< Decameron < Giornata quarta
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Giornata quarta - Novella prima
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[I]

Tancredi, prenze di Salerno, uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopra esso acqua avvelenata, quella si bee, e cosí muore.


Fiera materia di ragionare n’ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo, ci convenga raccontar l’altrui lagrime, le quali dir non si possono che chi le dice e chi l’ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la letizia avuta li giorni passati l’ha fatto: ma che che se l’abbia mosso, poi che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi sventurato e degno delle nostre lagrime racconterò.

Tancredi, prencipe di Salerno, fu signore assai umano e di benigno ingegno, se egli nell’amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e piú felice sarebbe stato se quella avuta non avesse. Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giá mai: e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’etá del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine, ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova ed al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcuna altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia piú che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sí come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di piú maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante. E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili ed altri, sí come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere ed i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per vertú e per costumi nobile, piú che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso veggendolo, fieramente s’accese, ognora piú lodando i modi suoi. Ed il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sí fatta maniera nel cuor ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, ed in quella ciò che avesse a fare il dí seguente per esser con lei gli mostrò; e poi, quella messa in un bucciuolo di canna, sollazzando la diede a Guiscardo e dicendo: — Fara’ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco. — Guiscardo il prese, ed avvisando, costei non senza cagione dovergliele aver donato e cosí detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna, e quella veggendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il piú contento uom fu che fosse giá mai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare secondo il modo da lei dimostratogli. Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte; il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato: ed in questa grotta per una segreta scala la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sí fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava: ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è si segreta, che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla ’nnamorata donna. La quale, acciò che niun di ciò accorgersi potesse, molti dí con suoi ingegni penato avea anzi che venir fatto le potesse d’aprir quello uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venir s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sé vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, ed accomandato bene l’un de’ capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quella si collò nella grotta ed attese la donna. La quale il seguente dí, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono: e dato discreto ordine alli loro amori, acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi la notte vegnente, su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscí fuori e tornossi a casa: ed avendo questo cammino appreso, piú volte poi in processo di tempo vi ritornò. Ma la fortuna, invidiosa di cosí lungo e di cosí gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia de’ due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi; il quale un giorno dietro mangiare lá giú venutone, essendo la donna, la quale Ghismunda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcun veduto o sentito, entratosene, non volendo lei tôrre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere: ed appoggiato il capo al letto e tirata sopra sé la cortina, quasi come se studiosamente si fosse nascoso, quivi s’addormentò. E cosí dormendo egli, Ghismunda, che per isventura quel di fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n’entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva ed andatisene in sul letto, sí come usati erano, ed insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò, e sentí e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano: e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere piú cautamente fare e con minor sua vergogna quello che giá gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sí come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s’uscí della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino e senza essere da alcun veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò. E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio, la seguente notte in sul primo sonno, Guiscardo, cosí come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due e segretamente a Tancredi menato; il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: — Guiscardo, la mia benignitá verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sí come io oggi vidi con gli occhi miei. — Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: — Amor può troppo piú che né voi né io possiamo. — Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di lá entro guardato fosse; e cosí fu fatto. Venuto il dí seguente, non sappiendo Ghismunda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novitá pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza nella camera n’andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire: — Ghismunda, parendomi conoscere la tua vertú e la tua onestá, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non l’avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente di ciò ricordandomi. Ed or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestá conducerti dovevi, avessi preso uomo che alla tua nobiltá decevole fosse stato: ma tra tanti che nella mia corte n’usano eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasí come per Dio da piccol fanciullo infino a questo di allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, ed hollo in prigione, ho io giá meco preso partito che farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore il quale io t’ho sempre piú portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno preso per la tua gran follia: quegli vuole che io ti perdoni e questi vuole che io contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dèi dire. — E questo detto, basso il viso, piagnendo sí forte come farebbe un fanciul ben battuto. Ghismunda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora preso Guiscardo, dolore inestimabile senti ed a mostrarlo con romore e con lagrime, come il piú le femine fanno, fu assai volte vicina: ma pur questa viltá vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sé porgere, di piú non istare in vita dispose, avvisando giá esser morto il suo Guiscardo; per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come noncurante e valorosa, con asciutto viso ed aperto e da niuna parte turbato cosi al padre disse: — Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia, ed oltre a ciò, in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine ed il tuo amore: ma il vero confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dell’animo mio. Egli è il vero che io ho amato ed amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sará poco, l’amerò, e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo: ma a questo non m’indusse tanto la mia feminile fragilitá, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la vertú di lui. Esserti dovè, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dèi, quantunque tu ora sii vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza: e come che tu, uomo, in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi, non che ne’ giovani. Sono adunque, sí come da te generata, di carne, e sí poco vivuta, che ancor son giovane, e per l’una cosa e per l’altra, piena di concupiscibile disidèro, al quale maravigliosissime forze hanne dato l’aver giá, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a cosí fatto disidèro dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sí come giovane e femina, mi disposi, ed innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia vertú, di non volere a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disidèri perveniva: e questo, chi che ti se l’abbia mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogni altro, e con avveduto pensiero a me lo ’ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre all’amorosamente aver peccato, che tu, piú la volgare oppinione che la veritá seguitando, con piú amaritudine mi riprenda, dicendo, quasi turbato esser non ti dovessi se io nobile uomo avessi a questo eletto, che io con uomo di bassa condizion mi son posta; in che non t’accorgi che non il mio peccato ma quello della fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, abbasso lasciando i degnissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principi delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenze, con iguali vertú create. La vertú primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano ed adoperavano nobili furon detti, ed il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi: e per ciò colui che virtuosamente adopera, apertamente sé mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama commette difetto. Ragguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor vita, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo ragguarda: se tu vorrai senza animositá giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle vertú e del valor di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dèe essere commendato? E certo non a torto: ché, se i miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu che io lui operarla, e piú mirabilmente che le tue parole non poteano esprimere, non vedessi: e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai adunque che io con uomo di bassa condizion mi sia posta? Tu non dirai il vero: ma per avventura se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che cosí hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertá non toglie gentilezza ad alcuno, ma sí avere. Molti re, molti gran prencipi furon giá poveri, e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore giá ricchissimi furono, e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me farti dovessi, cacciai del tutto via: se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltá, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sí come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va’ con le femine a spander le lagrime, ed incrudelendo, con un medesimo colpo e lui e me, se cosí ti par che meritato abbiamo, uccidi. — Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola, ma non credette per ciò in tutto lei sí fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva; per che, da lei partitosi e da sé rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e trattogli il cuore, a lui il recassero. Li quali, cosí come loro era stato comandato, cosí operarono; laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola ed imposegli che quando gliele desse, dicesse: — Il tuo padre ti manda questo per consolarti di quella cosa che tu piú ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli piú amava. — Ghismunda, non ismossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò ed in acqua ridusse, per presta averla se quello di che ella temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presento e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo, quello essere il cuor di Guiscardo; per che, levato il viso verso il famigliar, disse: — Non si convenia sepoltura men degna che d’oro a cosí fatto cuore chente questo è; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato. — E cosí detto, appressatolsi alla bocca, il basciò, e poi disse: — In ogni cosa sempre ed infino a questo stremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora piú che giá mai: e per ciò l’ultime grazie, le quali rendergli debbo di cosí gran presento, da mia parte gli renderai. — Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando, disse: — Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, maladetta sia la crudeltá di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette, ti se’ spacciato; venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Iddio nell’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, ed io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi: e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerá con quella, adoperandol tu, che tu giá tanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potrei io andar piú contenta o meglio sicura a’ luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quinc’entro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei, e come colei che ancora son certa che m’ama, aspetta la mia dalla quale sommamente è amata. — E cosí detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versar tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che da torno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dir le parole di lei non intendevano, ma da compassion vinte tutte piagnevano: e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto piú, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla. La qual poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttisi gli occhi, disse: — O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito, né piú altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia. — E questo detto, si fe’ dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dí davanti aveva fatta; la quale mise nella coppa ove il cuore era, da molte delle sue lagrime lavato: e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salí sopra il suo letto, e quanto piú onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello ed al suo cuore accostò quello del morto amante: e senza dire alcuna cosa aspettava la morte. Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute ed udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandato a dire, il qual, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola. Nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose: e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendone i termini ne’ quali era, cominciò dolorosamente a piagnere; al quale la donna disse: — Tancredi, sèrbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno altro che te piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che giá mi portasti ancora in te vive, per ultimo don mi concedi che, poi a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che il mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittare morto, palese stea. — L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze; laonde la giovane, alla sua fine esser venuta sentendosi, strignendosi al petto il morto cuore, disse: — Rimanete con Dio, ché io mi parto. — E velati gli occhi ed ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartí. Cosí doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismunda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltá, con general dolore di tutti i salernetani onorevolmente ammenduni in un medesimo sepolcro gli fe’ sepellire.

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