dell'amore. Invece, con le persone del nostro ceto è diverso. Per noi, la prigione trasforma un uomo in un paria. Io, e alcuni altri nel mio stesso caso, non abbiamo diritto nè all'aria, nè al sole. La nostra presenza turba la gioia degli altri.

Siamo ricevuti come degli intrusi, quando ritorniamo nel mondo. Non ci si vorrebbe lasciar godere nemmeno il chiaro di luna. E i nostri figliuoli non ce li portano via? Così ci si spezzano questi dolcissimi vincoli che ci ricollegano all'umanità. Siamo dannati alla solitudine, mentre i nostri figli sono pur vivi. Ci rifiutano l'unico mezzo che potrebbe guarirci e farci rinascere, l'unica dolcezza che sarebbe in grado di spandere un balsamo sul cuore angosciato e di mettere un po' di pace nell'anima in pena...

Bisogna, sì, ch'io mi dica che da me stesso io mi sono distrutto e che nessuno, piccolo o grande, non si può rovinare che con le sue proprie mani. Io sono pronto a dirlo; mi sforzo di confessarlo, quantunque, forse, in questo momento, non lo si creda. Senza alcuna compassione io sostengo contro di me l'implacabile accusa.

Per quanto terribile sia stato ciò che il mondo mi ha fatto di male, quel che io feci a me stesso fu più tremendo ancora.

Ero in simbolica comunione con l'arte e con la cultura del mio tempo. Sul principio della mia virilità lo avevo compreso e avevo, in seguito, forzato i miei contemporanei a comprenderlo. Pochi uomini, durante la loro vita, hanno occupato un posto simile al mio col pieno riconoscimento altrui. La posizione ideale di un artista è messa in luce, di solito (se pure lo è), dallo storico o dal critico, molto tempo dopo che l'artista e la sua età sono scomparsi. Invece, per me, la cosa accadde diversamente. Io ne ebbi la coscienza e la diedi anche agli altri.

Byron fu una figura simbolica, ma relativamente alla passione e alla stanchezza passionale della sua opera.

Il mio rapporto col mio tempo fu più nobile, più costante, d'una importanza e d'un valore più grandi.

Gli dèi m'avevano quasi tutto donato. Ma io mi lasciai poltrire e mi concessi dei lunghi periodi di tregua insensata e sensuale. Mi divertii a fare l'ozioso, il dandy, l'uomo alla moda. Mi circondai di poveri caratteri e di spiriti miserevoli. Divenni prodigo del mio proprio genio e provai una gioia bizzarra nello sperperare una giovinezza eterna. Stanco di vivere sulle cime, discesi volontariamente in fondo agli abissi per cercarvi delle sensazioni nuove. La perversità fu nell'orbita della passione quel che il paradosso era stato per me nella sfera del pensiero.

Infine il desiderio si cangiò in una malattia, o in una follìa, o in entrambe le cose. Divenni noncurante della vita altrui. Colsi il mio bene dove mi piacque e passai oltre. Dimenticai che ogni più piccola azione quotidiana forma o deforma il carattere e che, per conseguenza, ciò che si è compiuto nel segreto della propria intimità si sarà poi costretti a proclamarlo al mondo intero. Così, non fui più padrone di me stesso. Non riuscii più a dominare la mia anima e la ignorai. Permisi al piacere di governarmi e finii coll'essere abbattuto da una sventura orrenda. Adesso non mi rimane più che una cosa: l'assoluta umiltà.

Ecco quasi due anni, tra poco, che io sono in prigione! Da principio una selvaggia disperazione cominciò ad impossessarsi di me; mi abbandonavo a una pena tale ch'era disprezzabile anche a vedersi, a un'ira terribile ed impotente, all'angoscia e all'indignazione, alla tortura che mi strappava i più acuti singhiozzi, a una miseria che non aveva nessuna voce per esprimersi, a un dolore muto. Sono passato attraverso tutte le forme possibili della sofferenza. Meglio ancora di Wordsworth, io ben so ciò ch'egli intese di dire in quel suo distico

La sofferenza è costante e oscura e misteriosa,

e ha la natura dell'Infinito.

Ma quando, talvolta, io mi rallegro all'idea che le mie sarebbero interminabili, non potevo, però, sopportare ch'esse fossero prive di significato. Ora, io trovo riposta in un oscuro angolo della mia natura qualcosa che mi dice: nulla c'è al mondo che sia vuoto di senso ed il soffrire meno di qualunque altra cosa. Questo quid, nascosto nel più profondo del mio «io», come un tesoro in un campo, è l'Umiltà.

È l'ultima cosa che mi resta, e la migliore; è l'estrema scoperta alla quale io sono arrivato, è il punto di partenza di tutto uno sviluppo nuovo. È una verità che si è formata nel mio intimo essere e così pure io so ch'essa è venuta in un momento favorevole. Se alcuno me ne avesse parlato, l'avrei respinta; ma siccome l'ho trovata io stesso, ci tengo a serbarla. Bisogna ch'io la conservi! È l'unica cosa che ha in sè i germi della vita, di una nuova esistenza, una Vita Nuova per me. Tra tutte le cose, essa è la più strana; non si può acquistarla che a patto di rinunciare a tutto ciò che si possiede. E, solamente quando si è tutto perduto, ci si accorge di averla guadagnata.

Ora che ho capito ch'essa è in me, io vedo assai chiaramente ciò che in realtà occorre che io faccia. E allorchè adopero una frase come questa, non ho bisogno di aggiungere che non alludo a nessuna sanzione, a nessun ordine imperativo dal di fuori. Io non ne ammetto. Sono molto più individualista di quanto lo sia mai stato. Niente mi sembra che abbia il minimo valore, tranne ciò che si estrae dalla propria intimità. La mia indole è in traccia d'un nuovo mezzo di realizzazione: ecco tutto ciò di cui io devo preoccuparmi. E la prima cosa che mi occorre è questa: liberarmi di qualsiasi risentimento amaro contro il mondo.

Io sono completamente senza denaro, assolutamente senza focolare. Eppure c'è qualcosa di peggio, sulla terra. Sono del tutto sincero quando affermo che, piuttosto che lasciare questo carcere conservando nel mio cuore dell'amarezza contro il mondo, preferirei di mendicare con gioia il mio tozzo di pane di porta in porta. Se non ottengo nulla dal ricco, riceverò pur qualche cosa dal povero. Coloro che molto posseggono sono di solito avari; ma quelli che hanno ben poco lo dividono volentieri. Non mi farebbe nessun caso il dormire sulla fresca erba in estate e, al sopraggiungere dell'inverno, ripararmi al caldo in un mucchio di fieno o sotto la tettoia di una capanna, purchè avessi sempre dell'amore dentro il mio cuore. Le cose esterne della vita mi pare ora che non abbiano più alcun valore. Voi vedete, dunque, a quale intensità di individualismo io sono arrivato, o, piuttosto, io vado accostandomi, poichè il viaggio è ancor lungo e «sulla strada per la quale io cammino ci sono delle spine».

Certo, so bene che andare elemosinando per la via non sarà il fatto mio e che, se io mi stendessi la sera sull'erba fresca vi comporrei dei sonetti alla luna. Quando uscirò di prigione, R... mi aspetterà al di là dell'enorme portone ferrato ed egli è il simbolo non solo del suo proprio affetto, ma anche di quello di molti altri. Credo, ad ogni modo, che avrò da vivere per circa diciotto mesi e, se non potrò pel momento scrivere de' bei libri, almeno potrò leggerne; e quale felicità sarà più grande? In seguito spero d'essere capace di riacquistare le mie facoltà creatrici.

Ma se accadesse altrimenti, se non mi restasse più un amico al mondo, se nessuna casa mi fosse più aperta, neanche per pietà, se dovessi prendere la bisaccia e il tabarro logoro della miseria assoluta fino a quando io fossi libero da ogni risentimento, da ogni rancore, da ogni indignazione, potrei sempre affrontare la vita con molta più calma e fiducia che se il mio corpo fosse coperto di porpora e di lino prezioso e la mia anima scoppiasse di odio.

Nè avrò, veramente, nessuna difficoltà. Quando si desidera con fede l'amore, lo si trova là, che ci attende.

Inutile dire che il mio compito non termina qui. Se così fosse; sarebbe troppo facile. C'è ben altro davanti a me. Devo scalare delle montagne assai più irte; ho da attraversare delle valli infinitamente più cupe. E mi bisogna trarmi d'impaccio colle mie sole mani. Nè la religione, nè la morale, nè la ragione mi possono dare alcun giovamento.

No, la morale non mi aiuta. Io sono un antinomista nato. Sono di quelli che son fatti per le eccezioni e non per le regole. Ma mentre io vedo che non c'è niente di male in ciò che si compie, mi accorgo però che c'è qualcosa di cattivo in ciò che si diventa. È bene anche aver imparato questo.

La religione non mi aiuta. La fede che altri nutrono per ciò che è invisibile io la dedico a quel che si può toccare e osservare. I miei dèi abitano nei templi costruiti dalla mano dell'uomo ed è solo nell'ambito dell'esperienza reale che la mia fede si definisce e si completa; essa è troppo integra, forse, perchè, come molti di coloro o tutti coloro che hanno collocato il loro cielo sopra la terra, io vi ho scoperto non pure la bellezza del paradiso, ma anche dell'inferno. Quando penso alla religione, sento che mi piacerebbe fondare un ordine monastico per coloro che non possono credere: si dovrebbe chiamare la Congrega degli Infelici e nei suoi riti, davanti a un altare, privo di qualsiasi fiamma di ceri, un prete senza pace nel cuore, celebrerebbe l'officio con del pane profano o un calice vuoto. Ogni cosa, per essere vera, deve diventare una religione, e l'agnosticismo, come una qualunque altra religione, dovrebbe avere le sue cerimonie. Non ha esso seminato dei martiri? Ebbene, dovrebbe mietere i suoi santi e lodare ogni giorno il Signore d'essersi nascosto agli occhi degli uomini. Ma, sia la fede o l'agnosticismo, nè l'una nè l'altro mi devono rimanere due fatti esterni. Bisogna che i loro simboli siano una mia creazione stessa.

Spirituale è soltanto ciò che foggia la sua propria forma. Se non posso riuscire a trovarne il segreto nel mio intimo «io», non lo scoprirò giammai: se non lo reco con me, non mi si rivelerà mai più.

La ragione non mi aiuta. Essa mi dice che le leggi secondo le quali mi hanno condannato sono ingiuste e crudeli e che il sistema sociale per cui ho sofferto è ingiusto e malvagio. Ma, tuttavia, occorre ch'io le creda giuste e rette. E, precisamente come nel campo dell'arte non ci si occupa se non del valore che un fatto particolare ha di per se stesso in un particolare momento, così succede nell'evoluzione etica del carattere.

Occorre ch'io ritenga come un bene per me tutto ciò che mi è accaduto. Il letto di tavole, il cibo nauseabondo, le due funi che si devono sfilacciare in istoppa sino a che le dita indolenzite divengono insensibili, le vili «corvées» con le quali cominciano e finiscono le giornate, gli aspri comandi che sembrano una necessità dell'ordine, l'orribile casacca che rende persino grottesco il dolore, il silenzio, la solitudine, la vergogna – tutto questo bisogna ch'io lo trasformi in esperienza spirituale. Non c'è neppure una degradazione del corpo che non contribuisca a spiritualizzare l'anima.

Voglio arrivare ad un punto tale che mi sia possibile dire semplicemente e senza ostentazione di sorta che le due grandi date della mia vita corrispondono ai giorni in cui mio padre mi mandò ad Oxford e in cui entrai in galera. Io non dirò che la prigione sia la miglior cosa che mi sia capitata, perchè questa frase avrebbe un sapore di eccessiva amarezza verso di me. Preferirei dire o sentir dire di me stesso ch'io sono stato una natura così tipica del mio tempo che, nella mia perversità e per l'amore di questa perversità, ho mutato le buone cose della mia vita in male e le cattive in bene.

Tuttavia, ciò che gli altri dicono o che io dico interessa poco. La cosa importante che mi si offre e che devo fare – se il breve periodo dei miei giorni a venire non sarà sciupato, nè perduto, nè troncato – consiste nell'assorbire in me tutto ciò che mi è stato fatto e d'incorporarmelo e di accettarlo senza rimpianto, senza paura, senza ripugnanza. Il male supremo è la superficialità. Tutto ciò di cui ci si rende conto è bene.

Nei primi tempi della mia prigionia, alcuni mi consigliarono di dimenticare chi io ero. Disastroso consiglio! Invece, soltanto rendendomi ragione di quel che sono ho potuto trovare un po' di conforto. Adesso, altri mi esortano a dimenticare, quando sarò libero, d'essere mai stato in carcere. So bene che sarà fatale ugualmente. Ciò significa che io sarei senza tregua torturato da un sentimento intollerabile di sventura e che tutte le cose create per me come per gli altri: la bellezza del sole e della luna, il corteo delle stagioni, la musica dell'aurora e il silenzio della notte fonda, la pioggia che scroscia tra le foglie o la rugiada che inargenta i prati, tutte queste meraviglie diventerebbero opache per me, perderebbero il loro potere di guarire e di comunicare la gioia. Rammaricarsi delle esperienze fatte, vuol dire arrestare il proprio sviluppo; negarle equivale a mettere una menzogna sulle labbra della nostra vita. Sarebbe come rinnegare l'anima.

Perchè, come il corpo assorbe sostanze di ogni sorta, cose volgari ed impure, ed anche quelle che un sacerdote o una visione hanno purificato, e le converte in forza e in agilità, in gioco armonico di muscoli, in carni delicate, in capelli ricciuti e multicolori, in labbra, in occhi ridenti, così l'anima a sua volta ha le proprie funzioni nutritive e può trasformare in nobiltà di pensieri e in passioni di gran valore ciò che per sè stesso è vile, crudele e degradante; e a maggior ragione essa può trovarvi i suoi più efficaci mezzi di affermazione e rivelarsi più perfettamente mediante ciò che era destinato alla profanazione e alla distruzione.

Mi occorre sottomettermi francamente al fatto d'essere stato il carcerato ordinario di una ordinaria prigione e, quantunque ciò sembri curioso, bisognerà ch'io impari a non provarne vergogna. È necessario accettare la cosa come un castigo, e, se uno è vergognoso della pena sofferta, tanto valeva non averla mai nemmeno patita.

Certamente, ci sono molte colpe di cui mi hanno accusato e che io non ho mai commesso; ma ce n'è gran numero che mi hanno rimproverato e che in realtà ho compiuto e un numero più grande ancora di quelle che ho commesso e delle quali non sono mai stato accusato. E poichè gli dei sono strani e ci puniscono tanto per ciò che è umano e buono in noi quanto per ciò che è cattivo e perverso, io devo sottomettermi alla legge che fa pagare il fio sì per il bene che per il male compiuto.

Non ho nessun dubbio sulla perfetta giustizia di ciò. Questo giova o dovrebbe giovare a comprendere due cose e a non provare nessuna vanità nè per l'una nè per l'altra. Se, dunque, io non ho alcuna vergogna del mio castigo (come spero), sarò capace di pensare, di camminare e di vivere libero.

Non pochi uomini, dopo la loro liberazione, portano con sè la prigione nell'aria che li circonda, e, alla fine, come delle povere creature avvelenate, si cacciano in qualche buco per morirvi. È ben triste ch'essi siano ridotti a questo e la società che ve li costringe è ingiusta, tremendamente ingiusta. La società s'arroga il diritto d'infliggere all'individuo dei castighi spaventevoli, ma essa ha anche il difetto supremo d'essere superficiale e di non giungere a comprendere ciò che fa.

Quando il castigo è subìto, la società abbandona l'uomo a se stesso, vale a dire proprio nel momento nel quale dovrebbe cominciare il suo più alto dovere verso di lui. Essa ha paura delle azioni e rifugge da coloro che ha punito come si evita un creditore del quale non ci si può liberare, o l'uomo a cui si è imposta una irreparabile sorte. Da parte mia io esigo che, se mi rendo ragione di quanto ho sofferto, la società deve capire ciò che mi ha inflitto, e, per conseguenza, non c'è amarezza nè odio da una parte nè dall'altra.

Oh, lo riconosco che, da un certo angolo visuale, le cose saranno per me molto diverse da quel che sono per gli altri; ed è necessario, per la natura stessa del mio caso, ch'esse siano così. I poveri ladri e gli ammoniti, incarcerati qui con me, sono, sotto molti rispetti, assai più felici ch'io non sia. Il cantuccio di città oscura o di campo verdeggiante che assistette alla loro colpa è piccolo. Per trovare gente che ignori il loro delitto essi non hanno da superare una distanza maggiore di quella che un uccello percorre dal crepuscolo all'alba. Ma, per me, il mondo è ridotto ad un palmo e, da qualsiasi lato io mi volga, il mio nome è vergato con lettere di piombo sulla roccia. Poichè io non sono entrato dall'oscurità nella sfera di luce effimera del delitto, ma bensì da una specie di eternità di gloria in una specie di eternità d'infamia, e mi sembra talvolta d'aver dimostrato – se pure occorre questa prova – che tra l'uomo famoso e l'infame non c'è che un passo e forse anche meno d'un passo.

Pertanto, nel fatto che gli uomini mi riconosceranno dovunque io vada e che conosceranno la mia vita, almeno nelle sue ore di follia, io vedo un bene per me; ciò mi costringerà ad affermarmi nuovamente come artista e al più presto possibile. Se riuscirò a creare una sola e bella opera d'arte, mi sarà possibile di trovare un antidoto al veleno della malizia, di smontare i sarcasmi dei vili e di sradicare la lingua del disprezzo.

Se la vita, com'essa è sicuramente, deve anche per me essere un problema, io non sono un quesito di minor valore per la vita stessa. Gli uomini dovranno assumere qualche attitudine a mio riguardo, attraverso un giudizio su di sè medesimi e su di me. Non faccio nessuna allusione personale. I soli con i quali mi piacerebbe di trovarmi in compagnia, ora, sono gli artisti e coloro che hanno sofferto: coloro che sanno cos'è la bellezza e che sanno cos'è il dolore; tranne costoro, nessun altro m'interessa. E non domando più niente alla vita. In tutto ciò che ho affermato fin qui, io non mi preoccupo che della mia attitudine mentale verso la vita considerata nel suo insieme. Presento che uno dei primi punti che devo toccare per la mia propria perfezione e perchè io sono così imperfetto, si è di non vergognarmi d'essere stato punito.

In seguito bisognerà imparare ad essere felice. Un tempo conoscevo la felicità per istinto o almeno, credevo di conoscerla. C'era sempre la primavera, nel mio cuore, una volta! Mi occorreva la gioia ed ero nato per essa. Sino all'estremo limite io riempivo la mia vita di piacere, come si colma sino all'orlo una coppa di vino. Adesso è da un punto di partenza del tutto nuovo che mi accosto alla vita, ed anche il concepire la felicità mi riesce, spesso, difficile. Mi ricordo, durante il mio primo semestre a Oxford, di aver letto nel Rinascimento di Walter Pater – un libro che ebbe sulla mia vita una così strana influenza! – che Dante pone nel profondo Inferno coloro che vivono spontaneamente nella tristezza. Andai subito in biblioteca e cercai quel passo della Divina Commedia, là dove è detto che al disotto della sinistra palude giacciono quelli che furono «tristi nella dolcezza dell'aria» ripetendo

Tristi fummo

Nell'aer dolce che dal sol s'allegra.

Sapevo che la chiesa condannava l'accidia, ma questa idea mi parve assolutamente fantastica, come un genere di peccato inventato da un sacerdote ignorante della vita reale. Non potevo neppure capire come Dante, il quale dice che «il dolore ci unisce a Dio», fosse così aspro verso gli innamorati della melanconia, dato che davvero ne esistessero. Non sospettavo allora che questa diverrebbe un giorno una delle più grande tentazioni della mia vita.

Durante la mia permanenza nel carcere di Wandsworth, io ero malato d'un languore di morte. Era il mio unico desiderio morire.

Poi, quando fui trasferito qui, dopo due mesi d'infermeria, e m'accorsi che la mia salute andava migliorando a poco a poco, fui preso dall'ira. Decisi di suicidarmi il giorno stesso in cui sarei uscito di prigione. Dopo qualche tempo, questo furioso accesso si calmò e stabilii, invece, di vivere, ma di fasciarmi tutto di tristezza come un re si panneggia nella sua porpora, di mutare in un luogo di pianto ogni casa della quale avessi varcato la soglia, di imporre a' miei amici la sottile tortura della mia ipocondria, d'insegnar loro che la tristezza è il vero segreto della vita, di tormentarli con un dolore che fosse loro estraneo, di soffocarli con la mia pena. Ora ho i sentimenti molto diversi. Capisco che sarebbe una ingratitudine ed una crudeltà da parte mia atteggiarmi in modo che, quando i miei amici m'incontrassero, fossero costretti a mostrarsi ancora più melanconici di me per testimoniarmi la loro simpatia; oppure – per riceverli e offrir loro un degno trattamento – invitarli a sedersi silenziosamente davanti a delle erbe amare o a dei cibi funerari. No; bisogna ch'io impari ad essere gaio e felice.

Le due ultime volte che io ebbi il permesso di vedere qui i miei amici, provai d'essere allegro per quanto possibile e di mostrare la mia gaiezza per compensarli, un poco, del disturbo che essi s'erano presi, venendo sin qua dalla capitale. Non fu che un compenso molto, molto lieve, lo so, ma son certo che a loro piacque. Son passati otto giorni sabato da che ho visto R... per un'ora e mi sforzavo di mostrare nel modo più espressivo possibile la gioia che provavo in quell'incontro.

Il fatto che ora, per la prima volta in tutta la mia prigionia, io sento un reale desiderio di vivere, mi prova che ho ragione nelle idee e nelle opinioni che formulo qui per me stesso.

Tanto lavoro ho davanti a me che mi parrebbe una terribile tragedia il morire prima di averne potuto compiere almeno una parte! Scorgo nell'arte e nella vita degli sviluppi imprevisti di cui ciascuno è un nuovo mezzo di perfezione.

Bramo di vivere per esplorare questo mondo nuovo per me. Volete dunque sapere in che consiste questo nuovo mondo? Credo che lo possiate anche indovinare. È il mondo nel quale ho vissuto. Il dolore, infine, e tutto ciò che il dolore insegna: ecco il mio nuovo mondo.

Vivevo, un tempo, esclusivamente per il piacere. Allontanavo da me i patimenti e il dolore in ogni loro aspetto; li odiavo; avevo risoluto d'ignorarli sino a quando mi fosse stato possibile – vale a dire di considerarli come delle forme d'imperfezione. Sofferenza e dolore non sarebbero entrati nell'orbita della mia vita. Non avevano nemmeno un posto nella mia filosofia. Mia madre, che conosceva la vita intera, mi citava spesso i versi di Goethe scritti da Carlyle sur una pagina d'un libro ch'egli le aveva donato una volta e tradotti così da lui stesso:

Colui che non ha mai mangiato il

suo pane nel dolore,

Che non ha mai passate le ore della

notte ad attendere piangendo il mattino

che tarda,

Colui non vi conosce, o potenze del

Cielo! –

Erano i versi che quella nobile regina di Prussia – trattata da Napoleone con tanta grossolana brutalità – recitava nella sua umiliazione e nel suo esilio; erano i versi che mia madre mi ripeteva spesso nel tormento della sua vita, prossima a spegnersi. Io rifiutai, allora, assolutamente, di riconoscere o d'ammettere l'enorme verità che essi contenevano. Mi rammento molto bene ch'io le ripetevo di non aver nessun desiderio di mangiare il mio pane nel dolore e di trascorrere le notti aspettando in pianto un'alba d'amarezza.

Non avevo nessuna idea che proprio là eravi nascosta una delle singolari sorprese tenute in serbo dal destino per me e che, veramente, non altro io farei se non mangiare il mio pane nel dolore per un anno intero. Ma è così che anch'io ho avuto la mia parte; e che, durante questi ultimi mesi, ho potuto comprendere, mercè ostacoli e lotte senza pari, qualcuno degli insegnamenti che si celano nell'intimo del dolore. Preti e gente che adoperano frasi senza misura parlano, alle volte, della sofferenza come d'un mistero. Invece essa è una rivelazione. Fa distinguere delle cose che non si erano mai vedute prima e permette di considerare l'insieme della storia da un punto di vista tutt'affatto diverso. Quel che intorno all'arte, ad esempio, si era sentito in modo vago e per istinto, ora lo si afferra intellettualmente ed emozionalmente con una chiarezza perfetta di visione e con una intensità assoluta, comprensiva.

Oramai io sono persuaso che, poichè il dolore è la suprema emozione di cui è suscettibile l'uomo, esso è ad un tempo il tipo e il modello di ogni grande arte. Ciò che l'arte ricerca continuamente è quella certa maniera d'essere nella quale anima e corpo divengono uni e indivisibili; nella quale l'esteriore è l'espressione dell'intimità, in cui la forma stessa è una rivelazione. Tali maniere d'essere non sono numerose; in un dato momento ci possono servire di modello la giovinezza e l'arte che si preoccupa della giovinezza; in un altro noi possiamo credere invece che, per la sua finezza e sensibilità d'espressione, per l'idea che suggerisce d'uno spirito diffuso negli oggetti esterni e che si riveste a volta a volta d'aria e di terra, di nebbia e di volumi e per la morbidezza de' suoi atteggiamenti, de' suoi toni, de' suoi colori – l'arte del paesaggio moderno realizza per noi pittoricamente ciò che i Greci ottennero con tanta perfezione plastica. La musica, nella quale ogni soggetto è assorbito dall'espressione e non può separarsene, è un esempio complesso di quel che io voglio dire, così come un fiore o un fanciullo sono degli esempi semplici; ma il dolore è il tipo più alto nella vita e nell'arte.

Dietro la gioia e il sorriso ci può essere un temperamento ruvido, aspro e scaltro. Ma dietro il dolore non c'è che il dolore. L'angoscia, contrariamente al piacere, non si maschera mai. La verità, in arte, non consiste in una corrispondenza tra l'idea madre e l'esistenza accidentale; essa non è la identità della forma con l'ombra o della forma riflessa dal cristallo con la forma stessa; non è l'eco rinviata dall'anfratto d'una collina – così come non è, nella valle, una sorgente d'acqua argentata che mostra la luna alla luna e Narciso a Narciso. La verità in arte è l'unità d'una cosa con sè stessa, è l'esteriore come diretta emanazione dell'interiore; è l'anima connaturata con la carne e il corpo con lo spirito. Per questa ragione non esiste nessuna verità che sia comparabile al dolore. Ci sono alcuni momenti in cui il dolore sembra divenire la Verità Unica. Le altre cose possono essere delle illusioni dell'occhio o del desiderio, create per accecare l'uno e soddisfare l'altro, ma è solo col dolore che si sono creati i mondi e alla nascita di un fanciullo o di una stella presiede il dolore.

Ma – di più: v'è nel dolore una realtà intensa, straordinaria. Ho detto di me stesso ch'ero in comunione simbolica coll'arte e colla cultura della mia età. Ebbene: non c'è un solo infelice, chiuso con me in questa galera miserabile, che non si trovi in comunione simbolica col segreto stesso della vita. Perchè il segreto della vita è di soffrire. È questo che si nasconde in tutte le cose. Quando cominciamo a vivere, quel che è dolce a noi sembra tanto dolce e quel che è amaro ci sembra tanto amaro che noi rivolgiamo inevitabilmente tutti i nostri sforzi verso il piacere e non cerchiamo soltanto di «nutrirci di miele per un mese o due», ma non vogliamo altro alimento, in tutta la nostra vita, ignorando così che corriamo rischio d'affamare la nostra anima.

Mi sovviene d'essere entrato una volta in questo argomento con una delle più belle figure che abbia mai conosciuto, una donna di cui è indicibile la simpatia, la nobile bontà verso di me, prima e dopo la tragedia della mia prigionia; essa mi ha realmente aiutato, quantunque ella lo ignori, a portare il fardello delle mie pene più di qualsiasi altra creatura al mondo; e tutto ciò con il solo fatto della sua esistenza, perchè essa è quello che è: un ideale e una forza influente ad un tempo, una suggestione di ciò che si potrebbe divenire quanto un aiuto effettivo per divenirlo, un'anima che comunica la sua dolcezza all'aria che si respira e fa sembrare il mondo dello spirito semplice e naturale come la limpidità del sole e del mare; per lei la bellezza e il dolore camminano dandosi la mano e recano la stessa novella. Nell'occasione di cui parlavo mi ricordo d'averle detto che c'era in una sola strada-budello di Londra abbastanza sofferenza per mostrare che Dio non ama l'uomo e che, in qualunque luogo il dolore si rivelasse, (fosse pure quello d'un fanciullo piangente in un piccolo giardino per una colpa non commessa) la faccia intera della creazione ne era completamente sfigurata.

Ebbene, avevo del tutto torto. Ella me lo disse, ma io non le credetti. Non ero nell'ordine d'idee nel quale si arriva a una simile scoperta. Adesso constato che l'amore è la sola spiegazione possibile della somma straordinaria di dolore che esiste nel mondo. Non posso concepire nessun'altra spiegazione. Sono convinto che non ce n'è una diversa, e se veramente il mondo è stato costruito col dolore, le mani che lo hanno edificato son quelle dell'amore, perchè l'anima dell'uomo, per cui il mondo fu creato, non poteva altrimenti raggiungere il limite della sua perfezione. Il piacere per un bel corpo, ma il dolore per una bella anima.

Ma quando dico che sono convinto di queste cose, io parlo con troppo orgoglio. Di lontano, simile a una perla perfetta, si scorge la città di Dio. La vista ne è così meravigliosa che sembra che un fanciullo possa raggiungerla in un giorno d'estate. Ma per me e per coloro che sono simili a me, è differente. Si può, sì, assimilarsi una cosa in un solo istante; ma poi la si perde nelle lunghe ore che seguono interminabili, con piedi di piombo. È troppo difficile rimanere sulle «cime su cui l'anima sa d'innalzarsi». Noi pensiamo sotto la specie dell'eterno, ma pure noi procediamo lentamente col tempo e il tempo come lentamente cammina, per noi che siamo in prigione! Non occorre ch'io ne parli ancora e nemmeno della stanchezza e dello scoraggiamento che s'insinuano dentro le celle o nella cella del nostro cuore con una così strana insistenza che bisogna (per così dire) lustrare e adornare la casa, affinchè essi entrino come ospiti volgari o padroni crudeli dei quali si è, per caso o per elezione, lo schiavo.

Benchè ora i miei amici non lo credano, è pur vero che per essi (che vivono liberi, nell'ozio e nelle comodità) è più facile imparare lezioni d'umiltà che per me, per me che comincio la mia giornata mettendomi in ginocchio a lavare il pavimento della mia cella. Perchè la vita della prigione, colle sue privazioni e i suoi sacrifici innumerevoli, spinge alla rivolta. E il più terribile non è già che essa spezzi il cuore – i cuori non sono fatti per essere infranti? – ma che lo trasformi in una pietra. Tali volte, si sente che solo con una fronte di bronzo e delle labbra sprezzanti si può arrivare alla fine della giornata. Ma colui che si trova in istato di ribellione non può ricevere il dono della grazia, (per usare la frase che la Chiesa ama, con tanta ragione, oserei dire), perchè, nella vita come nell'arte, lo stato di rivolta preclude le vie dell'anima e non lascia passare i soffi del cielo. Tuttavia, se pur devo impararle in qualche luogo, è qui che mi eserciterò nelle lezioni d'umiltà e devo essere pieno di gioia, se i miei piedi sono sulla buona via e il mio volto guarda verso la «porta che è chiamata bella», sebbene io debba cadere ancora tante volte nel fango e spesso disorientarmi in mezzo alla bruma.

Questa Vita Nuova, come la chiamo sovente pel mio amore di Dante, non è a rigore una vita nuova, ma semplicemente, la continuazione, per via di sviluppi e di evoluzioni, della mia prima vita. Quando ero ad Oxford, l'ultimo anno, una mattina in cui passeggiavamo per gli stretti viali gorgheggianti del Magdalen College, mi ricordo d'aver detto a un amico che io volevo gustare tutti i frutti del giardino del mondo e che stavo per metter piede nella vita con questo desiderio chiuso nel profonda della mia anima. È così, infatti, che vi entrai e così che io vissi.

Il mio solo errore fu di limitarmi esclusivamente agli alberi di quel che mi parve il lato luminoso del giardino e di fuggire l'altra parte, impaurito com'ero delle zone d'ombra e della sua oscurità. La non riuscita nel mondo, la sventura, la povertà, il dolore, la disperazione, la sofferenza, le lagrime stesse e le parole monche che sfuggono alle labbra in pena, il rimorso che costringe a camminare sui rovi, la coscienza che condanna, il volontario umiliarsi che avvilisce, la miseria che ricopre i suoi capelli di cenere, l'angoscia che si lacera con un cilicio e mescola il fiele nel calice della sua bevanda – di tutte queste cose insieme io ero spaventato. E siccome ero risoluto a non esperimentarne mai nessuna, fui poi costretto a gustarle ad una ad una, a nutrirmene e ad abbeverarmene, a non avere altro nutrimento durante una intera stagione.

Neppure per un istante io ho rimorso d'aver vissuto per il piacere. Pienamente mi abbandonai ad esso, come è necessario fare tutto quel che si fa. Non c'è voluttà che io non conoscessi. In una coppa di vino gettai la perla della mia anima. Discesi al suono dei flauti pel sentiero fiorito delle primavere. Mi cibai di miele. Ma non sarebbe stato buon consiglio continuare la medesima vita, perchè ciò sarebbe equivalso ad una limitazione. Occorreva procedere oltre. Anche l'altra metà del giardino aveva dei segreti per me. Certo, tutto ciò è detto e preveduto nei miei libri. Una parte nel Principe Felice; un'altra, nel Giovine Re, specialmente nel passo nel quale il vescovo dice al fanciullo inginocchiato: «Colui che ha creato il dolore non è più saggio di te?» È una frase che, quando la scrissi, mi parve veramente più di una semplice frase. Una gran parte di verità è dissimulata sotto l'accento fatale che, simile a un filo di porpora, serpeggia attraverso la trama di Dorian Gray. Nel Critico considerato come artista il presagio si rivela in molte maniere, nell'Anima dell'Uomo è manifesto in chiare lettere, anche troppo facili a leggersi; e non è, esso mònito, uno dei ritornelli che ripetuti motivi rendono Salome simile a uno squarcio musicale e le dànno l'unità organica d'una ballata? Inoltre è incarnato nel poema in prosa dell'uomo che, col bronzo della statua del «Piacere effimero» deve foggiare l'immagine del «Dolore Eterno». Non poteva essere diversamente. In ciascun momento della vita si è quel che si sta per essere, oltre a ciò che si è già stati. L'arte è simbolica, perchè tutto un simbolo è l'uomo.

Se potrò conquistarla completamente, questa Vita Nuova, essa sarà la definitiva realizzazione della vita artistica; in quanto la vita artistica è semplicemente lo sviluppo di sè stesso. L'umiltà per l'artista consiste nell'accettare con cuore franco tutte le esperienze, come l'amore per l'artista è il puro senso della bellezza che rivela al mondo il suo corpo e la sua anima.

In Mario l'Epicureo, Walter Pater cerca nel senso profondo, solenne e dolce della parola, di riconciliare la vita artistica con quella della religione. Ma Mario, quasi, non è che uno spettatore – uno spettatore ideale cui è concesso di «contemplare lo spettacolo della vita con delle emozioni adeguate», ciò che Wordsworth definisce lo scopo vero del poeta; tuttavia è uno spettatore un po' troppo preoccupato della delicata grazia del santuario del dolore che ha pur sotto gli occhi.

Io vedo un vincolo molto più intimo ed immediato tra la vera vita di Cristo e la vera vita dell'artista e provo un grande piacere pensando che, assai tempo prima d'essere dominato e legato al carro del dolore, io avevo scritto, nell'Anima dell'Uomo, che colui il quale volesse condurre una vita simile a quella di Cristo dovrebbe essere interamente e assolutamente sè stesso e avevo preso come esempi non solo il pastore sulla montagna e il prigioniero nella sua cella, ma sì anche il pittore per cui il mondo è una festa di colori e il poeta pel quale l'universo intero è un canto. Mi rammento, una volta che si discuteva in un caffè di Parigi, d'aver detto ad Andrea Gide: la metafisica ha poco interesse reale per me e la morale nessuno; ma tutto ciò che è uscito dalla bocca di Platone o di Cristo può essere trasportato immediatamente nella sfera dell'arte e trovarvi la propria espressione integrale.

Non solo noi possiamo notare in Cristo quel vincolo intimo della personalità con la perfezione in cui consiste la vera differenza tra il movimento classico e il romantico nella vita; ma è un fatto che la sua stessa natura era identica a quella dell'artista – una immaginazione intensa come una fiamma. Egli ebbe nel campo dei rapporti umani quella tale simpatia immaginativa che, nel dominio dell'arte, forma il segreto unico della creazione. Comprese la lebbra del lebbroso, la tenebra del cieco, la crudele miseria di coloro che vivono non cercando altro che il piacere, la strana povertà del ricco. Qualcuno mi ha scritto, durante il periodo più acuto delle mie angoscie «Caduto dal vostro piedestallo, non siete più interessante». Oh, quanto egli era lontano, dicendo questo, dal «segreto di Gesù»! – per adoperare una espressione di Matteo Arnold. L'uno e l'altro gli avrebbero potuto insegnare che ciò che succede ad un uomo succede ugualmente a voi. Se volete una massima da leggere dall'alba alla notte, nelle ore di gioia e nelle ore di tristezza, incidete sulle pareti della vostra casa queste lettere (che saranno dorate dal sole, inargentate dalla luna): «Tutto quel che capita a me stesso, capiterà anche ad altri».

Senza dubbio, Cristo va collocato assieme con i poeti. La sua concezione dell'Umanità era una risultante diretta della sola immaginazione – che può comprenderla. Egli considerò l'uomo come il panteista aveva considerato Dio. Fu il primo a concepire l'unità delle razze divise. Avanti ch'Egli apparisse, c'erano stati degli dèi e degli uomini, e Cristo sentendo per mezzo della sua mistica simpatia che ciascuno di essi era incarnato in sè, si denomina, a seconda, o il figlio di Dio o il figlio dell'Uomo. Più di qualsiasi altro nella storia Egli desta in noi quella facoltà del meraviglioso cui si rivolge sempre l'elemento romanzesco. C'è ancora in me qualcosa d'incredibile nell'idea di questo giovine artigiano galilèo che s'immagina di poter portare sulle sue spalle il peso del mondo intero: tutto quel ch'era già stato compiuto e sofferto, i delitti di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI e di colui che fu Imperatore di Roma e sacerdote del sole, le torture di coloro i cui nomi sono legioni e che riposano nei cimiteri, le nazioni oppresse, i fanciulli martiri delle officine, i ladri, i carcerati, i proscritti, coloro che sono diventati muti nel servaggio e de' quali solamente Dio comprende il silenzio; e tutto questo non era una semplice immaginazione, ma un fatto vero, compiuto, in modo che ora tutti quelli che cercano di penetrare nella sua personalità – quantunque non si curvino davanti a' suoi altari, nè s'inginocchino innanzi a' suoi preti – s'avvedono, in qualche modo, che la macchia del loro peccato è lavata ed hanno la rivelazione della bellezza del loro soffrire.

Dicevo che Cristo va messo assieme con i poeti. È vero. Shelley e Sofocle l'accompagnano. Ma tutta la sua vita intera è il più meraviglioso dei poemi. Quanto a «pietà e terrore», non c'è niente di simile nel ciclo complessivo della tragedia ellènica. La purità del protagonista innalza tutto il piano della sua vita ad un'altezza d'arte romantica donde – a causa dell'orrore – sono eliminate le tribolazioni di Tebe e della schiatta dei Pelòpidi; ed essa mostra ancora quanto avesse torto Aristotile ad affermare, nel suo trattato sul dramma, che riuscirebbe impossibile sopportare lo spettacolo d'un personaggio irreprensibile nel dolore. Nè in Eschilo nè in Dante, questi genî austeri della più accorata poesia, nè in Shakespeare, il più umano di tutti i grandi artisti, e nemmeno nell'insieme dei miti e delle leggende celtiche (ne' quali la bellezza del mondo s'intravvede sotto un velo di lacrime e in cui la vita d'un uomo non è da più della vita di un fiore) si può trovare qualcosa che, per la semplice emozione unita alla sublimità dell'effetto tragico, stia alla pari o soltanto s'approssimi all'ultimo atto della passione di Cristo.

La cena con i suoi discepoli, da uno dei quali è già stato venduto per una somma di danaro; l'angosciosa agonia nell'orto tranquillo illuminato dalla luna; il falso amico che gli si avvicina per tradirlo con un bacio; l'amico – che credeva ancora in Lui e sul quale Egli, come su una roccia granitica, aveva sperato di poter costruire un rifugio per l'Uomo – che lo rinnega, invece, nell'ora in cui il gallo saluta l'aurora; il suo isolamento assoluto, la sua sottomissione, la sua rassegnazione; inoltre: le scene nelle quali il gran sacerdote dell'ortodossia gli lacera con furia le vesti, e il magistrato civile dell'impero chiede dell'acqua, sperando invano di lavarsi quella macchia di sangue che dovrà contrassegnarlo come la rossa figura della storia; la cerimonia dolorosa della corona di spine – una delle cose più meravigliose nella cronaca dei tempi; la crocefissione dell'innocente sotto gli occhi di sua madre e del discepolo che l'amava, i soldati che si giocano a dadi gli abiti del martire; la morte terribile con la quale egli ha dato al mondo il suo più eterno simbolo; e poi la sepoltura finale nella tomba dell'uomo ricco; il suo corpo fasciato di bende egiziane e profumato di aromi costosi, come se fosse stato il figlio di un re... Quando si considera tutto ciò unicamente dal punto di vista dell'arte, bisogna pure essere riconoscenti alla Chiesa del fatto che il supremo rito della Chiesa stessa consista nella rappresentazione della tragedia senza spargimento di sangue: mistica rappresentazione della Passione del Signore per mezzo di dialoghi, di costumi e di gesti. Ed è per me una ragione di piacere e di rispetto commosso il pensare che il coro greco, altrimenti perduto per l'arte, sia sopravvissuto infine nel chierico che risponde al prete celebratore della messa.

E però la vita di Cristo – a tal punto dolore e bellezza si possono fondere nella loro manifestazione piena di significato – è realmente un idillio, quantunque essa termini col velario del tempo che si lacera, colle tenebre che si addensano sulla faccia della terra e colla pietra trascinata fino all'ingresso della sepoltura. Si pensa sempre a Cristo come ad un fidanzato in mezzo a' suoi compagni e, d'altronde, è proprio così ch'egli si compiace di chiamarsi in alcuni luoghi; come ad un pastore che trascorra di valle in valle col suo gregge alla ricerca di verdi prati e di ruscelli d'argento; come a un cantore che provi colla sua musica di costruire le mura della città di Dio; o come a un amante le cui capacità d'amore sono troppo vaste per il nostro piccolo mondo. I suoi miracoli mi sembrano squisiti come il primo soffio della primavera ed altrettanto naturali. Non ho alcuna difficoltà a credere che il fascino della sua persona doveva essere tale da poter dare la pace alle anime tormentate con la sua sola presenza e che coloro i quali gli toccavano la tunica e le mani dimenticavano le proprie sofferenze; e che, quando egli passava sulla grande via della vita, uomini che non avevano mai visto nulla nel mistero di vivere, ad un tratto si sentivano aprire gli occhi ed altri, rimasti sempre sordi a tutte le voci, tranne che a quella della voluttà, udivano per la prima volta la voce dell'amore e la trovavano «così musicale come la lira d'Apollo»; nè ho difficoltà a credere che le malvagie passioni s'involavano al suo avvicinarsi e gli uomini, le esistenze dei quali erano sempre state meschine, simili alla morte, balzavano fuori della tomba – per così dire – appena egli li chiamava; oppure, quando egli predicava sulla montagna, la moltitudine obliava la fame, la sete e le cure del mondo; e quando egli conversava con gli amici e i discepoli durante la cena, il cibo grossolano sembrava delicato e l'acqua assumeva il gusto del vino e tutta la casa s'empiva del profumo dolce del nardo.

Nella Vita di Gesù – questo delizioso quinto evangelo, l'evangelo secondo San Tommaso, si potrebbe chiamarlo – Renan dice in qualche passo che il grande segreto di Cristo fu quello di farsi amare dopo la morte quanto era stato amato in vita.

Certamente, se il suo posto è tra i poeti, egli è il principe degli amanti. Egli vide che l'amore è il principio primordiale del mondo, il segreto che cercavano i saggi – ed è soltanto per mezzo dell'amore che ci si può accostare al lebbroso e al signore.

Ma, oltre a tutto ciò, Cristo è il supremo individualista. L'umiltà, in quanto accettazione artistica di ogni esperienza, è un semplice modo di manifestarsi. È l'anima dell'uomo che Cristo cerca di raggiungere senza tregua. Egli la chiama «regno di Dio» e la trova in ciascuno di noi. La còmpara a delle piccole cose, a una sottile semenza, a un pugno di lievito, ad una perla. E non si afferra la realtà della propria anima se non liberandosi di tutte le passioni estranee, di ogni coltura sovrapposta, di ogni possesso acquisito – sia esso buono o cattivo.

Io mi ostinai contro tutto, con tenacia e con ribellione, sino a che non restasse in me più che una sola cosa al mondo. Avevo perduto il mio nome, la mia posizione, la mia felicità, la mia libertà, la mia ricchezza. Ero povero e prigioniero. Ma mi rimanevano ancora i miei figli. Ad un tratto anch'essi mi furono tolti. Fu un colpo così tremendo che non seppi più cosa fare; mi gettai in ginocchio, curvai la testa e piansi, esclamando: «Il corpo del Signore è come quello d'un fanciullo; io non sono più degno nè dell'uno nè dell'altro». Ed ecco: in questo istante mi parve di salvarmi. Vidi allora che la sola cosa per me era di accettare tutto. Da quel momento in poi – per quanto ciò paia curioso – io fui più felice. Si è che io avevo toccato la mia anima nella sua essenza suprema. In molte maniere me l'ero inimicata, ma essa mi attendeva ancora come un amico. Quando si entra in comunione coll'anima, si diventa puri come fanciulli – Cristo l'ha detto.

È veramente tragico che così poche persone riescano a «possedere la loro anima» prima di morire. «Nulla è più raro in un uomo – dice Emerson – di un'azione che sia proprio sua». È assolutamente vero. La maggior parte degli esseri sono degli altri esseri. I loro pensieri sono l'opinione di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni un'eco di riflesso. Cristo non fu soltanto il supremo individualista, ma anche il primo degli individualisti della storia. Si è tentato di considerarlo come uno dei tanti filantropi e l'hanno pure accomunato agli altruisti, come un'ignorante e un sentimentale.

Ma non fu, realmente, nè una cosa, nè l'altra. Certo, egli ha il senso della pietà per i poveri, per coloro che sono relegati nelle prigioni, per gli umili, per i miserabili, ma egli ha molta più compassione per i ricchi, per gli edonisti, per coloro che sacrificano la loro libertà e divengono gli schiavi delle cose, per quelli che portano abiti preziosi e abitano in palazzi regali.

Le ricchezze e le voluttà a lui sembrano invero delle tragedie più grandi che la penuria e il dolore. Quanto all'altruismo, poi, chi sapeva meglio di lui che non è la volontà, ma bensì la vocazione quella che ci spinge a compiere il bene e che non si potrebbero cogliere dei grappoli su dei roveti, nè dei fichi sui cardi?

Vivere per gli altri, come scopo cosciente e definito, non era già la sua fede. Non era la base della sua fede. Quando egli dice: «perdonate ai vostri nemici», non afferma questo per amor del nemico, ma per amor di sè stesso, perchè l'amore è più bello dell'odio. Consigliando al giovane ricco: «va e vendi tutto che possiedi e dònalo ai poveri» non è ai poveri che Cristo pensa, ma all'anima del giovane, l'anima che era rovinata dalla ricchezza. Nella visione della vita egli è d'accordo con l'artista il quale sa che, per l'inevitabile legge del perfetto sviluppo di sè stesso il poeta deve cantare, lo scultore pensare nel bronzo e il pittore fare del mondo lo specchio delle proprie emozioni; appunto come il biancospino deve sbocciare in primavera, il grano tingersi d'oro nel giugno e la luna, ne' suoi puntuali viaggi, deve cambiarsi di scudo in falce e di falce in iscudo.

Ma, mentre Cristo non ha mai detto agli uomini: «Vivete per gli altri» egli ha mostrato, però, che non c'è nessuna differenza tra la nostra e l'altrui vita. Con questo mezzo egli ha dato all'uomo una personalità estesissima e titanica. Dopo la sua apparizione, la storia di ogni individuo particolare si è trasformata o può trasformarsi nella storia stessa del mondo. Senza dubbio, anche la cultura ha intensificato la personalità dell'uomo. L'arte ci ha dato degli spiriti innumerevoli come miriadi. Coloro che hanno temperamento artistico seguono Dante nell'esilio e imparano «come sa di sale – lo pane altrui e com'è duro calle – lo scender e il salir per l'altrui scale»; essi acquistano per un momento la serenità e la calma di Goethe e tuttavia non ignorano quel che Baudelaire ha gridato a Dio:

O Signore, dammi la forza e il coraggio di contemplare il mio corpo e il mio cuore senza vergogna.

Con loro proprio svantaggio, forse, traggono dai sonetti di Shakespeare il segreto del suo amore e se ne impadroniscono; essi contemplano con occhi nuovi la vita moderna, perchè hanno ascoltato dei notturni di Chopin o perchè hanno maneggiato dei gioielli greci o hanno letto la storia della passione che un uomo ebbe un tempo lontano per una donna dalla capigliatura fine come l'oro e dalla bocca simile a una melagrana. Ma la simpatia del temperamento artistico si rivolge di necessità a ciò che ha trovato la sua propria espressione. Con delle parole o con dei colori, con la musica o col marmo, dietro la maschera dei personaggi d'Eschilo o con le fistule traforate d'un pastore siciliano, dovettero rivelarsi l'uomo e la sua intimità.

Per l'artista, l'espressione è il solo aspetto secondo il quale egli possa concepire la vita. Per lui ciò che è muto è morto. Ma per Cristo, invece, non era così. Con una immaginazione meravigliosa e vasta, che talvolta riempie di spavento, egli assunse per regno il mondo intero dell'immobilità, il mondo senza voce del dolore e ne divenne l'interprete. Scelse come suoi fratelli coloro che sono muti sotto il servaggio e «il silenzio dei quali non è inteso altro che da Dio». Egli volle divenire l'occhio dei ciechi, l'orecchio dei sordi e un grido sulle labbra di coloro che avevano la lingua recisa. Il suo desiderio era d'essere una tromba per le miriadi d'uomini che non avevano mai potuto esprimersi, una tromba con la quale egli lancerebbe il loro anelito verso il cielo. Con la natura artistica d'un essere pel quale sofferenza e dolore erano mezzi, attraverso cui giungere alla realtà della sua concezione del bello, egli sentì che un'idea non ha valore se non quando s'incarna, se non quando se ne forma un'immagine, e fece di sè stesso l'immagine dell'Uomo del Dolore; ed è appunto con questa figura che egli ha affascinato e dominato l'arte come nessuna divinità greca era riuscita a fare mai.

Poichè gli dei dell'Ellade, nonostante il bianco ed il roseo delle loro agili membra, non erano, in realtà, ciò che mostravano d'essere.

La fronte ben tornita d'Apollo era simile al disco del sole che sorge all'aurora dietro una collina e i suoi piedi erano come i soffi della brezza del mattino, ma egli era stato crudele contro Marsia e aveva rapito a Niobe i suoi figlioli; nell'egida d'acciaio degli occhi di Minerva non c'era mai stata pietà per Aracne; il fasto e i pavoni di Giunone erano tutto ciò che esisteva di veramente nobile in lei e il Padre degli Dei esso stesso mostrò troppa tenerezza per le figlie dei mortali. Le due figure più profondamente suggestive della mitologia greca furono, per la religione, Demetra, dea della Terra, che non era ammessa nell'Olimpo, e, per l'arte, Diònysos figlio di una donna effimera che morì nel darlo alla luce.

Eppure la vita stessa, nella sua più modesta e più umile sfera, produsse una meraviglia più ammirevole che la madre di Proserpina o il figlio di Semele. Dalla bottega del falegname di Nazareth sorse una personalità infinitamente più grande di tutte quelle create dalla leggenda e dal mito e destinata – cosa strana! – a rivelare al mondo il senso mistico del vino e delle reali bellezze del giglio nella valle, come nessuno aveva fatto ancora, nè sul Citerone, nè a Enna.

Il canto d'Isaia: «Egli è il disprezzato e l'ultimo degli uomini, un uomo di colore che conosce l'angoscia e noi gli abbiamo nascosta la nostra faccia» gli era parso una profezia e la profezia fu compiuta nella sua persona. Ogni opera d'arte che è creata è il compimento d'una profezia, perchè ciascuna opera d'arte è la conversione d'un'idea in una immagine. Così pure ogni creatura umana deve essere il compimento d'una profezia, perchè ciascuna creatura umana dovrebbe essere la realizzazione di qualche ideale, sia nello spirito di Dio che nello spirito dell'uomo. Cristo trovò il tipo e lo delineò; talchè il sogno di un poeta virgiliano, a Gerusalemme o a Babilonia, nel lungo cammino dei secoli, s'incarnò in colui che il mondo «attendeva».

Per me, una delle cose più dolorose della storia si è che la vera rinàscita di Cristo – che produsse la cattedrale di Chartres, il ciclo delle leggende d'Artù, la vita di San Francesco d'Assisi, l'arte di Giotto e la Divina Commedia di Dante – non abbia avuto la libertà di svilupparsi secondo le sue proprie linee interne, ma invece sia stata interrotta e violentata dalla fredda rinàscita classica che ci ha dato gli affreschi di Raffaello, l'architettura di Palladio, la tragedia francese convenzionale, la cattedrale di S. Paolo, la poesia di Pope e tutto ciò, insomma, che è creato dal di fuori, secondo regole morte, che non emana dall'intimo di un potente soffio inspiratore. Ma dovunque si verifica un movimento romantico in arte, là, in un modo o nell'altro, si trova Cristo o l'anima di Cristo. Egli è in Romeo e Giulietta, nel Racconto d'inverno, nella poesia provenzale, nella Ballata del Vecchio marinaio, nella Belle dame sans merci e nella Ballata della carità, di Chatterton.

Dobbiamo all'anima di Cristo le cose e i generi più diversi. I miserabili di Hugo, I fiori del male di Baudelaire, la nota pietosa dei romanzi russi, Verlaine e i suoi poemi; le vetrate, le tappezzerie e i lavori quattrocenteschi di Burne-Jones e di William Morris le appartengono non meno che il campanile di Giotto, Lancillotto e Ginevra, Thannhäuser e i marmi violenti di Michelangiolo, l'architettura gotica, l'amore per i fanciulli e l'amore per i fiori. A queste due ultime cose, veramente, l'arte classica non accorda che poco posto, appena quel tanto che basta per farli crescere e giuocare; eppure dal dodicesimo secolo ai nostri giorni essi non hanno mai cessato di comparire nell'arte in attitudini varie e in età diverse, a un tratto e capricciosamente sorgendo, appunto come i fanciulli ed i fiori: la primavera dà sempre l'idea che i fiori si siano nascosti e che ricompaiano al sole per la paura che gli uomini si stanchino di cercarli e vi rinuncino; e la vita d'un fanciullo non è altro che un giorno d'aprile con delle pioggie e delle zone di sole per i narcisi.

Ora è questo carattere immaginativo della natura di Cristo che lo rende il centro palpitante dello spirito romantico. Le strane figurazioni del poema drammatico e della ballata sono create dalla fantasia d'un altro, ma Gesù di Nazareth si è interamente creato per proprio conto. Il canto d'Isaïa, in vero, aveva da fare con la venuta di Cristo, tanto quanto il gorgheggio dell'usignuolo coll'alzarsi della luna – nulla di più e nulla di meno. Egli fu la negazione come pure l'affermazione della profezia. Per ogni speranza che realizzava, un'altra ne distruggeva. «In ogni bellezza – dice Bacone – c'è qualche stranezza di proporzione»; e di coloro che, come lui, sono delle forze dinàmiche – Cristo dice che sono come il vento che «soffia dove gli pare e nessuno può dire, nè donde venga, nè dove vada». Perciò il suo ascendente è così grande sugli artisti. Egli ha tutti i colori della vita: il mistero, la stranezza, il patetico, la suggestione, l'estasi e l'amore. Si rivolge allo spirito del miracolo e crea quel tale stato d'animo, solo nel quale può essere compreso.

E per me è una gioia, ora, il considerare che s'egli è «tutta immaginazione» il mondo stesso è di una identica sostanza. Ho detto, nel Dorian Gray, che i grandi delitti del mondo accadono nell'intimo del cervello. Ma non è pure nel cervello che tutto accade? Adesso sappiamo che noi non vediamo con gli occhi, nè udiamo con le orecchie. Essi non sono che dei canali per trasmettere con più o meno di esattezza le impressioni dei sensi. È dentro il cervello, che il papavero è rosso, e la mela odora e l'allodola canta.

Da qualche tempo io studio con cura i quattro poemi in prosa che riguardano la figura di Cristo. Per Natale sono riuscito a procurarmi un Testamento Greco ed ogni mattina, dopo aver spazzato la mia cella e forbito i miei utensili, leggo un passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso, non importa dove. È una deliziosa maniera di cominciar la giornata. Ciascuno, anche vivendo una vita turbinosa e disordinata, dovrebbe fare così. Ripetizioni interminabili, ad ogni proposito e fuori scopo, ci hanno sciupato la freschezza, l'ingenuità, la grazia semplice e romantica dei Vangeli. Li sentiamo leggere e citare troppo spesso e troppo male, ed ogni insistenza di questo genere è anti-spirituale. Quando si torna al testo greco, pare di entrare in un'aiuola di gigli, uscendo da una casa angusta ed oscura.

Il piacere è raddoppiato per me dal pensiero che è assai probabile che noi adoperiamo le medesime frasi, ipsissima verba, usate da Cristo. Si ritenne per certo, a lungo, ch'egli si esprimesse in aràmico. Anche Renan lo credeva. Ma ora sappiano che gli abitanti della Galilea, come gli Irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui e il greco era il linguaggio ordinario che serviva per le relazioni quotidiane da un capo all'altro della Palestina e, veramente, da un punto all'altro di tutto il mondo orientale. Ero spiacente di non poter conoscere le parole di Cristo, se non a traverso la traduzione di una traduzione. Sì, è per me una delizia pensare che, almeno per la semplice conversazione, Càrmide avrebbe potuto ascoltarlo e Socrate parlare con lui e Platone comprenderlo; ch'egli pronunciò esattamente: ἐγώ είμι ὄ ποιμἠν ὀ ϰαλὅς (io sono il buon pastore); che quando pensava ai gigli del campo, i quali non lavorano e non filano, egli s'espresse precisamente cosí: Κατα μὰϑετει τὰ ϰρίνα τοῦ πῶς αύξάνεί αγρού οῦ ϰοπιᾶ ούδὲ νηϑε e che la sua ultima parola, quando gridò: «Tutto è finito, la mia vita è terminata, ha toccato il vertice della sua perfezione», fu proprio quella che ci riporta San Giovanni: τετὲλεσται e nulla più.

Leggendo i Vangeli – specialmente il Quarto, quello di San Giovanni o del Gnostico, chiunque sia colui che assunse il suo nome e il suo abito – io vedo di continuo che l'immaginazione è messa innanzi come la base di ogni vita spirituale e materiale; e, inoltre, per Cristo l'immaginazione era una semplice forma dell'amore e l'amore era sovrano nel senso più esteso del termine. Circa sei settimane fa il medico mi accordò il permesso di mangiare del pane bianco invece del ruvido pane nero o bigio del regime ordinario. È una vera ghiottoneria. Parrà strano che del pane secco possa essere una ghiottoneria. Per me lo è a tal punto che, alla fine di ciascun pasto, io mangio accuratamente le briciole rimaste sul mio piatto di metallo o cadute sulla grossa salvietta che ci serve di tovaglia per non sporcare la tavola; e non lo faccio per fame – il vitto che mi dànno è sufficiente – ma solo per non perdere nulla di ciò che mi è dato. È in questo modo che bisogna considerare l'amore.

Cristo, come tutte le figure affascinanti, aveva il potere non soltanto di dire lui stesso delle cose belle, ma anche di farsi dire delle belle cose dagli altri. E a me piace la storia, che ci racconta San Marco, d'una donna greca la quale, dicendole Cristo (per mettere alla prova la sua fede) di non poterle dare il pane dei figli d'Israele, – replicò che i piccoli cani – Κυνάιρια – accucciati sotto la tavola, si nutrono delle briciole che i bimbi fanno cadere.

La maggior parte degli uomini vivono per l'amore e per l'ammirazione, ma invece è per mezzo dell'ammirazione e dell'amore che noi dovremmo vivere. Se alcuno ci mostra dell'amore, noi dovremmo riconoscere che ne siamo perfettamente indegni. Nessuno è degno d'essere amato. Il fatto che Dio ama l'uomo ci prova che, nell'ordine divino delle cose ideali, è stabilito che un eterno amore sarà dato a chi ne è eternamente indegno. Ovvero, se questa frase sembra troppo amara, diciamo che tutti gli uomini sono degni d'amore, tranne coloro che possono esserlo. L'amore è un sacramento che bisognerebbe accogliere in ginocchio e Domine, non sum dignus dovrebbe essere la frase di coloro che lo ricevono, sulle loro labbra e nel loro cuore.

Se io scriverò ancora nel senso di creare un'opera d'arte, due sono i soggetti, sopra tutto, sui quali e per mezzo dei quali voglio esprimermi; uno è «Cristo come precursore dell'atteggiamento romantico nella vita» l'altro: «La vita artistica considerata ne' suoi rapporti con la condotta umana». Il primo è, senza alcun dubbio, assai seducente, perchè io vedo in Cristo non solo il principio essenziale del supremo tipo romantico, ma anche tutte le contingenze e le stesse perversità del temperamento romantico. Egli fu il primo a dire agli uomini di vivere come i fiori e ha fissato sempre la frase. Cristo prese i fanciulli come tipo e modello per le aspirazioni umane. Li propose come esempio ai loro genitori – cosa che io ho sempre pensato, se è vero che si deve giovarsi di ciò che è perfetto.

Dante descrive l'anima dell'uomo come proveniente da Dio «che piangendo e ridendo pargoleggia» ed anche Cristo aveva veduto che l'anima di ciascuno di noi dovrebbe essere a guisa di fanciullache piangendo e ridendo pargoleggia. Sentì che la vita è mutevole, fluida, attiva e che permetterle di stereotiparsi in una forma qualsiasi, significa farla morire. Cristo disse che gli uomini non devono preoccuparsi eccessivamente dei loro interessi materiali e comuni; che solo il liberarsi dalle faccende pratiche è una cosa importante. Gli uccelli non si affannano per interesse di sorta. Perchè l'uomo, dunque, se ne cruccia? È delizioso, quando afferma: «Non curatevi del domani; l'anima non val più che la carne? E il corpo più della veste?» Un greco avrebbe potuto usare quest'ultima frase. Essa è piena di sentimento greco. Ma solo Cristo poteva enumerarle tutte e due e riassumere così perfettamente la vita.

La sua morale è tutta di simpatia, appunto come dev'essere la morale. Se non avesse mai detto altro che queste parole: «I suoi peccati le sono perdonati, perchè ha molto amato», metterebbe il conto di morire per averle dette. La sua giustizia è una giustizia tutta poetica, appunto come la giustizia dev'essere. Il malfattore andrà in paradiso, perchè è stato infelice; io non trovo una ragione migliore per mandarvelo. Gli artigiani che non hanno lavorato che un'ora sola nella vigna e durante la fresca brezza della sera, riscuotono lo stesso salario di coloro che hanno sudato tutto il giorno in mezzo ai tralci, sotto la sferza del sole. Probabilmente, nessuno meritava di essere pagato. O, forse, gli artigiani erano differenti? Cristo non aveva nessun trasporto per i sistemi meccanici, privi d'anima, che trattano gli uomini come se fossero degli oggetti e trattano tutto il mondo alla stessa stregua: per lui non esistevano leggi; c'erano semplicemente delle eccezioni; come se ogni uomo od ogni cosa non trovassero alcun simile.

Ciò che forma il tono stesso dell'arte romantica era per Cristo il vero fondamento della vita naturale. Non ne scorgeva altro. E quando gli fu condotta innanzi una donna sorpresa in flagrante adulterio e gli fu indicata la sentenza della legge e gli venne chiesto ciò che occorreva fare, egli continuò a scrivere col suo dito sulla sabbia come se non avesse udito, e quando lo si esortò a rispondere, alzò la testa e disse: «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra». Mette conto di vivere per pronunciare una simile frase.

Come tutte le nature poetiche, egli amava gl'ignoranti. Ben egli sapeva che nell'anima d'un essere ignorante c'è sempre posto per una grande idea. Ma non poteva sopportare gli stupidi, specie coloro che sono resi tali dall'educazione: gli uomini pieni d'opinioni delle quali non ne capiscono neppur una – tipo particolarmente moderno, messo in luce da Cristo quando lo dipinge come il tipo di colui che possiede la chiave della conoscenza, ma che, incapace di servirsene per conto proprio, impedisce anche agli altri di usarla, quantunque essa possa aprire la porta del regno del Cielo. Contro i Filistei egli condusse la sua più fiera campagna. È la guerra che devono combattere tutti i figli della luce. Il Filisteo era la figura caratteristica dell'età e dell'ambiente nel quale Cristo viveva. Con la loro opaca rispettabilità, la loro noiosa ortodossia, con la loro esclusiva preoccupazione del lato volgarmente materialistico della vita e la loro prosopopea di se stessi e della propria importanza, i Giudei di Gerusalemme, al tempo di Cristo, erano l'immagine esatta del filisteismo britannico del nostro tempo. Cristo si beffò dei «sepolcri imbiancati» e la sua frase rimase eterna. Trattò il successo materiale come una cosa da disprezzarsi assolutamente. Non voleva vedere in esso nulla d'importante. Considerava la ricchezza come un ingombro per l'uomo. Non voleva affatto sentir parlare di sacrificio della vita a un qualunque «sistema» di pensiero o di morale. Mostrò che le forme e le cerimonie erano fatte per l'uomo e non già l'uomo per le forme, le convenzioni e le cerimonie. Prese l'idolatria del sabato a bersaglio delle sue sfide. Le filantropie a freddo, le ostentate carità pubbliche, i massacranti formalismi così cari allo spirito dei mediocri – tutto denunciò con uno sdegno implacabile. Per noi l'ortodossia è semplicemente un'acquiescenza facile e idiota, ma per essi e nelle loro mani era una tirannide terribile e paralizzatrice. Cristo la ripudiò. Sostenne e provò che soltanto lo spirito contiene un valore. Quasi con un maligno piacere dimostrava loro che, malgrado lo studio continuo della legge e dei profeti, essi non avevano, in realtà, la più piccola idea di quel che le une e gli altri significassero. Al contrario della loro suddivisione di ogni giornata in una serie fissa di pratiche prescritte, come un tritume di menta e di ruta, egli predicò l'enorme valore di vivere per l'ora presente.

Coloro ch'egli salvò dai peccati, furono salvi soltanto per merito di alcuni momenti belli nella loro vita. Nel veder Cristo, Maria Maddalena spezza il ricco vaso d'alabastro donàtole da uno de' suoi amanti e sparge gli aromi sui piedi stanchi e polverosi del Maestro; ed è appunto in forza di questo momento unico ch'ella è posta per sempre, con Ruth e Beatrice, in mezzo alle ghirlande di rose bianche del Paradiso. Tutto ciò che Cristo ci insegna con piccoli mòniti si è che ogni istante della nostra vita deve essere bello, che l'anima ha da essere pronta per l'arrivo dello sposo, sempre attenta alla voce dell'amante – poichè il Filisteismo è semplicemente quel lato dell'indole dell'uomo che non s'illumina alla fiamma dell'immaginazione. Cristo vede tutte le più splendide facoltà della vita come delle attitudini luminose: la stessa immaginazione è la luce del mondo. Il mondo è creato da lei e tuttavia non la comprende; il che si spiega, poichè l'immaginazione è un manifestarsi dell'amore ed è l'amore e la facoltà d'amare che distinguono tra loro gli esseri umani.

Senonchè, gli è nelle sue relazioni con i peccatori che Cristo è sopra tutto romantico, nel senso più reale della parola. Il mondo aveva sempre venerato i santi, perchè sono i più prossimi alla perfezione di Dio. Cristo, invece, guidato da un istinto divino, sembra che abbia sempre amato il peccatore come il più prossimo alla perfezione dell'uomo. Il suo desiderio originario non era già quello di redimere gli uomini – come non era di lenire il dolore. Trasformare un ladro interessante in un onest'uomo noioso – non era proprio il suo scopo. Egli avrebbe avuto una ben misera idea della Società per la Redenzione dei Carcerati e d'altre iniziative moderne del medesimo genere. La conversione d'un pubblicano in un fariseo non gli sarebbe parsa un atto molto degno di gloria. Ma egli considerava il peccato e la sofferenza in una maniera che il mondo non ha peranco compreso, come due cose belle e sante, come forme di perfezione.

Questa sembra un'idea pericolosa ed è pericolosa, di fatti, come tutte le grandi idee. Ma non c'è nessun dubbio ch'era veramente il credo di Cristo. Ed io non esito a ritenerla una verità straordinaria.

Certo, occorre che il peccatore si penta. Ma perchè? Per la semplice ragione che, altrimenti, non potrebbe rendersi conto di ciò che ha fatto. L'istante del pentimento è quello stesso dell'iniziazione. È anche più: è il mezzo col quale si muta il proprio passato. I Greci non reputavano possibile tutto ciò. Spesso affermano nei loro aforismi gnòmici: «Nemmeno gli Dei potrebbero mutare il loro passato». Ebbene – Cristo ha mostrato che il più comune dei peccatori può farlo e che anzi è l'unica cosa che può fare.

Se ne fosse stato richiesto, Cristo, ne sono sicuro, avrebbe risposto che nell'istante in cui il figlio prodigo cadde in ginocchio davanti al padre e ruppe in singhiozzi, egli trasformò le sue orgie, le sue umiliazioni e la sua degradazione in altrettanti momenti belli e santi della propria vita. È difficile, lo so, per la maggior parte degli uomini, l'afferrare una idea siffatta. Oso dire che bisogna andare in prigione per poterla comprendere. E se così è, vale veramente la pena di vivere in una galera.

C'è qualche cosa di così unico, in Cristo! Certo – come ci sono delle false aurore prima dell'aurora vera e dei giorni d'inverno incredibilmente dolci di sole che ingannano il croco e gli fanno sciupare l'oro anzi tempo o spingono il troppo ingenuo uccello al canto per invitare la sua compagna a costruire un nido su delle frasche ignude – così ci furono dei cristiani avanti Cristo. E siamone loro riconoscenti. Ma il male si è che non ce ne furono più dopo di lui. Faccio un'eccezione: San Francesco d'Assisi. Ma Dio gli aveva dato sin dalla nascita un'anima di poeta ed egli stesso, nella sua prima giovinezza, aveva tolto in mistiche nozze la sua sposa Povertà; con l'anima d'un poeta e il corpo d'un mendicante, San Francesco non percorre troppo difficilmente la via della perfezione. Egli comprese Cristo e così divenne simile a Lui. Non abbiamo bisogno del Liber conformitatum per apprendere che la vita di San Francesco è la vera Imitazione di Cristo; – poema che, comparato al Liber, non è che una prosa.

Sicuramente, il fascino di Cristo si è ch'egli è in tutto e per tutto simile ad un'opera d'arte. Non c'insegna nulla, in realtà; ma pel solo fatto d'essere condotti alla sua presenza si diventa qualcosa di più. E ciascuno di noi è predestinato a questa presenza. Almeno una volta nella sua vita, ogni uomo cammina con Cristo sino ad Emmaüs.

Ora – per ciò che riguarda l'altro soggetto, vale a dire il rapporto della Vita Artistica con la Condotta Umana, vi sembrerà certamente strano ch'io l'abbia scelto. La gente si mostra a dito il carcere di Reading e dice: «Ecco là a che cosa conduce una vita artistica!» Che monta? essa potrebbe menare anche a dei luoghi peggiori. Gli uomini meccanizzati pei quali la vita è una continua speculazione, dipendente da uno scrupoloso calcolo di mezzi e di sistemi, – essi lo sanno sempre dove vogliono arrivare e ci arrivano. Si mettono in cammino col desiderio ideale d'essere sagrestani della loro parrocchia e, qualunque sia la sfera in cui agiscono, finiscono sempre coll'essere sagrestani della loro parrocchia, e nulla più. Un individuo che brama di divenire qualcosa di diverso da sè stesso, cioè: d'essere membro del Parlamento o pizzicagnolo che s'arricchisce o avvocato famoso o giudice o qualche cos'altro di ugualmente noioso, riesce con ogni probabilità a divenire ciò che desidera. Ed è così che trova il suo castigo. Coloro che vogliono una maschera sono condannati a portarla per sempre.

Ma con le energie dinamiche della vita e con coloro ne' quali queste forze s'incàrnano, tutto è diverso. Quelli che desiderano soltanto di essere sè stessi non sanno mai dove vanno. Non possono saperlo. In un senso del termine, è necessario e naturale il conoscere sè stessi, – come disse l'oràcolo ellenico; questo è il primo passo della conoscenza. Ma riconoscere che l'anima d'un uomo è inconoscibile – ecco l'ultimo risultato della saggezza. Il mistero finale risiede in noi stessi. Dopo aver pesato il calore e la massa del sole, misurate le fasi della luna, disegnate le mappe dei sette cieli, stella per stella, – è ancora l'«io» in sè, che rimane. Chi può calcolare l'orbita della propria anima? Quando il figlio si pose in cammino per rintracciare gli asini di suo padre, egli non sapeva che l'uomo di Dio lo aspettava con la crèsima della consacrazione e che la sua anima era già quella di un re.

Spero di vivere abbastanza per produrre un'opera di tal carattere ch'io possa dire alla fine dei miei giorni: «Sì!; ecco a che cosa può condurre un uomo, una vita Artistica!» Due delle vite più perfette ch'io mi conosca sono quelle di Verlaine e del principe Kropotkine. Entrambi hanno passato degli anni in prigione; il primo è l'unico poeta cristiano dopo Dante; l'altro possiede una bella anima di Cristo candido, come ci si attende che debbano venirne dalla Russia. Durante gli ultimi sette od otto mesi, – nonostante una serie di crucci che mi son venuti dal mondo esterno (quasi senza interruzione) – mi sono messo in contatto immediato con uno spirito nuovo che agisce in questo carcere per mezzo degli uomini e delle cose e che mi ha soccorso in modo indicibile; cosicchè io, che per tutto il primo anno della mia reclusione non ho fatto che torcermi le mani, ben mi ricordo, e gridare con una impotente disperazione: «Quale tracollo! Quale spaventevole fine!», adesso invece tento di dirmi e, qualche volta, quando non mi torturo da me stesso, realmente e sinceramente mi dico: «Quale nuovo principio! Quale meraviglioso principio!» Può darsi che sia così, in realtà. Può darsi che la cosa divenga così. E allora quanto io dovrei a questa personalità nuova che trasforma l'esistenza di ognuno, anche qua dentro!

Vi sarà possibile comprenderlo, quando vi dirò che, se fossi stato liberato nel maggio scorso (come desideravo), avrei lasciato questo luogo con l'anima piena di amaro odio contro di esso e contro i carcerieri – ma questo sentimento cattivo avrebbe poi avvelenato la mia vita. Ho subìto un anno di reclusione di più, ma un senso vivo d'umanità è pur stato in carcere con tutti noi ed ora, quando me ne andrò, io mi rammenterò sempre le grandi premure che quasi tutti qui hanno avuto per me; e il giorno della mia liberazione rivolgerò un grazie a non pochi, e domanderò loro in ricambio che si ricordino qualche volta di me.

I sistemi della prigione sono assolutamente e interamente crudeli. Molto darei per poterli cangiare. Ho intenzione di fare questo tentativo. Ma quantunque un sistema sia così difettoso, lo spirito d'umanità – che è poi lo spirito d'amore (lo spirito di Cristo che non si trova dentro le chiese) – riesce almeno a farlo sopportare senza troppa amarezza, se non proprio a mutarlo radicalmente.

So anche che, fuori, mi aspettano innumerevoli e deliziose cose, da quelle che San Francesco chiama «frate vento e sorella piova» alle vetrine dei negozi e ai tramonti delle grandi città. Se facessi un elenco di tutto ciò che ancor mi rimane, non so dove mi fermerei, perchè veramente Dio ha creato il mondo, tanto per me quanto per gli altri. Forse io uscirò di qui in possesso di qualche cosa che prima non avevo. Non ho bisogno di dirvi che per me le riforme della morale sono insignificanti e volgari come quelle della teologia. Ma, mentre la risoluzione d'essere un uomo migliore è un atto sperimentale ed ipocrita – essere divenuto, invece, più profondamente uomo è il privilegio di coloro che hanno sofferto; – ed io credo d'esserlo divenuto.

Se, quando sarò libero, uno de' miei amici darà una festa senza invitarmi, io non troverò nulla a ridire. Posso essere perfettamente felice solo con me stesso. Con la libertà, i fiori, i libri e la luna, chi non sarebbe felice? D'altra parte, le feste non sono più fatte per me. Ne ho date troppe, perchè debba curarmene ancora. Questo lato della vita è finito per me – assai fortunatamente, oso dire. Ma se, quando sarò libero, uno de' miei amici avesse un dolore e m'impedisse di prendervi parte, ne risentirei un'amarezza infinita. S'egli mi sbarrasse le porte della casa in lutto, io ritornerei chissà quante volte a supplicarlo d'esservi ammesso, pur d'avere la mia parte di ciò cui ho diritto. S'egli mi reputasse incapace e indegno di piangere con lui, ne proverei l'umiliazione più sanguinosa; considererei la sua ripulsa come la maniera più terribile per avvilirmi. Ho un diritto di partecipare al dolore e colui che può contemplare la bellezza del mondo, sentendone anche la sofferenza, comprendendo entrambe le meraviglie, – colui è in contatto con le cose divine e s'è avvicinato al segreto di Dio per quanto è possibile.

Giova credere che nella mia arte, non meno che nella mia vita, vi sarà una nota più profonda ancora – una nota di più grande unità di passione e d'impulso. È l'intensità e non la latitudine lo scopo vero dell'arte moderna. Nell'arte non dobbiamo più occuparci del tipo, ma dell'eccezione. Io non posso dare alle mie sofferenze nessuna delle forme reali che assunsero. L'Arte comincia là dove l'Imitazione finisce; ma qualcosa penetrerà nella mia opera, una pienezza di memoria verbale, di cadenze più ricche, di effetti più curiosi, di un ordine architettonico più semplice – per lo meno di un'altra qualità estetica.

Quando Marsia fu «strappato dalla vagina delle sue membra» – dalla vagina delle membra sue, per usare la frase di Dante, d'una concisione terribile, addirittura tacitiana – egli non ebbe più nessun canto sulle sue labbra, dicono i Greci. Apollo aveva vinto. La lira aveva vinto la zampogna. Ma forse i Greci si sono ingannati. Io odo il grido di Marsia in una gran parte dell'arte moderna. È amaro in Baudelaire, dolce e lamentevole in Lamartine, mistico in Verlaine. Si ritrova nelle catharsi lente della musica di Chopin. E nelle donne di Burne-Jones. Anche Matteo Arnold ce lo fa udire, sebbene egli ci parli, nel suo canto di Callicle, del trionfo «della dolce e suadente lira» e «della famosa ultima vittoria», con una così bella, tersa nota di lirismo. Nel mormorio irrequieto di dubbio e di affanno che pervade i suoi versi, nè Goethe nè Wordsworth giovarono in alcun modo a Matteo Arnold, per quanto egli li abbia seguiti di volta in volta; e quando vuol dolersi del fato di Tirsi o celebrare lo scolaro Gypsy, gli occorre pur prendere la zampogna per esprimere il suo tormento. Ma, insomma, sia o non sia stato muto il fauno di Frigia – io non posso essere silenzioso. L'espressione mi è tanto necessaria quanto le foglie e i fiori lo sono per i rami neri degli alberi che s'intravvedono al di là delle mura della prigione e che senza posa si àgitano nel vento. Tra la mia arte e il mondo – c'è ora un vasto gorgo, ma tra l'arte e me stesso non ce n'è alcuno, almeno io lo spero.

A ciascuno di noi – la sua sorte. Il mio destino è stato di pubblica infamia, di lunga prigionia, di miseria, di rovina, di sventura, di fiele, ma io non ne sono degno – in ogni caso non ne sono ancor degno. Mi sovviene d'aver detto spesso che avrei potuto sopportare una tragedia reale, pur ch'ella mi si presentasse con un mantello di porpora e con la maschera d'un nobile dolore; ma ciò che v'è di orribile nella vita moderna si è ch'essa riveste la tragedia coi cenci della commedia, in modo che le più grandi realtà sembrano banali o grottesche o prive di stile. Questa è la perfetta verità intorno all'esistenza moderna. Si dice che tutti i martiri sembrano meschini a chi li osserva. Il secolo decimonono non fa eccezione alla regola.

Tutto, nella mia tragedia, è stato orrido, ripugnante, privo di stile: la nostra casacca stessa ci rende grotteschi. Noi siamo i buffoni del dolore; siamo i pagliacci dal cuore spezzato. Siamo designati in modo speciale per essere gli zimbelli dei belli-spiriti. Il 13 novembre 1895 fui condotto da Londra a qua. Quel giorno, dalle due alle due e mezza, fui costretto a restare sulla banchina centrale della stazione di Clapham Junction, in uniforme da prigioniero colle manette ai polsi – come uno spettacolo per la folla. Mi avevano fatto uscire dall'infermeria senza darmi un momento di riposo. Ero più grottesco di qualsiasi altro immaginabile oggetto. Nel vedermi, la gente si metteva a ridere. Ad ogni treno, il circolo dei curiosi si ingrossava. Nulla li avrebbe divertiti maggiormente. E tutto ciò, è naturale, fino a che non seppero chi io ero; ma appena ne furono informati, risero anche di più. Per una mezz'ora intera io rimasi là, sotto la pioggia sottile di novembre, in mezzo alla folla che mi scherniva!

E durante un anno da quel giorno, ad ogni volger di sole, alla medesima ora, io piangevo per uno stesso spazio di tempo. Oh, non è una cosa tanto tragica come sembra! Per i prigionieri, le lagrime fanno parte dell'esperienza quotidiana. Una giornata in carcere senza pianto è una giornata in cui il cuore è duro e non è una giornata in cui il cuore possa essere felice.

Adesso, però, comincio a provare più rimorso per coloro che risero di me, che per me stesso. Certo, quando essi mi videro, io non ero più sul mio piedestallo – ero alla gogna. Ma sono le nature assai poco fantasiose che si preoccupano solamente degli uomini eretti sur un piedestallo. Un piedestallo può essere una cosa del tutto irreale. Una gogna, invece, è una terribile realtà. Essi avrebbero dovuto saper meglio interpretare il dolore. Ho detto già che dietro il dolore c'è sempre il dolore. Sarebbe più esatto dire che dietro il dolore c'è sempre un'anima. Ora – beffarsi di un'anima in pena è cosa terribile. Nell'economia stranamente semplice del mondo non si riceve se non ciò che si dona e a coloro che non hanno abbastanza forza per penetrare l'aspetto esterno delle cose e sentire la pietà, quale pietà si può dare se non quella del disprezzo?

Riferisco queste cose semplicemente perchè si comprenda quanto mi è stato difficile trarre dal mio castigo ben altro che amarezza e disperazione. Eppure mi tocca estrarne una cosa diversa e, di quando in quando, ho dei periodi di sottomissione e di rassegnazione. La primavera intera può essere racchiusa nell'unica gèmmula d'una pianta e il nido dell'allodola a fior della terra può contenere la gioia che annuncerà la comparsa d'innumerevoli aurore color di rosa e di porpora. Così, forse, ciò che mi resta ancora di bellezza di vita è racchiuso in qualche àttimo d'abbandono, di diminuzione di me stesso e d'umiliazione. Tuttavia, io posso semplicemente continuare a perseguire il mio proprio sviluppo e, accogliendo tutto ciò che mi è accaduto, rendermene degno.

Alcuni avevano l'abitudine di dire ch'io ero troppo individualista. Ora, più che mai, mi occorre essere individualista. Devo cavar fuori da me stesso molto di più di quel ch'io ne abbia tratto sin qui ed esigere dal mondo assai meno di quanto gli abbia mai domandato. La mia rovina, in vero, deriva non da eccessivo individualismo, ma dal suo difetto. L'azione ignominiosa, imperdonabile ed eternamente disprezzabile della mia vita fu di avere accondisceso a rivolgermi alla società per ottenerne aiuto e protezione. Scendere a questo sarebbe stato un errore, dal punto di vista dell'individualismo, ma quale scusante invocare, dopo aver compiuto una cosa simile? Naturalmente una volta messe in moto le macchine della Società, essa si rivolse contro di me e disse: «Come! tu hai vissuto fino ad ora disprezzando le mie leggi, ed ora vieni a domandarmi aiuto per mezzo di queste leggi stesse? Bene: ti saranno applicate col massimo rigore. Sarai obbligato a sottometterti alle leggi che hai invocato». L'effetto è questo: ch'io sono in carcere. Certo, nessun uomo cadde così ignobilmente e con dei metodi tanto ignobili.

L'elemento filisteo della vita non consiste nell'incapacità di comprendere l'arte. Ci sono degli esseri piacevoli, come ad esempio i pescatori, i pastori, gli operai, i contadini ed altri che non s'intendono d'arte, e pure sono il vero sale della terra. Filisteo è quegli che sostiene ed aiuta le forze meccaniche, pesanti, ingombranti e cieche della società; e che non arriva ad ammettere un'energia dinàmica quando s'imbatte in essa, sia incarnata in un uomo o in un'azione qualunque.

Han giudicato spaventevole da parte mia il fatto d'aver invitato a pranzo dei cattivi soggetti e d'essermi compiaciuto in loro compagnia. Ma, dal punto di vista nel quale io mi ponevo come uomo d'arte, essi erano deliziosamente suggestivi ed eccitanti. Il pericolo formava la metà del piacere... In quanto artista, avrei dovuto interessarmi solo d'Ariele e non mettermi a lottare con Calibano...

Uno de' miei grandi amici – d'un'amicizia decennale – venne a trovarmi qualche tempo fa e disse che non credeva nemmeno a una parola di tutto ciò che si era macchinato contro di me e s'augurava ch'io mi persuadessi d'essere considerato da lui assolutamente innocente e vittima d'una vile congiura.

Non potei frenare le mie lagrime nell'ascoltarlo e gli risposi che, nonostante le accuse interamente false formulate contro di me e a malgrado delle colpe attribuitemi per malvagità imperdonabile, tuttavia la mia vita era stata piena di piaceri crudeli e che non m'era più possibile restare suo amico o trovarmi ancora in sua compagnia altro che a patto ch'egli accettasse la mia confessione e vi credesse pienamente. Fu per lui un grave colpo; ma noi siamo rimasti amici e almeno non ho ottenuto il dono della sua amicizia con l'ipocrisia.

Le forze dell'emozione, come ho detto in qualche passo delle Intenzioni, sono altrettanto limitate in latitudine ed in durata quanto le energie fisiche. La piccola coppa che è foggiata in modo da contenere una data misura di liquido non può contenerne una stilla di più, anche se le cantine della Borgogna traboccassero di vino e i vignaiuoli pestassero sino al ginocchio il raccolto dei sassosi vigneti di Spagna. Non c'è errore più diffuso del pensare che coloro i quali sono le cause o le occasioni d'una grande tragedia siano poi partecipi dei sentimenti che si convengono alla tragedia stessa; nessun errore è più fatale che aspettarsi questi sentimenti da parte loro. Il martire, nel suo «sudario di fiamma» può contemplare il volto del Signore, ma per colui che ammucchia le fascine o che attizza i ceppi affinchè ardano, lo spettacolo non è più impressionante della morte d'un bue per il macellaio, o della caduta d'un albero pel boscaiolo o d'un fiore per il falciatore dei prati. Le grandi passioni sono per coloro che hanno una grande anima e i grandi avvenimenti non possono essere veduti e compresi se non da quelli che sono al loro stesso livello.

In tutto il dramma, dall'angolo visuale artistico, io non conosco nulla che sia da paragonarsi alla creazione shakesperiana di Rosencrantz e Guildenstern, nulla che sia più suggestivo in quanto a finezza d'osservazione. Essi sono i camerati di Amleto. Ne furono già i compagni. Recan con sè il ricordo delle piacevoli giornate trascorse assieme. Nel momento in cui essi incontrano Amleto, nel dramma, egli vacilla sotto un peso insostenibile per chiunque abbia il suo temperamento. I morti sono balzati in armi dalla tomba per imporgli un compito al tempo stesso troppo grande e troppo angusto per lui. È un sognatore costretto alla azione. Amleto è un poeta e gli si comanda di misurarsi con la doppia complessione della causa e dell'effetto, con la vita nella sua contingenza pratica (della quale nulla conosce) e non con la vita nella sua essenza ideale ch'egli penetra tanto bene. Egli non ha nessuna idea di ciò che convenga fare e la sua follìa consiste nel simulare la follìa. Bruto si servì della demenza come d'un mantello per nascondervi sotto la spada, la daga della sua volontà, ma la pazzia d'Amleto è una semplice maschera per dissimulare la propria debolezza. Facendo dello spirito, abbandonandosi a degli scherzi, egli crede di ottenere una via di scampo. Si ostina a giocare coll'azione come un artista gioca con una teoria. Fa la spia a' suoi stessi atti e, sentendosi parlare, egli sa che non sono altro che «parole, parole, parole». Invece di tentare di essere l'eroe della sua storia, cerca d'essere lo spettatore della sua tragedia. Dubita di tutto, compreso sè stesso, e tuttavia il suo dubbio non l'aiuta, perchè non è effetto di uno scetticismo, ma di una volontà che si scinde.

Di tutto ciò Rosencrantz e Guildenstern non capiscono niente. Essi sorridono, si piegano, fanno i graziosi e quel che l'uno dice l'altro lo ripete, sempre sul medesimo tono. Quando, infine, per mezzo del dramma intercalato nel dramma e delle tenerezze che si scambiano gli attori, Amleto «sorprende la coscienza» del Re e lo caccia dal suo trono, miserabile e spaventato, Guildenstern e Rosencrantz non vedono nel suo gesto che una penosa infrazione alle regole dell'etichetta di corte. Sino a questo punto e non più oltre essi possono giungere «nella contemplazione dello spettacolo della vita con delle emozioni adeguate». Eglino sono i più vicini al suo segreto e non ne sanno nulla. E non gioverebbe a niente il rivelarlo loro. Essi sono la piccola coppa che contiene una determinata misura e basta. Verso la fine, com'è detto, essi hanno trovato o troveranno una morte improvvisa, caduti in un'insidia tesa per un altro. Ma una fine tragica di tal fatta, benchè lo spirito d'Amleto la sfiori un poco con la sorpresa e la giusta aria della commedia, non si conviene realmente a dei personaggi come loro. Essi non muoiono mai. Horazio, il quale, per «difendere dinnanzi ai malcontenti Amleto e la sua causa»,

Absents him from felicity a while

And in this harsh world draws his breath in pain,

muore, ma Guildenstern e Rosencrantz sono immortali come Angelo e Tartufo e devono essere collocati assieme a loro. Essi sono la metamorfosi che la vita moderna ha fatto dell'antico ideale dell'amicizia. Colui che scriverà un nuovo trattato de Amicitia dovrà serbar loro un cantuccio e tesserne l'elogio in prosa tuscolana. Sono tipi oramai fissati per tutti i tempi. Censurarli equivarrebbe a mostrare «una mancanza d'apprezzamento». Si trovano semplicemente fuori della loro sfera – ecco tutto. Quanto a sublimità d'anima, non c'è pericolo di contagio. Gli alti pensieri e le grandi emozioni sono isolati dal fatto stesso della loro esistenza.

Se tutto va bene, io sarò liberato verso la fine di maggio e spero di partir subito per qualche piccolo villaggio marittimo straniero, con R... e M...

Il mare, come dice Euripide in uno de' suoi poemi su Ifigenia, lava le macchie e le ferite del mondo.

Spero di vivere almeno un mese con i miei amici, di ritrovare la calma e l'equilibrio, un cuore meno torturato e delle aspirazioni più tranquille. Provo uno strano desiderio per le grandi cose semplici e primordiali, come il mare che è una madre per me al pari della terra. Mi sembra che tutti noialtri si contempli troppo la natura, e, viceversa, si viva troppo poco in comunione con essa: vedo una grande ragione nell'attitudine dei Greci. Essi non ragionavano mai intorno ai tramonti del sole e nemmeno disputavano per decidere se le ombre sui prati erano violacee o no. Ma vedevano che il mare è fatto per il nuotatore e la sabbia per il corridore. Amavano gli alberi per l'ombra che diffondono e la foresta per il suo raccolto silenzio nell'ora del meriggio. Il vignaiuolo intrecciava dell'edera ne' suoi capelli per difendersi dai raggi del sole, quando s'affaticava intorno ai tralci pur mo' nati; e l'artista e l'atleta, i due tipi che l'Ellade ci ha dato, intrecciavano in ghirlande le foglie d'alloro amaro e la cicuta che non sarebbero state altrimenti utili all'uomo.

Siam soliti denominare la nostra età utilitaria e non c'è una cosa sola di cui noi sappiamo esattamente gli usi. Abbiamo dimenticato che l'acqua può forbire, il fuoco purificare e che la terra è la madre di noi tutti. Per conseguenza – la nostra arte è priva di luce, come la luna, e si diverte con delle ombre, mentre l'arte dei Greci ha i lampeggiamenti del sole e interpreta direttamente le cose. Sono convinto che c'è una purificazione nelle forze elementari e voglio ritornare ad esse e con esse vivere.

Certo, per uno spirito moderno come me, «figlio del mio tempo» contemplare semplicemente il mondo sarà sempre una delizia. Tremo di piacere, pensando che il giorno in cui sarò libero il citiso ed i lillà fioriranno nei giardini ed io vedrò il vento agitare, con una rabbrividente bellezza, l'oro dell'uno e la pallida porpora dell'altro, in modo che la terra avrà per me tutti i profumi d'Arabia. Linneo cadde in ginocchio e pianse di felicità, quando vide per la prima volta le estese brughiere d'un altipiano inglese tutte gialle dei fiori agresti e aromatici dei giunchi, ed io so che per me, posseduto dallo stesso desiderio dei fiori, ci son delle lagrime che m'aspettano nei petali d'una rosa. È sempre stato così, sino dalla mia infanzia. Non c'è una sola sfumatura nascosta in fondo al calice d'un fiore, non c'è la curva e molle linea d'una conchiglia cui la mia anima – per una misteriosa e sottile simpatia con l'anima delle cose – non faccia eco. Come Teofilo Gauthier io son uno di quelli pei quali il mondo esterno esiste.

Pur tuttavia, ora ho coscienza che sotto tutta questa bellezza, per quanto soddisfacente essa sia, c'è qualche spirito nascosto le cui forme e i cui contorni dipinti non sono che pure manifestazioni ed è con questo spirito ch'io voglio mettermi in armonia. Sono stanco delle formule fisse degli uomini e delle cose. Il Mistico nell'Arte, il Mistico nella Vita, il Mistico nella Natura – ecco ciò che io cerco. Ho assolutamente bisogno di trovarlo in qualche luogo.

Ogni volta che si subisce un giudizio, tutta la vita vien giudicata – come tutte le sentenze sono delle sentenze di morte; ed io sono stato ben tre volte in giudizio! La prima volta, lasciai la sala per essere arrestato; la seconda, per essere ricondotto al carcere di detenzione; la terza, per venir cacciato in galera per due anni. La società, come noi l'abbiamo costituita, non avrà più alcun posto da offrirmi; ma la Natura le cui sottili pioggie cadono dolcemente sui giusti e sugli ingiusti avrà nelle sue roccie delle fessure dentro cui mi nasconderò e delle valli inesplorate nel silenzio delle quali potrò piangere senza essere distratto!

Essa appenderà delle stelle alle pareti della notte, affinchè io possa camminare senza inciampi in mezzo alle tenebre, e manderà il vento a soffiare sull'orma de' miei passi, in modo che nessuno mi dìa una caccia a morte; la natura mi laverà nelle sue grandi acque e mi risanerà con le sue erbe amare.

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