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Traduzione dal latino di Anonimo (XIV secolo)
44 a.C.

Benchè, o Marco figliuolo, a te il quale già un anno hai udito Cratippo, e ciò in Atene, convenga abbondare di precetti e ammaestramenti di filosofia, per la somma autorità del dottore e della città; delle quali due cose, l una, cioè il dottore, te può accrescere di scienza; e l’altra, cioè la città, di esempi; nientedimeno come io, a mia utilità, sem- pre congiunsi le cose greche con le latine; e non solo in filosofia, ma ancora nell’eser- citazione del dire; quel medesimo mi pare che debba esser fatto da te; acciocché tu sii pari nella facultà dell’una e l’altra orazione.

Nella qual cosa, com’ei pare, noi abbiamo arrecato grande aiuto agli uomini nostri : chè non solamente i rozzi delle lettere gre- che, ma ancora i dotti stimo avere acqui- stato, e all’ imparare e al giudicare.

Per la qual cosa imparerai dal principal filosofo di quegli dell’età nostra; e impare- rai quanto lungo tempo tu vorrai: ma tanto lungo tempo tu dovrai volere, insino a quanto a te non parrà poco di quanto tu ne faccia prò. Ma nientedimeno tu leggerai le cose nostre, non molto discordantisi da’ peripa- tetici; imperocché noi vogliamo essere e so- cratici e platonici. Di essi fatti usa il giudicio tuo; imperocché niente io t’impedisco: ma tu farai l'orazione latina per certo più pie- na, dalle cose nostre le quali tu leggerai. Ma io non voglio che questo sia stimato es- sere stato detto arrogantemente. Imperocché io, concedente la scienza del filosofare a mol- ti, quello ch’ è proprio dell’oratore, dire at- tamente e con ordine e ornatamente, perchè in quello studio io ho consumato l’età mia, se quello a me io piglio, io paio attribuir- melo quasi di mia ragione.

Per la qual cosa molto, o Cicerone mio,


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io ti conforto, che tu non solamente le ora- zioni mie studiosamente legga, ma ancora questi libri di filosofìa, i quali già a quegli quasi si sono pareggiati. Imperocché mag- gior forza è in quegli del dire *, ma ancora questo modo di dire è da essere amato, il quale è con equabilità, e temperato. E que- sto ancora io non veggo essere addivenuto ad alcuno greco, che colui medesimo si affa- ticasse e nell’ uno e nell'altro genere; e che egli conseguitasse e quel modo del dire nel foro, e questo quieto del disputare. Se già Demetrio Falereo non potesse essere in que- sto numero, disputatore sottile, e oratore poco veemente; nientedimeno dolce in mo- do, che tu potresti conoscere ch’egli è di- scepolo di Teofrasto. Ma noi quanto nell'uno e 1’ altro modo abbiamo fatto prò, giudi- chinlo altri; l’uno e l’altro di certo abbiamo seguitato. E per certo io stimo che se Pla- tone avesse voluto trattare il modo del dire nel foro, egli avrebbe detto gravissimamen- te, e con molta copia. E se Demostene avesse tenute quelle cose, le quali egli aveva impa- rato da Platone, e avessele voluto pronun- ziare, egltT avrebbe potuto fare splendida-



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mente, e con ornato. Nel medesimo modo io giudico di Aristotile e di Socrate: l’uno e l'altro de'quali, dilettatosi del suo studio, spregiò l’altrui.

Ma conciosiacosacchè io avessi deliberato di scrivere a le, in questo tempo, qualcosa di filosofia, e molte cose da quinci innanzi; io massimamente ho voluto cominciare da quello, che all’età tua fosse attissimo, e alla mia autorità. Imperocché, conciosiacosacchè molte cose sieno in filosofia e gravi, e utili, e diligentemente da’ filosofi disputate, e con abbondanza; larghissimamente paiono mani- festarsi quelle, le quali da coloro sono state date e insegnate degli uffici. Imperocché nes- suna parte della vita, nè in fatti pubblici, nè in privati, nè in quegli del foro, o di ca- sa, se teco alcuna cosa facessi, o contrat- tassi con altrui, può mancare dell’ufficio: e nell'amar quello è posta ogni onestà della vita, e ogni bruttezza nello spregiarlo.

E questa è comune quistione di tutti i filosofi: imperocché chi è, il quale, quando egli non ha alcuni precetti dell’ufficio, abbia ardire chiamarsi filosofo ? Ma e’ sono alcune discipline, le quali, preposti i fini de'beni



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e de’ mali, rivoltano e abbattono ogni uf- ficio. Imperocché chi ha ordinato il sommo bene, che niente gli abbia congiunto con la virtù, e quello egli misura con suoi com- modi, e uou con l’ onestà; costui se a sé egli consenta, e alcuna volta non sia vinto dalla bontà della natura, è fatto che eg i non può amare l’amicizia, nè la giustizia» nè la liberalità. E chi giudica il dolore essere sommo male, in nessuno modo può essere forte; uè temperato può essere chi fa che la voluttà è il sommo bene.

Le quali cose, benché così sieno manife- ste, ch’esse non abbino bisogno di dispu- ta; nientedimeno in un altro luogo da noi sono state disputate. Queste discipline adun- que, se a sè esse vogliono essere consen- zienti, niente esse possono dire dell’ uffi- cio. Nè alcuni precetti possono essere dati fermi, e stabili, e congiunti alla natura, se non da coloro i quali dicono, che solo l’o- nestà debba essere per sè medesima deside- rata; o da coloro i quali dicono, che quella virtù spezialmente e grandissimamente debba essere per sè medesima desiderata. Adun- que questo è proprio ammaestramento de-



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gli stoici e accademici e peripatetici; dap- poiché la sentenza di Aristone e Pirrone ed Erillo, già molto fa, è stata confusa e abbattuta. I quali nientedimeno avrebbono la ragion loro di disputare dell’ ufficio, se eglino a vessi no lasciato qualche elezione delle cose, acciocché si potesse andare all’inven- zione dell'ufficio. Adunque in questo tempo, e in questa quislione, noi spezialmente se- guitiamo gli stoici, non come interpetri, ma come noi vogliamo; delle fonti loro, con arbitrio e giudizio nostro, attigneremo quanto ci parrà.

CAPO I.

Dell'ufficio, e come si divide.

Piaceci adunque, perché ogni disputa ha a essere dell’ ufficio, innanzi diffinire che cosa sia ufficio : la qual cosa io mi ma- raviglio essere stata lasciata da Panezio. Imperocché ogni ordinamento, il quale di qualche cosa è preso dalla ragione, debbe procedere dalla diffinizione; acciocché s’in- tenda ciò che sia quello, del quale si di-




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sputa. Ogni quistione dell’ufficio è doppia r uno modo è il quale s' appartiene al line de’ beni; l’ altro è il quale è posto ne’ pre- cetti, pe’ quali l’ uso della vita possa es- sere confermo in tutte le parti. Del modo di sopra questi sono gli esempi : se tutti gli uffici sono perfetti o no; e se alcuno di loro è maggiore che l’altro; e altre cose simili a queste. Ma quegli uffici de’ quali si danno i precetti, benché essi s' appar- tengano al fine de’beni, nientedimeno meno appariscono di cosi essere, perchè essi più ragguardano all’ ammaestramento della vita comune; de’ quali uffici noi in questi libri dobbiamo con dichiarazione disputare.

E ancora un altra divisione è degli uffi- ci. Imperocché e' si chiama alcuno ufficio mezzo, e alcuno perfetto. Il perfetto uf- ficio io stimo che noi chiamiamo retto; il quale i Greci chiamano catartoma, cioè se- condo dirittura; ma questo mezzo eglino chiamano comune. E questi uffici così dif- fiuiscono; chè quello ufficio che sia retto, diffiniscono essere perfetto; e quello che è mezzo, dicono essere quello, del quale possa essere data probabile ragione perchè egli sia fatto.


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capo n.


Della deliberazione in pigliare il consiglio.

Di tre parti adunque, come a Panezio pare, è la deliberazione del pigliare il con- siglio. Imperocché gli uomini dubitano, se quello che eglino hanno a fare sia onesto o brutto : e questo cade nella deliberazio- ne; e in considerar questo, spesso gli ani- mi sono tirati in contrarie sentenze. E an- cora o essi cercano, o essi consigliano alla commodità e giocondità della vita, e alle facoltà delle cose, e alle copie, alle abbon- danze, e alla potenza; colle quali cose e- glino possouo giovare a sé e a' suoi : e se quello fa utile, del quale eglino delibera- no: la quale deliberazione tutta cade nella ragione dell’ utilità.

E il terzo modo del disputare è, quando quello che pare utile, pare che combatta con quello eli’ è onesto. Imperocché conciosiaco- sacchè T utilità paia a sé rapire, e l' onestà pel contrario paia da sé rimuovere; si fa che l'Animo nel deliberare si divida, e ar- rechi sollecitudine dubbiosa del pensare.





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In questa divisione (conciosiacosacchè grandissimo vizio sia nel dividere, lasciare alcuna cosa) due cose sono state lasciate. Imperocché non solamente e’ si suole delibe- rare, se egli è onesto o brutto; ma ancora, preposti due onesti, se l’uno è più onesto che l’altro. E similmente, preposti due utili, si suole dubitare se l’uno è più utile che l’al- tro. E così quella ragione, la quale colui stimò di essere di tre parti, si trova dover es- sere distribuita in cinque. Primamente dun- que si disputerà dell’ onesto, ma in due mo- di; e ancora con pari ragione dell'utile; e dipoi della comparazione tra loro.

CAPO III-

Della forza della natura a fare C onesto,.

Da principio a ogni ragione d'animali è stato attribuito dàlia natura, ch’egli difenda' sé, e la vita, e il corpo; e isoli i £1 quelle cose, le quali paino di dovere nuocere-, e- tutte quelle cose le quali sieno necessarie- •1 vivere, acquisti e trovi; come è fa pa- sciona, a i covaccioli, e altre simili cosce.


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Ma comune cosa è di tutti gli animali l’ ap- petito della congiunzione, per cagione del procreare; e alcuna cura di quelle cose, le quali sono state da loro procreate. Ma tra l’ uomo e la bestia è singolarmente que- sta differenza, che la bestia tanto si muove, quanto dal senso essa è mossa; a quello eh e presente, e a quello che l’ è innanzi si ac- comoda, poco avvedentesi del preterito e del futuro: ma l’uomo, perchè egli è par- tecipe della ragione, per la quale egli vede le cose conseguenti, e conosce le cagioni delle cose, e i progressi di quelle, e quasi sa quelle cose le quali innanzi vadano, e agguaglia le similitudini, e alle cose pre- senti aggiugne e annoda le future; facil- mente vede il corso di tutta la vita, e al governo di quella egli apparecchia le cose necessarie. Questa medesima natura colla iorza della ragione concilia 1’ uomo all’uo- mo, alla compagnia e del parlare e della vita : e ingenera, traile prime cose, uno pre- cipuo amore in coloro, i quali sono stati procreati, e commuovegli che le brigate degli uomini vogliano essere insieme, e tra se ricercarsi. E per queste cagioni tali ra-




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gunate si studiano trovare e acquistare quelle cose, le quali sovvengono al vivere, e al vestire, e al governarsi; e non solamente a sè solo, ma alla moglie, a’ figliuoli, e a tutti quegli altri, i quali esse abbino cari, e debbino difendere. La quale cura desta ancora gli animi, e fagli maggiori al fare le cose.

E tra le prime cose nell’ uomo, è pro- pria cosa il cercare e T investigare il vero. E così quando noi siamo voti di necessarie cure e faccende, allora noi desideriamo ve- dere qualche cosa, e udire, e imparare; e stimiamo che la cognizione delle cose o occulte o mirabili, sia necessaria al vivere beatamente. Per la qual cosa s’intende, che quello che è vero e semplice e puro, è attis- simo alla natura dell’ uomo.

A questa cupidigia del vedere il vero è aggiunto un certo desiderio del principato; che l’ animo bene informato dalla natura non voglia ubbidire ad alcuno, se non a \jhi insegna o ammaestra, o, per cagione di suo utile, legittimamente comanda e con giustizia. Della qual cosa è la grandezza del- l' anima, e lo spregiare le cose umane.





Ma nè quella è piccola forza della na- tura e della ragione, che solo questo ani- male conosce che cosa sia ordine, e che cosa sia quella la quale si confà ne' detti e ne' fatti, e che è misura. E così nessuno altro animale conosce la bellezza e la pu- litezza di quelle cose, le quali sono cono- sciute per l’aspetlo, nè la convenienza delle parti. La qual similitudine, la natura e la ragione dagli occhi trasferendo allonimo, molto più ancora stima dovere esser con- servata la bellezza, e la costanza, e l’or- dine ne’ consigli e ne’ fatti: e guardasi che nessuna cosa esso faccia effeminatamente, e con isconvenienza : e ancora che cosa non faccia, o non pensi alcuna cosa libidinosa- mente, nè in tutti i fatti, e in tutte le opinioni. Per le quali cose si congrega e fassi quell’ onesto, che noi cerchiamo : il quale se non fosse nobilitato, nientedimeno sarebbe onesto: e quello che in verità noi diciamo, che benché da nessuno egli fosse lodato, nientedimeno egli per natura sa- rebbe laudabile.





CAPO IV.


Belle quattro virtù, onde nascono gli uffici.


Tu, o Marco, ora vedi la forma di essa onestà : la quale se cogli occhi fosse vedu- ta, maravigliosi amori, come disse Pla- tone, commoverebbe. Ma ogni cosa che é onesta, quella nasce da alcuna delle quat- tro parti: imperocché o esso onesto si ri- volta nel ragguardamento del vero, e nella sollecitudine di quello; o in difendere la compagnia umana, e nell’ attribuire a cia- scuno il suo, e nella fede delle cose contrat- tate 5 o nella grandezza e fortezza dell’ a- nimo invitto ed eccelso; o nell’ ordine e modo di tutte le cose, le quali si fanno o diconsi, nel quale è la modestia e la tem- peranza.

Le quali quattro cose, benché tra loro sieno avviluppate e collegate, nientedimeno di ciascuna per sé nascono certe ragioni di uffici. Come, da quella parte la quale prima fu descritta, nella quale noi pognia- mo la sapienza e la prudenza, in quella dentro è il cercare e il trovare la verità :



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e di queste virtù questo è il proprio dono.

Imperocché come ciascuno massimamente conosce quello, che in ciascuna cosa sia ve- rissimo, e il quale acutissimamente e bene può e vedere e sviluppare la ragione, co- stui rettamente suol essere tenuto pruden- tissimo e saviissimo. Per la qual cosa a co- stei è suggetta la verità, quasi materia la quale essa tratti, e nella quale essa si ri- volghi.

Ma alle altre tre, che restano, sono pre- poste le necessità all’ acquistare e al difen- dere quelle cose, nelle quali è contenuto il governo della vita; acciocché e la con- giunzione e la compagnia degli uomini sia conservata; e l’eccellenza e grandezza del- l’animo riluca, sì nell’ accrescere le abbon- danze, e nell' acquistare l'utilità e a sé e a' suoi; sì molto più nello spregiare quelle. Ma l’ ordine, e la costanza, e la modera- zione, e altre cose le quali sono simili a queste, si rivoltano in quella ragione, alla quale debba essere dato un certo fare, e non solamente il rivoltare la mente. Impe- rocché quando noi aggiugneremo un certo modo e ordine alle cose, le quali sono trat-




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tate nella vita, noi conserveremo la con- venienza e l'onestà.


Capo v.


Della Prudenza.

De’ quattro luoghi, ne' quali noi abbiamo diviso la natura e la forza dell’onesto, quello primo, il quale sta nella cognizione del ve- ro, massimamente tocca la natura umana. Imperocché tutti siamo tirati e siamo me- nati alla cupidigia della cognizione e della scienza; nella quale noi stimiamo esser cosa bella eccellere : ma trascorrere, errare, essere ingannato, e non sapere, noi diciamo essere cosa trista e brutta. In questa ra- gione naturale e onesta, due vizi debbono essere schifati : l’ uno, che noi non abbia- mo le cose incognite per le conosciute; il qual vizio chi lo vorrà fuggire ( ma tutti debbono volere) aggiugnerà, al considerare le cose, tempo e diligenza. L’altro vizio è, che alcuni mettono troppo grande studio, e troppo molta opera nelle cose oscure e malagevoli, e nientedimeno non necessarie.


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Ma, schifati questi vizi, ciò che di cura e di opera sarà posto nelle cose oneste e degne di cognizione, quello sarà ragionevolmente lodato. Come in astrologia noi abbiamo o- dito aver fatto Caio Sulpicio; e in geo- metria conoscemmo fare Sesto Pompeo; e molti in loica; e più in ragion civile : le quali arti tutte consistono nell' investigazio- ni del vero; per lo studio del quale, ri- muoversi dal fare le faccende, è contro al- l'ufficio. Imperocché ogni loda di virtù con- sista nel faccimeuto : dal quale nientedime- no spesso si fa intermissione, e molte ri- tornate sono date agli studi. Ancora il com- movimento della mente, il quale mai non si riposa, può contenere noi negli studi del pensare, ancora senza nostra opera. Ma ogni pensiero e movimento di animo sarà rivolto, o nel pigliare i consigli delle cose oneste, e appartenenti al bene e beata- mente vivere, o negli studi della cognizione e della scienza. E già noi abbiamo detto, della prima fonte dell’ ufficio.

Della Giustizia.


Delle tre ragioni le quali restano, lar- ghissimamente si manifesta quella, per la quale la compagnia degli uomini tra loro, e quasi la communione della vita, si con- tiene. Della quale due parti sono: la giu- stizia, nella quale è lo splendore grandis- simo della virtù, per la quale sono nomi- nati gli uomini buoni *, e a questa è con- giunta la beneficenza, la quale medesima- mente è lecito chiamare benignili, o vero liberalità. Ma della giustizia è il primo do- no, che alcuno a nessuno nuoca, se non é provocato da ingiuria; dipoi ch’egli usi le cose comuni per comuni, e le privale come per sue.

Ma da natura nessune cose sono priva- te: ma sono private o per antica occupa- zione, come addiviene a coloro, i quali per lo passato entrarono nelle cose non posse- dute; o per vittoria, com’ è in coloro, i quali le hanno acquistate per battaglia; o per legge j o per patto j o per condizione;


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o per sorte. Per la qual cosa è fatto che i campi arpinati sieno detti degli Arpinali, i tusculani de’Tusculani. £ simile è la divi- sione delle possessioni private. Per la qual cosa poicchè ciascuno possiede per suo di quelle cose, le quali per natura erano state comuni*, quello che ad alcuno tocca, quello


alcuno tenga. Per questo se alcuno a sé più appetirà, costui violerà la ragione dell’ u- mana compagnia.

Ma perchè, come da Platone fu scritto egregiamente, non a noi soli noi siamo nati, e del nascimento parte a sé ne attri- buisce la patria, parte gli amici; e come piace agli stoici, quelle cose le quali nelle terre sono generate, sono create all'uso de- gli uomini; e gli uomini sono fatti per ca- gione degli uomini, acciocché essi tra loro l’uno faccia prò all'altro; in questo noi dob- biamo seguire la natura per guida, e dob- biamo recare in comune le utilità comuni, con permutazione di uffici, dando e riceven- do; e, sì colle arti, sì coll’ opera, sì colle facultà, noi dobbiamo legare la compagnia degli uomini tra loro.





CAPO VII.

Della Fede.



Ma il fondamento della giustizia è la fede: cioè la costanza e la verità di quello che noi abbiamo detto, o abbiamo pattuito. Per la qual cosa, benché questo forse parrà a qual- cuno duro, nientedimeno noi avremo ardire di seguitare gli stoici, i quali studiosamente cercano donde le parole sieuo dette : e cre- deremo che la fede sia chiamata, perchè e’ si fa quello che è detto.


CAPO VIII.

Due ragioni d'ingiustizia.

Ma due ragioni sono d'ingiustizia: l’una di coloro i quali muovono l’ingiuria; l’altra di coloro, da’ quali non è rimossa l'ingiu- ria, se da loro si può, quando a loro essa è fatta. Imperocché chi ingiustamente fa im- peto contro ad alcuno, commosso o da ira o da qualche perturbazione, costui par che metta le mani addosso al compagno. Ma chi


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non si difeude e non si oppone all’ ingiuria, se egli può, tanto è in vizio, quanto se egli abbandonasse il padre e la madre, o gli ami- ci, ola patria.


CAPO IX.

Diverse ragioni cC ingiurie.

£ quelle ingiurie, le quali a studio sono fatte per cagione di nuocere, spesso proce- dono da paura : quando colui il quale pensa nuocere a altri, teme cbe se egli non fa quello, esso non sia preso da qualche in- comodità. Ma la grandissima parte sono as- salili al fare l' ingiuria, acciocché essi ac- quistino quelle cose, le quali eglino hanno desiderate : nel qual vizio larghissimamente sì manifesta l’avarizia.

Ma le ricchezze sono desiderate sì agli usi necessari della vita, e sì all’ usare le vo- luttà. Ma in chi è maggiore animo, in co- storo la cupidità delle pecunie ragguarda alla potenza, e alla facultà del farsi grato. Come, novellamente, Marco Crasso negava alcuua roba essere assai grande a colui, il





quale nella repubblica volesse essere prin- cipale, se de’ frutti di quella egli non po- tesse nutricare 1' esercito. Dilettano ancora i magnifici apparati, e i fornimenti del go- verno della vita con eleganzia e copia. Per le quali cose è fatto, che la cupidigia delle pecunie sia infinita. Ma l’amplificazione della roba tua non debbe essere ripresa, quando essa non nuoce ad alcuno; ma V ingiuria sempre debbe essere fuggita.

Ma massimamente sono molti indotti, che dalla dimenticanza della giustizia essi sono presi, quando essi sono cascati nella cu- pidigia degli imperii, degli onori, e della gloria. Imperocché quello che è appresso a Ennio, nessuna cupidigia del regno è santa, e non e’ è fede, largamente si ma- nifesta. Imperocché ciò che è in questo mo- do, che in quello non si possono fare grandi più uomini, in tal cosa molte volte si fa tanta contesa, che malagevolissima cosa sia conservare la santa compagnia. Tal cosa è stata dimostrata ora dalla temerità di Caio Cesare; il quale ha rivolto tutte le ragioni umane e divine, per acquistare quello prin- cipato, il quale con errore di sua opinione


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a sé aveva finto convenirsi. Ma in questa tal virtù è molesto, che spesse volte negli animi grandissimi, e negli splendidissimi in* gegni, sono cupidigie dell’onore, dello im- perio, della potenza, e della gloria : per la qual cosa tanto più è da guardarsi, che in lai cosa non si pecchi.

Ma in ogni ragione d' ingiustizia, molto si differenzia, se per qualche perturbazione di animo ( la quale molle volte è breve e a tempo) o se con consiglio sia fatta l’ingiu- ria, e pensatamente. Imperocché più leg- giere sono quelle cose, le quali accaggiono con subito movimento, che quelle le quali sono fatte innanzi pensate, e con prepara- zione. E del muovere ingiuria assai già ne sia detto.

CAPO x.

Le cagioni della seconda ragione dell' ingiustizia.

Più sogliono essere le cagioni del lasciare la difesa, e dell’ abbandonare chi tu sei te- nuto a difendere. Imperocché questi tali uo- mini non vogliono ricevere nimicizie, o fati-





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che,*o spese; ovvero ancora, ciò non fanno per pigrizia, o per dappocaggine, o perchè essi non l’apprezzino: ovvero essi da certi loro studi e occupazioni cosi sono impedi- ti, che coloro i quali da loro debbono es- sere difesi, gli abbandonano, e patiscono che eglino sieno offesi. Adunque è da ve- dere che non assai è quello che da Platone fu detto contro i filosofi, che perchè eglino si rivoltano nella investigazione del vero, e spregiano quelle cose le quali molti gran- demente desiderano, per le quali essi tra loro combattono, per questo essi stimano essere giusti. Imperocché conciosiacchè egli- no conseguitino l’uno modo della giustizia, che essi non nuocono ad alcuno, essi ca- scano nell’ altra ingiuria : imperocché im- pediti dallo studio dello imparare, eglino abbandonano chi da loro doveva essere di- feso. E così coloro stimano, ch’eglino non debbano andare a governare la repubblica, se non costretti: più giusta cosa era, che eglino andassi no di loro volontà; imperoc- ché quello è giusto il quale è fatto retta- mente, se egli è volontario.

Ma e sono ancora alcuni, i quali per lo 24

studio delle loro cose familiari, e per odio • di alcuni uomini, dicono che fanno loro faccende, acciocché eglino non paiano di fare ingiuria ad alcuno : i quali mancano dell’uno modo dell’ ingiustizia, e incorrono nell’altro. Imperocché essi abbandonano la compagnia della vita; perchè in colei nien- te eglino conferiscono di studio, niente di opera, e niente di facultà. Perché adun- que, preposte due ragioni d'ingiustizia, noi abbiamo aggiunto le cagioni dell’ una e del- l’altra 5 e innanzi noi ordinammo quelle co- se, nelle quali è contenuta la giustizia; a- gevolmente noi potremo giudicare che tem- po sia di ciascuno ufficio, se già noi molto non amiamo noi medesimi. Imperocché la cura delle altrui cose è malagevole : benché quel Cremete di Terenzio, nessuna cosa u- mana stima da sé essere aliena. Ma nien- . tedimeno perchè più noi pigliamo e cono- sciamo quelle cose, le quali a noi accaggiono prospere o avverse, che quelle le quali ad- divengono agli altri; le quali noi veggia- mo, quasi interpostovi un lungo spazio; altrimenti noi giudicheremo di loro, che dì noi. Per la qual cosa bene comandano



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coloro, i quali 'vietano che tu faccia alcuna cosa, la quale tu dubiti se ella è giusta o ingiusta : imperocché T equità per sé me-


Ma spesse volte accaggiono tempi, quando quelle cose le quali massimamente paiono essere degne del giusto uomo, e di colu >1 quale noi chiamiamo uomo buono, sono fatte contrarie: come è rendere il deposito e fare la promessa. Le quali cose, perchè esse si appartengono alla verità e alla fe- de, negare alcuna volta e non osservare, si fa giusta cosa. Imperocché ei si confà eh’ esse sieuo riferite a quelli fondamenti della giustizia, i quali io posi nel princi- pio : primamente eh’ ei non si nuoca ad al- cuno; dipoi che si serva all' utilità comune. Quelle cose col tempo si mutano, e si muta 1' ufficio, e non è sempre il medesimo.


desima riluce; e il dubitare dimostra pen- siero d’ingiuria.




CAPO XI.




Come l'ufficio si muta, e non è sempre il medesimo.





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£ può ancora accadere che alcuna pro- messa c convegna sia disutil cosa a essere fat- ta, o a colui a chi è stato promesso, o a colui il quale ha promesso. Imperocché se ( com’è nelle favole ) Nettuno non avesse fatto quello ch'egli aveva promesso a Teseo-, Teseo non sarebbe stato privato del suo fi- gliuolo Ippolito. Imperocché, come si scri- ve, di tre desiderate dimande, questa era la terza, che adirato, egli desiderò della morte di Ippolito : la quale impetrata, egli cascò in grandissimi pianti.

Adunque quelle promesse non debbono essere osservate, le quali sieno disutili a coloro a’ quali tu V hai promesse : nè an- cora se a te esse più nuocono, ch’esse non fanno prò a colui, al quale tu hai promes- so. Contro all’ ufficio è, il maggior danno essere anteposto al minore. Come se tu a- vessi ordinato andare avvocato a un fatto presente, e in questo mezzo il tuo figliuolo avesse cominciato ammalare gravemente, non è contro all’ufficio non fare quello che tu avevi ordinato. E più si partirebbe co- lui dall’ufficio, al quale tu avevi promesso-, se si dolesse essere stato lasciato. Or chi già





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non vede che in quelle promesse non si deb- ba stare, le quali alcuno, costretto da pau- ra, o ingannato con fraude, avrà promes- so? le quali, molle sono liberate per la ra- gione del pretore, e alcune per le leggi.


CAPO XII.

Della malizia nell' intcrpeirarc la ragione.

Fannosi ancora spesso ingiurie per una certa calunnia, e per la troppa scaltrita e maliziosa interpetrazione della ragione : on- de, somma ragione, somma ingiuria, è fatto proverbio già molto trito. Nel qual modo ancora nella repubblica si fanno molti peccati. Come colui, il quale quando le trie- gue erano fatte per trenta di, rubava la notte i campi; e diceva, che le triegue e- rano fatte de’ dì, e non delle notti. E an* cora non debbe essere lodato, se egli è ve- ro, quel nostro Fabio Labeone, ovvero qualche altro (imperocché io non ho altro che l’udito ) il quale, dato dal senato arbi- tro a’ Nolani e a’ Napoletani de’ contini dei loro campi, quando veane al luogo ordì-



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nato, parlò separatamente coll' una parie e 1' altra : e questo era, eh’ eglino non vo- lessino o fare o appetire alcuna cosa cupi- damente; e che piuttosto volessino andare a dietro, che ire innanzi. E quando co- loro ebbono fatto questo, come costui aveva detto, nel mezzo avanzò alquanto spazio di terreno : e così egli terminò i confini di co- storo, come essi avevano detto; e quello ch'era avanzalo in mezzo, giudicò che do- vesse essere del popolo romano. Ma questo è ingannare e non giudicare. Per la qual cosa in ogni faccenda debbe essere fuggita tale sottigliezza.

CAPO XIII.

Degli uffici verso gl' ingiuriatiti.

Sono ancora certi uffici i quali debbono essere osservati inverso coloro, da' quali tu avrai ricevuto T ingiuria. Imperocché e’ ci è il modo del vendicare, e del punire. E non so se egli è assai, che colui il quale ha in- giuriato, si penta dell'ingiuria; acciocché < sso da quinci innanzi non più faccia tal cosa, e gli altri sieno all'ingiuria più tardi.




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E nella repubblica spezialmente debbono essere conservate le ragioni della guerra. Imperocché conciosiacosacchè ei sieno due ragioni di combattere, l’una per deputa- zione, e l’ altra per forza 5 e conciosiaco- sacchè quella propriamente s’appartenga al- l’ uomo, e questa alle bestie; si debbe ri- fuggire a questa di dopo, se non è lecito usare quella di sopra.

Per la qual cosa le guerre debbono es- sere prese per questa cagione, che senza ingiuria si viva nella pace. Ma, acquistata la vittoria, debbono essere conservati colo- ro, i quali non furono crudeli nella guer- ra, nè disumani : come gli antichi nostri ancora nella città ricevettono i Tusculani, gli Equi, i* Volsci, i Sabini, gli Eurici; ma Cartagine e Numanzia mandarono a ter- ra insino a’ fondamenti. Io non vorrei che eglino avessino fatto così di Corinto : ma io credo che alcuni considerarono all’ op- portunità del luogo; acciocché esso luogo non potesse qualche volta confortare a muo- ver guerra. Ma a mio parere sempre si con- siglierà alla pace; la quale niente sia da do- vere avere d’ inganno. Nella qual cosa se



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a me fosse stalo obbedito, se noi non aves- simo ottima repubblica, almeno noi l’avrem- mo qualcuna, la quale ora è niuna. E a coloro ancora si debbe fare prò, i quali 'per forza tu hai vinto: e coloro debbono essei’e ricevuti, i quali, poste giù Tarmi, fuggiranno alla fede degli imperadori; ben- ché dall’ ariete sieno state percosse le loro mura. Nella qual cosa tanto appresso agli antichi nostri fu amata la giustizia, che co- loro i quali nella fede avessino ricevute le città e le nazioni, vinte per la guerra, fus- sino difensori di quelle, secondo il costu- me degli antichi.

E l’equità della guerra santissimamente è ordinata, per la ragione feciale del popolo romano. Dalla qual cosa può essere inteso, che niuna guerra è giusta, se non è quella che è fatta per le cose addimandate, o che innanzi essa sia stata denunziata, e coman- data. Pompilio imperadore teneva la provin- cia, nell’esercito del quale campeggiò il fi- gliuolo di Catone, nuovo soldato. Ma con- ciosiacosacchò a Pompilio paresse licenziare una legione, licenziò ancora il figliuolo di Catone, il quale campeggiava in quella. Ma

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perchè per voglia del combattere colui ri- mase nell’ esercito; Catone scrisse a Pompi- lio, che se pativa che colui rimanesse nel- l’esercito, ch’egli l'obbligasse col secondo sacramento; perchè, perduto il primo, egli non poteva di ragione combattere col nimi- co. Così era somma osservanza nel muovere la guerra.

Di Marco Catone vecchio ci è una pistola al figliuolo: nella quale egli scrive, che egli ha udito come egli è stato licenziato dal con- sole, conciosiacchèegli era soldato nella guer- ra macedonica; adunque egli Pammunisce, ch’egli si guardi, che egli non pigli la zuf- fa. Imperocché egli dice, che e’ non è di ra- gione, che colui il quale non sia soldato com- batta col nimico.

Quello ancora io considero, che colui il quale nel proprio nome era perduelle, fusse chiamato oste; la leggerezza del vocabolo mitigante la tristizia del fatto. Imperocché appresso agli antichi nostri, oste era chia- malo colui, il quale ora noi chiamiamo pe- regrino. Questo dimostrano le dodici tavo- le, ove era, il di ordinato coll'oste: e an- cora, 1' eterna autorità inverso l' oste. Or


che può essere aggiunto a tanta mansuetudi- ne, che colui col quale tu combatta, sia chiamato con si piacevole nome? benché l’an- tichità già ha fatto questo nome duro. Impe- rocché e’ s’ è partito dal peregrino, ed è ri- masto propriamente in colui, il quale con- tra ci arreca l’ arme.

CAPO XIV.

Che le cagioni della guerra hanno a essere giuste., e della Jede verso i nimici.

Ma quando e’ si combatte dell’imperio, e per guerra è cercala la gloria, bisogna nien- tedimeno che vi sieno le cagioni delle guer- re, e quelle giuste 5 come poco innanzi io dissi. Ma quelle guerre nelle quali è propo- sta la gloria dell’ imperio, debbono essere fatte meno acerbamente. Imperocché, come quando noi contendiamo civilmente, altri- menti noi contendiamo se egli è nimico, e altrimenti se egli addimanda il medesimo che noi: coll’uno è il combattimento dell’onore e della dignità, coll’altro è del capo e della fama. Co’ Celtiberi e Cimbri si faceva la




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guerra come con nimici; cioè chi rimanesse vivo, e non chi signoreggiasse. Co’ Latini, e Sanniti, con gli Affricani, con Pirro si combatteva dell'imperio. Gli Affricani fu- rono rompitori di fede -, Annibaie fu crude- le; tutti gli altri furono giusti. Di Pirro ci è quella bella sentenza del rendere i prigio- ni : A me io non addomando oro; a me voi non darete prezzo. Noi non facciamo merca- tanzia della guerra, ma noi siamo combat- tenti. Col ferro e non con oro combattiamo Cuna parte e l' altra. Proviamo colla virtù chi la fortuna padrona vuole che signoreg- gi, o voi o io, e (juello che arrechi la sorte. Alla virtù di chi la fortuna della guerra ha perdonato, alla libertà di coloro a me è certa cosa perdonare. Toglietevegli in dono, e dò- vegli f, volenti i grandi Iddii. Questa sentenza per certo fu di re, e degna della stirpe dei discesi di Eaco.

E ancora se noi da ciascuni tempi condot- ti, avremo promesso alcuna cosa a’ nimici, in quello debbe essere conservata la fade. Come nella prima guerra affricana, Regolo preso da’ Cartaginesi, quando da loro ei fu mandato a Roma per barattare i prigioni, e


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aveva giurato di tornare, se ciò non si face- va. Primamente come egli venne nel senato, giudicò che i prigioni non si dovcssino ren- dere; dipoi, conciosiacosaccbè egli fosse rite- nuto da'suoi, e dagli amici, e da' propinqui, più tosto volle tornare al tormento, che fal- lire la fede data al nimico. E degli uffici della guerra assai già si è detto.

capo xy.

Della giustizia verso gl'inferiori.

Ricordiamoci poi che la giustizia ancora inverso gl’ infimi debbe essere osservata. Ma la condizione e fortuna de' servi è infima. I quali servi, coloro i quali comandano ch’eglino sieno usati come mercenai al ri- scuotere l’opéra, e al dare al loro affare cose giuste, non male comandano. Ma conciosia-f cosacchè in due modi si faccia l’ingiuria, cioè colla fraude e colla violenza; la fraude pare quasi proprietà della volpe, e la violenza del lione : l’una e l’altra è alienissima dal- l’ uomo; ma la fraude è degna di maggiore odio. Ma d’ ogni ingiustizia nessuna è più




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capitale, che quella di coloro, i quali quando massimamente ingannano, quello fanno che essi paiono essere buoni. Assai si è detto della giustizia.

CAPO XVI.


Della Liberalità.


Di quinci, come si era proposto, dicasi della beneficenza e liberalità; della quale niente è alla natura dell’uomo più accomo- dato. Ma essa ha molte cautele. Imperocché prima si debba vedere che la benignità non nuoca, e a coloro medesimi a’quali parrà do- vere essere fatto benignamente, e agli altri: dipoi che la benignità non sia maggiore che la facultà : la terza è che a ciascuno si dia se- condo la dignità. Imperocché questo è il fon- damento della giustizia; alla quale debbono essere riferite tutte queste cose. Imperocché coloro i quaii nel gratificare nuocono a chi eglino mostrano volere fare prò, non deb- bono essere chiamati beneficatori e liberali, ma dannosi assentatori : e coloro i quali nuocono agli altri, acciocché inverso altri essi sieno liberali, sono nella medesima in-



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giustizia, come se eglino la roba altrui con- vertissino nella sua. Ma e sono molti cupidi dello splendore e della gloria, i quali tolgono a altri quello che a altri essi donino. A co- storo pare essere beneficatori degli amici, se coloro egli arricchiscono in qualunque mo- do : ma questo tanto si discosta dall'uificio, che all' ufficio niente possa essere più contra- rio. Vuoisi adunque vedere che noi usiamo quella liberalità, la quale faccia prò agli a- mici, e non nuoca ad alcuno. Per la qual cosa il trasferimento di Lucio Siila e di Caio Ce- sare delle pecunie, da’ giusti padroni agli alieni, non dehhe parere liberale; imperoc- ché niente è liberale, che medesimamente non sia giusto.

CAPO XVII.

Delle cause della seconda cautela.

L’ altra cautela era, che la benignità non fosse maggiore che le facultà. Perchè coloro i quali vogliono essere più benigni che non patisce il fatto loro, primamente in questo peccano, eh' essi fanno ingiuria a' prossimi.




Imperocché costoro trasferiscono alle genti aliene quella roba, la quale più ragionevol- mente doveva essere in aiuto, e essere lascia- ta a quegli prossimi. Ma in tale liberalità molte volte è la cupidigia del rapire e dello involare; acciocché le abbondanze bastino al donare. Ma egli è lecito che noi veggiamo molti, i quali non tanto per natura liberali, quanto indotti da una certa gloria, acciocché essi paiano benefìcatori, fanno molte cose, le quali paiono più venire da ostentazione che da volontà. Ma tale simulazione è più congiunta alla vanità, che alla liberalità o onestà.

CAPO XVIII.

Che si debba osservare nella cautela.

La terza cosa fu proposta che nella be- neficenza noi facessimo secondo la dignità. Nella qual cosa i costumi di colui saranno considerati, nel quale sia conferito il bene- fìcio, e l'animo ancora inverso noi; e an- cora sarà considerata la comunione, e la compagnia della vita con noi, e i beneficii innanzi fatti inverso noi. Le quali cose, se



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tutte concorreranno, è cosa da desiderarla;

se non, le più cagioni e maggiori avranno più di peso.

Ma e perchè si vive cogli uomini non per- fetti e pienamente savi; ma con coloro, nei quali si fa qualche cosa egregiamente, se pure che ivi sono l’effìgie della virtù; que- sto ancora io stimo che debba essere inteso, che uessuno di coloro debba essere spregia- to, nel quale apparisca qualche dimostra- zione di virtù; e massimamente se egli sarà ornato di queste virtù leggiere, cioè della modestia, e temperanza, e di quella me- desima giustizia, della quale già sono state dette molte cose. Imperocché l’animo forte e grande molte volte è più fervente in un uomo non perfetto nè savio : ma quelle vir- tù paiono più tosto toccare il buon uomo. E queste cose ne’ costumi sono considerate.




CAPO XIX.




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Della benevolenza e de' benejìcii per nostra utilità dati 1 e che nella benijìcenza si debba attendere accostumi.

Ma della benevolenza la quale alcuno ab- bia inverso noi, quello prima è nell’ uffi- cio, che a colui molto noi diamo, dal quale molto noi siamo amati. Ma la benevolenza noi giudicheremo npn come i giovanetti, con un certo ardore di amore, ma piutto- sto con stabilità e costanza. Ma se i meriti vi saranno, sicché la grazia sia da essere renduta e non presa, maggiore cura debbe essere aggiunta: perocché nessuno ufficio è più necessario, che rendere la grazia. Chè se, come dice Esiodo, tu debbi ( purché tu possa ) rendere con maggiore misura quelle cose, le quali tu hai ricevute per usare 5 or che dobbiamo noi fare, quando noi sia- mo provocati del beneficio ? Or dobbiamo noi fare come fanno i grassi campi, i quali molto più rendono eh' essi non hanno ri- cevuto? Imperocché se noi non dubitiamo fare i beneficii inverso coloro, i quali noi


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speriamo doverci far prò; or quali dobbia- mo noi essere inverso coloro, i quali già a noi hanno fatto prò ? Imperocché concio- siacosaccbè due sieno le ragioni della libe- ralità, luna del dare il beneficio, l'altra del renderlo; se noi diamo o no, è in no- stra potestà; ma il non renderlo, non é lecito al buon uomo, se pure eh* egli lo possa fare senza ingiuria.


CAPO. XX.

Quale scelta si debba avere ne' ricevuti beneficii.

£ de’ beneficii ricevuti debbe essere fatta 6celta : e non è dubbio che a ciascuno gran- dissimo, noi grandissimamente non siamo tenuti. Nella qual cosa nientedimeno, pri- mamente debbe essere pensato con che ani- mo, studio, o con che benevolenza alcuno avrà fatto quel beneficio inverso noi. Im- perocché molti fanno molte cose senza con- siderazione, o senza misura, inverso ognu- no, o commossi da un subito impeto d’ani- mo, e quasi dal vento. I quali beneficii non




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debbono essere stimati egualmente grandi, come quegli i quali sono fatti costantemen- te, e con considerazione. Ma nell’allogare i benefici!, e nel rendere la grazia, se tutte le altre cose saranno pari, questo massima- mente s 1 appartiene all’ ufficio, che, come alcuno avrà specialmente bisogno di aiuto, così a lui spezialmente noi aiutiamo. La qual cosa pel contrario è fatta da molti : impe- rocché da chi eglino molto sperano, ancora se colui non ha bisogno di loro, nientedi- meno a lui molto essi servono.

CAPO xxt.

Del principio e legami dell' umana compagnia.

Ma ottimamente sarà conservata la con- giunzione e compagnia umana, se come al- enilo sarà congiuntissimo, così in lui mol- tissima benignità sarà conferita. Ma che principii della natura sieno della comuni- tà e compagnia umana, mi pare che deb- ba essere ripetito più da alto. Imperocché il primo è quello il quale è ragguardalo nel-


la compagnia di tutta la generazione uma- na; e il legame di questo è la ragione e il parlare: la qual cosa insegnando, impa- rando, comunicando, disputando, giudi- cando, concilia gli uomini tra loro, e con- giugneli con una naturale compagnia. Nè per alcuna cosa noi più da lungi ci disco- stiamo dalla natura delle fiere, nelle quali noi diciamo spesso eh’ è la fortezza; come ne’ cavalli e ne'lioni : ma la giustizia, l’e- quità, la bontà noi non diciamo essere in loro; imperocché esse sono senza la ragione e il parlare.

E larghissimamente agli uomini tra gli uomini j e a tutti tra tutti si manifesta que- sta compagnia: nella quale debbe essere os- servata la comunità di tutte quelle cose, le quali la natura ha generate al comune uso degli uomini: come quelle cose, le quali sono state' ordinate per le leggi e per ra- gione civile, così sieno tenute e osservate, com’è stato ordinato. Per le quali cose le altre cose sieno osservate, com’è nel pro- verbio de’ greci, le cose degli amici sieno tutte comuni : imperocché tutte quelle cose paiono essere comuni, le quali sono di quel-


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la ragione, la quale da Ennio posta in una cosa, può essere transferita in molte parti: l'uomo il quale mostra al compagno errante la via, quasi accenda il lume del lume suo, fa che niente meno a lui riluca, benché a colui egli l'abbia acceso. Imperocché, per una cosa, assai egli comandò, che ciò che senza danno può essere accomodato, quello sia attribuito ancora a uno, il quale noi non conosciamo. Donde sono quelle cose comuni : non vietare l’acqua corrente; pa- tire ch’ei si pigli il fuoco dal fuoco; dare il consiglio fedele, se alcuno deliberante farà di qualcosa a te la dimanda : le quali cose sono utili a coloro i quali le ricevono, e non moleste a chi le dà. Per la qualcosa queste cose debbono essere usate da noi, e sempre debbe essere arrecata qualche cosa all’utilità comune. Ma perchè le abbondanze degli uomini in particolarità sono piccole, e la moltitudine è infinita di coloro i quali ne abbisognano, la liberalità volgare debbe essere riferita a quel fine di Ennio, che nientedimeno a se riluca : acciocché e' sia facoltà, per la quale noi siamo liberali in- verso i nostri.


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CAPO XXII.


Della diversità de'gradi della generazione umana.

Ma i gradi della compagnia umana sono più. Imperocché, acciocché noi ci partiamo da quella infinita, più pressa compagnia è quella della medesima gente, e uazione, e lingua, per la quale massimamente gli uomini si congiungono. Più a dentro è a essere della medesima città: imperocché molte cose sono a' cittadini tra loro co- muni, come il foro, le chiese, i portici, le vie, le leggi, le ragioni, i giudici)*, il ragunarsi a consigliare; le usanze, oltre a questo, e le familiarità, e molte cose e ra- gioni contratte con molti. Ma più stretta collegazione della compagnia è de 1 propin- qui : imperocché da quella smisurata com- pagnia della generazione umana, si conchiu- de in una piccola e stretta.

Imperocché conciosiacosacchè questo sia comune della natura degli animali, che essi abbiano la libidine del procreare, la prima compagnia è in esso matrimonio; la



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prossima è ne’figliuoli; dipoi si fa una casa, e tutte le cose comuni : e questo è il prin- cipio della città, e quasi il semenzaio del- la repubblica. Seguitano i congiugnimenti de’ fratelli : dipoi de’ figliuoli de’ fratelli e delle sorelle •, i quali quando non possono capere in una casa, escono in altre case, come in colonie. Seguitano di quinci i ma- ritamenli e parentadi, de’ quali vengono più propinqui; il quale distendimento e schiatta è origine delle repubbliche.

Ma la congiunzione del sangue lega gli uomini cou benevolenza e carità. Imperoc- ché egli è grande cosa avere le medesime cose fatte per commemorazione degli an- tichi, usare i medesimi sacrificii, avere i sepolcri comuni. Ma di tutte le compa- gnie nessuna è più eccellente, nessuna è più ferma, che quando gli uomini buoni, simili di costumi, sono congiunti con fami- liarità. Imperocché quell’ onesto, il quale spesso noi diciamo, noi muove, benché in altri noi lo ragguardiamo; e noi fa amici a colui, nel quale pare che sia quell’ one- sto. E benché ogni virtù noi alletti, e fac- cia che noi amiamo coloro ne’ quali essa


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mostri essere; nientedimeno la giustizia e la liberalità fa quello massimamente.

Ma niente è più amabile nè più accop- piato che la similitudine de’buoni costumi: imperocché in chi sono i medesimi studi, e le medesime volontà, in costoro si fa che l'uno egualmente si diletti dell'altro, come di sè medesimo. E fessi quello che vuole Pitagora nell'amicizia, che uno si faccia di più. Grande è ancora quella comunità la quale è fatta pe'beneGcii di qui e di lì dati e ricevuti; i quali mentre che sono scam- bievoli e grati, coloro tra chi eglino sono, sono legati con ferma compagnia.

Ma quando tu avrai attornialo tutte le cose con l'animo e con la ragione, nessuna di tutte le società è più grata, nessuna più cara, che quella la quale è colla repubblica e ciascuno di noi. Cari sono i padri e le madri, cari i figliuoli, cari i propinqui, e familiari; ma sola la patria ha abbrac- ciato tutte le carità di tutte le cose : per la quale ciascuno uomo non dubita mori- re, se a quella egli dovrà fare prò. Per la qual cosa più è da essere maledetta la crudeltà di costoro, i quali con ogni scel-




leralezza hanno lacerato la patria; e in gua- stare quella insino al fondo, sono e furono occupati.


CAPO XXIII.

Che secondo la diversità de gradi si debbano distribuire gli uffici.

Ma se si facesse contesa o comparazione a chi più debba essere dato d’ufficio-, i prin- cipali sieno la patria, i padri, e le madri; a’beneficii de’quali grandissimi, noi siamo obbligati: i prossimi sieno i tìgliuoli, e tut- ta la famiglia, la quale ragguarda in noi soli, e non può avere altro rifugio: dipoi i propinqui bene d’ accordo con noi, coi quali spesso la fortuna ancora è comune. Per la qual cosa i necessari aiuti della vita deb- bono essere dati massimamente a coloro, i quali io lio nominati. La vita comune, e il vivere, ei consigli, sermoni, conforti, con- solazioni, alcune volte ancora le riprensio- ni, grandissimamente hanno forza nelle ami- cizie. E quella è giocondissima amicizia, la quale similitudine di costumi ha congiunto.

Ma nell’ attribuire tutti questi uffici si


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dovrà vedere quello che a ciascuno spezial- mente sia di bisogno; e quello che ciascu- no, ancora senza noi, o possa o non possa conseguitare. Cosi i gradi delle congiunzioni non saranno i medesimi di quegli de’tem- pi : e sono uffici i quali sono dovuti più a uno che a un altro; come, aiuterai più to- sto il vicino, che il fratello o il familiare, nel raccorre i frutti. Ma se sarà lite nel giu- dicio, difenderai più tosto il propinquo e 1 ’ amico, che il vicino. Queste e tali cose adunque debbono essere conosciute in ogni ufficio -, e debb’essere presa l’usanza e l’eser- citazione, acciocché noi possiamo rendere bene ragione degli uffici 5 e aggiugnendo e rimovendo, vedere, che somma si faccia di quello che resta, per la quale tu inten- derai quanto a ciascuno tu sia tenuto.

  • Ma come i medici, e gl’ imperadori, e

gli oratori, benché eglino abbino impreso i precetti dell’arte, non possono consegui- tare alcuna cosa degna di grande laude, senza uso ed esercitazione; così sono dati i precetti del conservare 1’ ufficio 5 cioè, che noi medesimi facciamo quegli. E come l'onesto del quale è fatto l'ufficio sia menato




fla quelle cose, le quali sono nella ragione della compagnia umana, assai quasi ne ab- biamo detto.

capo xxiv.

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Bel terzo fonte dell' onesto, cioè della fortezza.

Ma conciosiacosaccbè noi abbiamo propo- sto, che quattro generazioni di cose sono, delle quali venga l'onestà e l’ ufficio j noi dobbiamo intendere che quella generazione pare splendidissima, la quale si fa coll'ani- mo grande e alto, e spregiante le cose uma- ne. Adunque nelle vituperazioni assai è ma- nifesto, se alcuna tal cosa così può essere detta : voi, o giovani, avete animo di fem- mina, e quella vergine di maschio. E se al- cuna cosa ancora tale si può dire : dà le spoglie a'Salmaci, senza sudore e sangue. E per l’avverso nella lode si pongono quelle cose, le quali sono fatte con l'animo gran* de e forte, ed eccellentemente: e quelle cose non so in che modo noi le lodiamo colla piena bocca. Di quinci è il campo de' ret- toria de’ fatti di Maratona, di Salamina,

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di Platea, di Termopili * diLeutri; di quinci è lodato il nostro Coelite 5 di quinci sono lodati i Decii, gli Scipioni, Marcello, e al- tri infiniti. Massimamente il popolo romano eccelle per la grandezza dell’ animo : ma e si dimostra lo studio della gloria delle batta- glie, che noi veggiamo anche le statue con l’ornato quasi militare.

Ma quell’altezza di animo la quale è rag- guardata ne 1 pericoli e nelle fatiche, se essa manca di giustizia, e combatte non per la salute comune, ma pe’suoi commodi, è po- sta nel vizio. Imperocché questo non sola- mente non s’appartiene a virtù, ma piut- tosto si appartiene alla disumana crudeltà, scacciante da sé ogni umanità. Adunque ot- timamente si definisce dagli stoici la gran- dezza dell’ animo : conciosiacchè essi dica- no, ch’essa è virtù combattente per l’equi- tà. Per la qual cosa nessuno ha acquistato loda con malizia e con inganni, il quale ha conseguito la gloria della fortezza : niente può essere onesto, il quale manca di giu- stizia.

Egregio è adunque quel detto di Plato- ne; non solamente, esso dice, quella scien-





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za la quale manca di giustizia, è da essere chiamata più tosto callidità che sapienza; ma ancora 1' animo apparecchialo al peri- colo, se egli è commosso per sue cupidità, e non per la utilità comune, abbia piutto- sto il nome dell'audacia che della fortezza. Adunque noi vogliamo che gli uomini forti e magnanimi sieno buoni, e amici della sem- plice virtù, e non fallaci. Le quali cose sono del mezzo della lode della giustizia.

Ma quello è odioso, che in questa altezza e grandezza di animo agevolissimamente na- sce la pertinacia, e troppa cupidigia di si- gnoreggiare. Imperocché, com’è appresso a Platoue : ogni costume de' Lacedemoni è infiammato dalla cupidità del vincere j come ciascuno spezialmente eccelle per la gran- dezza dell' animo, cosi spezialmente esso vuol essere il signore di tutti, e ancora più tosto solo. Ma egli è malagevole, quando tu desidererai avanzare lutti gli altri, a conser- vare l'equità, la quale è spezialmente pro- pria della giustizia. Per la qual cosa si fa che gli uomini non patiscano essere vinti, nè per dispute, uè per alcuna pubblica e legittima ragione. E nella repubblica molte


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volte sono i donatori, e i faccienti sette, acciocché essi acquistino ricchezze, e sieno più tosto per forza di sopra agli altri, che per giustizia pari. Ma quello eh’ è più ma- lagevole, quello è più egregio: imperocché nessuno tempo è, il quale debba mancare di giustizia.

Adunque forti e magnanimi si chiame- ranno coloro, i quali non fanno, ma scac- ciano la ingiuria. Ma la vera e savia gran- dezza d’animo giudica, che quella onestà la quale massimamente la natura segue, sia posta ne’ fatti, e non nella gloria; e più tosto essa vuol essere principe che parere. Imperocché chi è nell’ errore dell’ iudotta moltitudine, costui non è da essere messo tra gli uomini grandi. Ma agevolissimamente colui è commosso a fare ingiustizia, il qua- le ha l'animo altissimo e desideroso di glo- ria. Il quale luogo per certo fa gli uomini trascorrere. Imperocché malagevolmente si trova chi, quando esso avrà ricevuto le fa- tiche, e aggiuntovi i pericoli, non desi- deri la gloria, quasi premio de’fatti suoi.


In che cosa consiste la fortezza.


Al tutto il forte e grande animo per due cose spezialmente si conosce : delle quali l’uua si pone nello spregiare le cose della fortuna. Conciosiacchè già si è dichiarato che l'uomo non debba o desiderare, o ma- ravigliarsi, o addimandare, se non quello che sia onesto e conveniente, e non debba sottoporsi nè ad alcun’uomo, nè alla per- turbazione deH’animo, nè alla fortuna. L’al- tra cosa è, che conciosiacosaccliè tu sia così disposto coll’animo, come di sopra io dis- si, tu faccia cose grandi, e quelle massi- mamente utili e molto malagevoli, e pie- ne di fatiche e di pericoli -, per cagione sì della vita, sì di tutte le altre cose, le quali si appartengono alla vita.

Di queste due cose ogni splendore è l’am- plitudine-, e a questa aggiungo ancora l’uti- lità, la quale è nel luogo dopo : ma la cagione e la ragione facciente gli uomini grandi, è nel primo luogo. Imperocché in quello è quella cosa la quale fa gli uomini



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eccellenti, e spregianti le cose umane. Ma questa medesima cosa è conosciuta in due cose; se tu giudichi solamente quello essere buono il quale è onesto; e se tu sei libero da ogni perturbazione di animo. Imperocché quelle cose le quali a molti paiono esimie ed eccellenti, stimarle piccole, e quelle spregiare con ragione ferma e stabile, si debbe dire essere d'animo forte e grande: e quelle cose le quali paiono acerbe, le quali molte e varie sono rivolte nella vita e fortuna degli uomini, così sopportarle, che niente ci parta dallo stato della natura, niente dalla dignità; diremo essere d’ani- mo savio, e robusto, e di grande costanza.

Imperocché e’ non è consentaneo che chi non è rotto dalla paura, esso sia rotto dal- la cupidità; nè chi non è vinto dalla fati- ca, esso sia vinto da’ piaceri. Per la qual cosa queste sopradette cose sono da essere conosciute; e debbesi ancora fuggire la cu- pidità della pecunia : imperocché niente è che più s'appartenga all'animo vile e pic- colo, che amare le ricchezze; e niente è più magnanimo e più onesto che spregiare la pecunia se tu non l’hai, e se tu l’hai,

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usarla a magnificenza e liberalità. Àncora, come di sopra io dissi, noi schiferemo la cupidigia della gloria; imperocché essa leva la libertà all'animo : per la quale agli uo- mini magnanimi dehhe essere ogni sforzo.

CAPÒ XXVI.

Che gV imperii non si debbono desiderare; ma alcuna volta sono da essere deposti : e da chi la tepublica si debba governare .

Ma non gli imperii sono da essere desi- derati, ma piuttosto alcuna volta noi non li piglieremo, e alcuna volta gli porremo giù. Ma si debbe mancare d' ogni pertur- bazione d'animo, sì di cupidigia e di pau- ra, sì ancora di dolore e piacere d'animo, e d’ ira; acciocché la tranquillità e sicurtà dell'animo sia con noi presente; la quale arrechi sì la costanza, sì la dignità. Ma mol- ti sono e furono, i quali desideranti quella tranquillità che io dico, sé hanno rimosso dalle pubbliche faccende, e fuggirono all'o- zio. Tra costoro sono nobilissimi filosofi e mollo principali; e ancora alcuni uomini se-



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veri e gravi : e questo costoro feciono, per- chè non poterono sopportare i costumi dei popoli e de'priucipi. E alcuni si sono vi- vuti ne’ loro poderi, dilettatisi solamente delle loro cose familiari; e a costoro è sta- to il medesimo proposito che a’ re; cioè eh' essi non abbisognassino d’ alcuna cosa, e non ubbidissino ad alcuna, e usassino la libertà, della quale la proprietà è vivere come tu vuoi.

Per la qual cosa conciosiacosaccbè que- sto sia a comune tra’ desiderosi della po- tenza, e tra coloro i quali io chiamai ozio- si; imperocché quegli cupidi della potenza pensano potere soddisfare al desiderio loro, se essi acquistano grandi ricchezze 5 e que- gli altri, se essi stanno contenti della roba loro, benché poca sia. Nientedimeno il pro- posito dell'una parte e l'altra, in questa non sarà al tutto spregiato : ma la vita degli oziosi è più facile e più secura, e meno no- iosa e molesta agli altri : ma di più frutto è alla generazione umana, e più alta all'ac- quistare stima e farsi grande, la vita di coloro, i quali sé hanno accomodato alla repubblica, e al fare cose grandi. Per la






qual cosa e forse si debbe concedere a co- loro, i quali non si danno alla repubbli- ca, i quali essenti di grande ingegno, sè hanno dato alla dottrina : e a coloro i quali o per debolezza della loro sanità, o per al- cun'altra più grave cagione impediti, si sono partiti dal governo della repubblica, quando essi hanno conceduto agli altri la potestà del- l’ amministrare la repubblica, e ancora la loda. Ma chi non hanno tali cagioni, se essi dicono che spregiano quelle cose di che molti si maravigliano, cioè le signorie e i magistra- ti; costoro non solamente non mi paiono da essere lodati, ma piuttosto vituperati e ri- presi. Il giudizio de' quali, in quello cb'essi spregiano la gloria, e stimanla da niente, è difficile a non lodare : ma e' mostrano temere le fatiche e le noie, sì delle offese e sì ancora degli scacciamenti, quasi vergogna ed infamia. Imperocché e' sono alcuni, i quali nelle cose contrarie hanno poca costanza : essi severis- vimamente spregiano la voluttà, e nel dolore trascorrono; spregiano la gloria, e pigliano passione dell'infamia : e queste cose fanno non assai costantemente.

Ma da coloro i quali dalla natura sono aiu-



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tati al fare le cose, saranno presi i magistrati senza indugio alcuno, e sarà amministrata la repubblica. Imperocché altrimenti non si può reggere la repubblica, e non si può di- mostrare la grandezza dell’animo. Ma i pi- glianti il governo della repubblica, non me- no che i filosofi, io non so se più ancora deb- bano usare la magnificenza, e il dispregio delle cose umane, il quale più volte io ho detto, e la tranquillità, e la sicurtà: impe- rocché essi non debbono essere ili angosce, ma più tosto debbono vivere con gravità e costanza.

Le quali cose sono più facili a’filosofi; per- ché meno cose si manifestano nella vita loro, le quali la fortuna percuota; e perchè di me- no cose abbisognano; e perchè se alcuna av- versità addiviene, non tanto gravemente possono cascare. Per la qual cosa non senza cagione maggiori commovimenti sono desti, e fare maggiori cose, ne’governanti la repub- blica, che negli uomini quieti. Per la qual cosa più debb’ essere appresso di costoro la grandezza dell'animo, c la mancanza delle passioni.


CAPO XXIX.



Che in ogni cosa che s' ha a fare, si debba fare diligente preparazione : c che le cose urbane si preponghino alle cose di guerra.

Ma chi piglia a fare la cosa, guardi che non solamente consideri quanto quella cosa sia onesta; ma ancora eh' esso abbia facultà di poterla fare. Nella qual medesima cosa si debbe considerare, eh’ essa, o non senza ra- gione si disperi per pigrizia, o non troppo si confidi per cupidità. Ma in tutte le faccen- de, prima che tu le cominci, si debbe usare una diligente preparazione.

Ma perchè molti stimano, che i fatti delle armi sieno maggiori che quelli della città, io voglio amminuire questa opinione. Ini* perocché molti spesse volte hanno cerco le guerre per cupidità di gloria j e questo molte volte addiviene negli animi e ingegni grandi: e tanto più se essi erano atti al fatto delle ar- mi, e desiderosi del fare battaglie. Ma se noi vogliamo giudicare con verità, molte cose della città sono state maggiori, e più di fama, che quelle della guerra.



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Imperocché, benché Temistocle ragione- volmente sia lodato, e sia il nome suo in piu gloria che quello di Solone; e a questo sia chiamata la città di Salamina, testimone della nobilissima vittoria, la quale sia preposta al consiglio di Solone, e a quello consiglio col quale da prima esso ordinò gli Arcopagiti; non è da essere giudicato meno egregio que* sto fatto che quello. Imperocché quello una volta fece prò, ma questo farà prò sempre : con questo consiglio si conservarono le leggi degli Ateniesi, con questo si conservano gli ordini degli antichi. E Temistocle niente a- vrà detto, con che esso abbia aiutalo all’areo- pago, ma colui dirà con verità eh’ esso aiutò Temistocle : imperocché la battaglia si fece col consiglio di quel senato, il quale era stato ordinato da Solone.

Le medesime cose è lecito dire di Pausa- nia e di Lisandro: pe’ fatti de’ quali, benché la signoria de’ Lacedemoni fosse ampliata, nientedimeno non sono da essere agguagliati, da una minima parte, alle leggi e alla disci- plina di Licurgo : che ancora per queste me- desime cose, essi ebbono gli eserciti più ub- bidienti e più forti. Quando noi eravamo




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fanciulli, e’ non pareva che Marco Scauro ce- desse a Caio Mauro: nè quando noi ci rivol- tavamo nella repubblica, Quinto Calulo ce- deva a Gneo Pompeo. Imperocché piccola cosa sono le armi di fuori, se il consiglio non è in casa. Nè più Albicano, singolare uomo e imperatore, fece prò alla repubblica per in- guastare Numanzia, che in quello medesimo tempo Pubblio Nasica privato, quando esso uccise Tiberio Gracco : benché questo fatto non solamente è della ragione di casa, ma an- cora è tocca la ragione di fuori, cioè delle armi; perchè con forza e mano fu fatto : pur quello medesimo fu fatto con consiglio della città, senza esercito.

Ma quel fatto è ottimo, nel quale io odo essere assalito da tristi ed invidiosi : le armi cedano alla toga, e il trionfo ceda alla lin- gua. Imperocché, acciocché io lasci gli altri, quando noi governavamo la repubblica, or noncedetteno le armi alla toga? Imperocché nella repubblica non fu mai più grave peri- colo, nè maggiore odio. Così per la diligenza c pe’ consigli nostri, prestamente dalle mani degli audacissimi cittadini sono cascate le ar- mi. Adunque che fatto di battaglia fu mai di



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tanto pregio ? clic trionfo fu mai da essere agguagliato ?

O mio figliuolo, a me è lecito gloriarmi appresso a te, al quale s’ appartiene l’ere- dità di questa gloria, e la imitazione de’fatti miei. Gneo Pompeo, uomo per certo abbon- dante di lode di guerre, molti udentilo, a me questo attribuì : che egli disse, che invano esso doveva essere per avere il terzo trionfo, se pel mio beneficio inverso la repubblica, egli non dovesse avere dov’esso trionfasse. Adunque le fortezze di casa non sono più basse che quelle di fuora, cioè delle armi. Nelle quali domestiche fortezze più ancora d’opera e di studio si debbe porre, che in quelle altre.

Al tutto quella onestà, la quale noi cer- chiamo delPaiiimo alto e magnifico, si fa col- le forze dell'animo e non del corpo. Ma il corpo si debbe esercitare ed affaticarlo, che esso possa ubbidire al consiglio e alla ragio- ne nel fare le faccende, e nel sopportare la fatica. Nella qual cosa non minore utilità ar- recano coloro, i quali togati sono sopra alla repubblica, che coloro i quali fanno le guer- re. E così pel consiglio di coloro, spesse volte

le guerre o esse non sono prese, o esse sono fatte, o esse alcune volte sono mosse. Come la terza guerra affricana, fu fatta pel consi- glio di Marco Catone; nella quale ancora po- tè 1’ autorità di Catone morto.

Per la qual cosa più si debbe addoman- dare la ragione del deliberare, che la for- tezza del combattere. Ma e’ sarà da guardar- si, che quello noi non facciamo, più tosto per fuggire il combattere, che per ragione dell'utilità. Ma la guerra così si pigli, che niente altro paia essere cerco, se non è la pace.

capo xxx.

Quello che sia proprio del forte e prudente uomo .

Ma al forte e costante animo si appartiene non essere perturbato per cose aspre, e come si dice, lui essente nelle noie, non essere ri- mosso dal grado suo : ma usare l’animo favo- reggianle e il consiglio, e non si partire dalla ragione: benché questo si appartenga all’a- nimo, e quello all’ingegno grande, con pen- siero prevedere le cose future, e alcuna volta


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innanzi ordinare quello, che possa addive- nire nell’ una e l' altra parte, e quello che sia da fare quaudo alcuna cosa sarà addivenuta, e non commettere in modo, che alcuna volta tu abbia a dire: io non me n'era avveduto. Queste sono opere dell’ animo grande e alto, e confidantesi nella prudenza e nel consiglio. Ma senza ragione rivoltarsi nelle schiere, e combattere col nimico, è cosa disumana, e simile alle bestie. Ma quando il tempo e la necessità lo domanda, si debbe combattere, e anti porre la morte alla servitù e bruttezza.

CAPO XXXI.

Che si debba osservare nel disfacimento delle città.

Ma nel disfare o mettere a sacco le città, si conviene avere molta considerazione, che niente crudelmente o senza ragione noi fac- ciamo. E questo s’ appartiene all’ uomo di grande animo', poi che il fatto sia spacciato, punire chi ha errato, conservare la moltitu- dine, e in ogni fortuna ritenere le cose rette ed oneste. Imperocché come sono ( siccome



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di sopra dissi ) alcuni, i quali prepongono i fatti della guerra a quegli della città; così tu troverai molti, a’ quali i consigli pericolosi e callidi, paiono maggiori e più splendidi dei consigli quieti e di pensiero. Non mai al tutto per fuggire il pericolo noi commetteremo, che noi paiamo timidi e disadatti a battaglia. Ma ancora si debbe fuggire questo, che noi non offeriamo noi a 1 pericoli senza cagione; della qual cosa niente può essere più stolto.

Per la qual cosa quando noi avremo a pi- gliare pericolo alcuno, faremo come usano fare i medici; i quali leggermente curano chi leggermente è infermo, e alle più gravi in- fermità, sono costretti dare medicine perico- lose e di dubbio. Per la qual cosa in tranquil- lità desiderare tempesta contraria, si appar- tiene allo stolto; ma sovvenire alla tempesta con ogni modo che si può, s'appartiene al savio: e per questo più, se sviluppalo il fat- to, tu acquisterai più di bene, che quando egli era dubbioso di male.





CAPO XXXII.


A quali pericoli dobbiamo estere più pronti, e per quali cose dobbiamo massimamente combattere.

Ma le operazioni delle cose sono perico- lose, parte a coloro i quali pigliano quelle, e parte alla repubblica. E ancora alcuni sono chiamali ne’pericoli de'fatli della vita, alcuni de’fatti della gloria, e benevolenza de’cittadi- ni. Adunque noi dobbiamo essere più pronti ne' pericoli nostri, ebe ne' comuni; e dob- biamo combattere più prontamente de’fatti dell' onore e della gloria, che di tutte l'altre commodi tà.

Ma molti sono stati trovati, i quali erano apparecchiati a spargere per la patria non solamente la pecunia, ma ancora la vita j e questi non volevano offendere menomamente la loro gloria, ancora che la repubblica lo addomandasse. Come Callicratida, il quale quando era capitano de' Lacedemoni nella guerra del Peloponneso, concìosiacosacchè esso avesse fatto molte cose egregie, nell’ul- timo guastò quello che insino allora aveva




fatto, quando esso non ubbidì al consiglio di coloro, i quali dicevano, che il navilio si doveva rimuovere da Argiuuso, e non com- battere cogli Ateniesi. A’ quali colui rispose: i Lacedemoni, perduto questo navilio, pos- sono rifarne un altro, ma io non posso fug- gire senza mio disonore. Ma questa fu mez- zana piaga de'Lacedemoni : ma quella fu pe- stifera, perla quale assai cascarono le abbon- danze de'Lacedemoni’, quando Cleombroto, temente la invidia, senza ragione alcuna combattè con Epaminonda. Ma quanto me- glio fece Quinto Massimo*, del quale Ennio disse : costui è uno, il quale dimorando, a noi ha restituito la repubblica. Imperocché esso non preponeva la fama alla salute, adunque la gloria di quell' uomo ora più risplende . Il quale modo di peccare ancora si debbe schi- fare ne' fatti della città. Imperocché e' sono alcuni, i quali non ardiscono dire, per pau- ra della invidia, quello che a loro pare $ e se ancora la sentenza loro sia ottima.


CAPO XXXIII.


Comandamenti di Platone a chi governa la repubblica.

Coloro i quali vogliono fare prò alla re- pubblica, al tutto osservino due precetti di Platone: l’uno è eh’ essi cosi difendano l’u- tilità de’ cittadini, che ciò eh’ essi fanno rife- riscano a lei, dimenticali ancora de’commo- di loro. L’ altro è ch’essi usino tutto il corpo della repubblica, e che l’una parte essi non difendino, e l’altra abbandonino. Imperoc- ché il governo della repubblica, come la tu- tela, si debbe fare all’utilità di coloro i quali sono commessi, e non di coloro a chi ella è commessa. Ma chi aiuta 1* una parte de* cit- tadini, e l'altra non apprezza, mette nella città cosa dannosa, cioè sedizione e discor- dia. Per la qual cosa addiviene, che alcuni paiano amici, alcuni studiosi di ciascuno ot- timo cittadino, e pochi amino la università.

Di quinci seguitarono appresso gli Ateniesi grandi discordie : e nella repubblica nostra vennono non solo discordie, ma ancora guer- re civili di mollo danno : le quali il grave e



forte cittadino e degno del principato le fug- gc, e odieralle, e sé tutto darà alla repub- blica 5 e non cercherà ricchezze o potenza 5 e tutta la repubblica difenderà in tal modo, clf esso gioverà a ognuno. E esso con falsi peccati non chiamerà alcuno in odio o in in- vidia; e in ogni modo così alla giustizia e al- l’ onestà ei s’accosterà, che quelle virtù esso conservi, benché gravemente egli offenda; e la morte appetisca piuttosto, eh’ esso abban- doni quelle cose ebe io ho detto.

CAPO ZXX1V.

Che misera cosa è con ambizione cercare gli onori, e di quelli contendere.

Miserissima è al tutto l'ambizione e la con- tenzione degli onori : della quale egregia- mente è così appresso a Platone : similmente Janno coloro, i quali contendono chi di loro più tosto amministri la repubblica; come se i marinai tra loro combattessino, chi di lo- ro spezialmente governasse. Il medesimo Platone ancora comandò, che noi stimassi- mo avversari coloro, i quali arrecassiuo l’ar-


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me incontro, e non coloro i quali col loro giudizio vogliono difendere la repubblica. Quale dissensione fu senza crudeltà tra Pu- blio Affricano, e Quinto Metello.

CAPO XXXV.

Che a governatori della repubblica si con- viene essere clementi e severi.

Ma coloro da noi non saranno uditi, i quali stimano doversi gravemente adirarsi contro a' nemici; e quello stimano apparte- nersi all 1 animo grande e forte. Imperocché niente è più laudabile, niente più degno del- l'uomo eccellente e grande, che è l' umiltà eia clemenza. Ma ne’popoli liberi, e nel dare la ragione, egualmente si debbe esercitare la facilità e l’altezza dell'animo; affinchè, se noi ci adiriamo con coloro che non sono ve- nuti al tempo, o che imprudentemente do- mandano, noi non caschiamo in una stizza disutile e odiosa : e così nientedimeno noi ap- proveremo la mansuetudine e la clemenza, che e’ vi sia aggiunta, per cagione della re- pubblica, la severità; senza la quale non può essere amministrata la città.


CAPO XXXVI.


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Che chi castiga non debba essere contumelia - so, nè la pena non debba avanzare la colpa.

Ma ogni punizione e gastigamento debbe mancare di villana superbia : e quella gasti- gazione si debbe riferire non all’utilità di colui ebe gasliga, ma a quella della repub- blica. Ancora si debbe guardare eh’ e’ non sia maggiore la pena che la colpa j e che per le medesime cagioni l'uno sia punito, e l’altro non sia pur chiamato.


CAPO XXXVII.


Che chi punisce non debbasi irare.

Ma nel punire si debbe schifare l’ira. Im- perocché Tirato il quale viene al punire, non terrà mai quello mezzo, il quale è tra ’l poco e il troppo : il quale piace a’ peripatetici 5 e meritamente : purché essi non lodino l’ira, e dicano che dalla natura ella è stata data u- tilmente. Ma quella è da essere rifiutata in tutte le cose : e debbesi desiderare, che co-


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loro i quali sono sopra alla repubblica, sieno simili alle leggi; le quali vanno al punire, non con ira, ma con equità.

CAPO xxvvui.

Che tre cose si debban /uggire nelle cose prospere.

E ancora nelle cose prospere e trascor- renti al nostro piacere, noi diligentemente dobbiamo fuggire la superbia, e il fastidio, e l’arroganza. Imperocché sopportare senza modo le cose prospere come le avverse, s’ap- partiene alla leggerezza : ed eccellente cosa è essere eguale in ogni vita, e avere il me- desimo volto e la fronte medesima : come noi abbiamo inteso di Socrate, e il medesimo di Caio Lelio. Ma io veggo che Filippo re de’ Macedoni, vinto dal figliuolo Alessandro per la gloria e per gli egregi fatti, fu nien- tedimeno di sopra a colui, per la sua uma- nità e mansuetudine. E così l’ uno fu sempre grande; e l’ altro spesso fu bruttissimo. Che rettamente pare che ci ammoniscano coloro, i quali ci confortano, che quanto noi siamo





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più di sopra agli altri, tanto più bassamente noi ci portiamo. Panezio dice, che Scipione Aflricano suo uditore e familiare, soleva di- re, eh' e' sogliono dare a' domatori i cavagli, i quali per le spesse battaglie feroci insuper- biscono; acciocché poi essi possi no usare que- gli più agevoli. Cosi gli uomini, sfrenati per le prospere cose, eiusupei-bienti, si conviene essere menati nel giro della ragione e delle dottrine; acciocché essi ragguardassino, la de- bolezza delle cose umane, e la varietà della fortuna.

CAPO xxxix.

Che nelle cose prospere massimamente si debba usare i consigli degli amici, e fuggire gli adulatori.

E ancora nelle nostre prosperità noi spe- zialmente useremo il consiglio degli amici, e a costoro noi attribuiremo maggiore auto- rità che innanzi. E in questi medesimi tempi si debbe guardare, che noi non apriamo gli orecchi agli adulatori, acciocché noi non concediamo che a noi lusinghino. Nella qual cosa è agevole a essere ingannati : iotpcroc-

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che noi stimeremo noi tali, che ragionevol- mente noi siamo lodati : dalla qual cosa na- scono innumerabili peccati, quando gli uo- mini, enfiati d’opinione, bruttamente sono dileggiati, e sono rivolti in grandissimi er- rori. Ma queste cose basti avere detto insino a qui.

CAPO XL.

Di quello che bisogna osservare nella vita pubblica e nella privata.

Ma quello così si debbe giudicare, che le cose grandi e di grande animo, si fanno da co- loro che reggono la repubblica : imperocché 1’ amministrazione loro largamente si mani- festa, e appartieni a molti. Ma noi abbiamo inteso, che sono e già furono molti, di grande ingegno ancora nella vita oziosa : i quali o e'si danno all'investigazione, e tentano cose grandi, e stanno contenti de' loro confini; o posti tra' filosofi, e tra coloro che ammini- strano la repubblica, si dilettano delle loro cose familiari; quelle non accrescenti senza ragione, e non rimoventi dall’uso di quelle la famiglia loro; anzi più tosto (accentine




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parte agli amici e alla repubblica, se mai viene il bisogno. Le quali cose familiari pri- ma si debbono acquistare bene, con nessuno disonesto o odioso guadagno : e queste dieno utilità a molti uomini, purché ne sieno de- gni: oltre questo esse cose familiari debbono essere accresciute con diligenza, e ragione, e masserizia. E non debbono più tosto ub- bidire alla libidine e alla lussuria, che alla liberalità e alla beneficenza. Chi osserva le cose prescritte, a costui è lecito vivere grave e animosamente; e ancora con semplicità e fede, e amichevolmente alla vita umana.


CAPO XLI.


Della Temperanza.


E seguita eh' ei si dica di quella parte del- l' onestà, la quale sola resta: nella quale si co- nosce essere la vergogna, e quasi un certo ornamento della vita, cioè la temperanza e la modestia, e ogni rammorbidamento delle passioni dell'animo, e ogni misura delle co- se. In questo luogo si contiene quello che è in latino il decoro, cioè la confacenza, il


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quale i greci chiamano prepon. Questa è quel- la forza che non può essere separata dall’o- nesto : imperocché ciò che si confà è onesto, e ciò ch’è onesto si confà.

CAPO XLII.


Del Decoro.

Ma quale sia la differenza tra l'onesto e il decoro, cioè la confacenza, può essere più agevolmente inteso che dichiarato. Imperoc- ché ciò ch’è quello che si confà, allora appa- risce, quando innanzi è ita l’onestà. Adun- que non solamente in questa parte d’onestà, della quale noi dobbiamo disputare in que- sto luogo, ma ancora nelle tre altre, dette sopra, apparisce quello che si confaccia. Im- perocché usare la ragione, e il parlare pru- dentemente, e quello che tu fai, farlo con- sideratamente, e vedere quello che sia il ve- ro in ogni fatto, edifenderlo, si confà. E pel contrario, essere ingannato, errare, trascor- rere, tanto si confà, quanto impazzare, ed essere privato della mente. E tutti i fatti giu- sti si confanno; e gl’ingiusti pel contrario,




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eomVsono brutti, così sono sconvenienti.

Simile è la ragione della fortezza : imperoc- ché quello che si fa coll’animo virile e ma- gno, quello pare degno dell’ uomo, e pare decoro : e quello eh’ è pel contrario, com’e- gli è brutto, così è sconfacente. Per la qual cosa questo che io chiamo decoro, s’appar- tiene a ogni onestà : e così s'appartiene, che esso sia ragguardato non come una nascosta ragione, ma sia manifesto. Imperocché egli è una certa cosa la quale si confà ( e questa è intesa in ogni virtù ) la quale più col pensiero che col fatto può essere separata dalla virtù. Imperocché come la bellezza e l’essere di pu- lite carni, non può essere separalo dalla sa- nità; così questo decoro, del quale noi par- liamo, è tutto quello eh’ è confuso colla virtù $ ma è diviso colla mente e col pensiero.


- CAPO XLIU.

Doppia diffinizione del decoro •

Ma la descrizione sua è doppia. Imperoc- ché noi intendiamo essere uno generale de- coro, il quale si rivolta in ogni onestà j e un


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altro suggetto a questo, il quale s’appartiene in ispezialità a ciascuna parte dell’onestà.

E quello di sopra così quasi suol essere dif- finito : quello è decoro il quale è consenziente all' eccellenza dell’uomo in quella cosa, nella quale la natura sua lo fa differente dagli altri animali. Ma quella parte eli’ è soggetta a que- sto genere, così suol essere diffinita: quello è il decoro, il quale così è consenziente alla natura, che in lui apparisce la moderazione e la temperanza, con una certa apparenza di liberalità.

E così noi possiamo stimare, queste cose essere intese da quel decoro, il quale i poeti seguitano *, del quale in altro luogo sogliono essere dette più cose. Ma noi diciamo che i poeti allora conservano quello che si confà, quando da loro si fa dire o fare quello che sia degno di ciascuna persona. ComeseEaco o Minos dicessino : abbiauci in odio, purché ci temano. Ovvero dicessino questo : esso po- di e è sepoltura a'Jigliuoli. Questo parrebbe sconveniente; perchè noi abbiamo inteso che costoro furono upmini giusti. Ma se Atreo lo dicesse, si farebbe grande romore con molla festa : imperocché questo parlare è degno di




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quella persona. Ma i poeti giudicheranno, secondo la persona, quello che a ciascuno si confaccia. Ma a noi la natura ha posto la per- sona con grande eccellenza, e con un molto avanzare di tutti gli altri animali. Per la qual cosa i poeti, nella grande varietà delle perso- ne, ancora nei viziosi vedranno quello che si convenga, e quello che si confaccia : ma conciosiacchè dalla natura a noi sieno state date le parti della costanza r e della modera- zione, e della temperanza, e della vergogna j e conciosiacosacchè quella medesima natura c’ insegni, non spregiare come noi ci abbiamo a portare inverso gli altri uomini j si fa, che quello decoro il quale si appartiene a ogni o- nestà, apparisca quanto largamente e’sia spar- to 5 e questo ancora il quale si conosce in ispe- zialità in ciascuno genere di virtù. Imperocché come la bellezza del corpo, con l’atta compo- sizione delle membra, commuove gli occhi, e dilettagli in questo medesimo, che tutte le parti tra loro si consentono con uno certo or- namento; così questo decoro che riluce nella vita, commuove la lode di coloro, co’ quali si vive con ordine, e costanza, e misura di tutti i detti e i fatti.


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Adunque si debbe aggiungere la riverenza inverso gli uomini, e spezialmente di ciascun ottimo, e di tutti gli altri. Imperocché spre- care il parere il quale ciascuno abbia di sé, non solamente s' appartiene all' uomo arro- gante, ma ancora a colui che niente apprez- zi. Ma egli è cosa la quale si differenzia tra la giustizia e la vergogna, e si debbe avere in ogni ragione. Le parti della giustizia sono, non fare violenza agli uomini; e della vergogna, non gli offendere. Nella qual cosa massimamente si fa la forza del decoro.

Dimostrate adunque queste cose, io penso che e' sia inteso quello, il quale noi diciama che si coufà. Ma l'ufficio il quale procede da quello decoro lia questa via, la quale mena alla convenienza e conservazione della natu- ra : la quale se noi seguiteremo per guida, non mai erreremo, e seguiteremo quello che per natura è acuto e prudente, e quello ch'è accomodato alla società degli uomini, e quel- lo ch’è potente e forte. Ma grande forza del decoro è in questa parte, della quale noi di- sputiamo : e debbonsi lodare non solo i mo- vimenti del corpo, i quali sono atti alla natu- ra -, ma ancora molto più quegli dell'animo i quali ancora sono alla natura accomodati.




CAPO XLI V •


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fi.


Quello che facci l' appetito, e quello che facci la ragione.


Imperocché la forza degli animi e della natura è doppia. Una n’è posta nell’ appeti- to, la quale in greco è della orine -, la quale quà e là rapisce l’uomo; l’altra è nella ra- gione, la quale insegna e dimostra quello che si debba fare, e quello clic fuggire si con- venga. E così si fa che la ragione signoreggi, e l’appetito ubbidisca.

CAPO XLV.

Che non si debba fare alcuna cosa, di che non si possa rendere probabile ragione.

Ogni atto dee mancare di temerità e ne- gligenza : e non debbi alcuna cosa fare, della quale tu non possa rendere la ragione. Que- sta quasi è la descrizione dell'ufficio. Ma ei si debba operare che gli appetiti ubbidiscano alla ragione, e che quella essi non trapassi- no, e non 1'abbandoDÌQO, o per pigrizia, o


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per dappocaggine : sieno gli appetiti tran- quilli, e manchino d’ogni perturbazione di animo. Per la qual cosa rilucerà ogni costan- za e moderazione. Ma quegli appetiti i quali da lungi si seguono, e quasi come festeggian- ti, ■ o desiderando, o fuggendo, non sono rattenuti dalla ragione; questi senza dubbio trapassano il fine e il modo, e abbandonano e ributtano l’ubbidienza, e non ubbidiscono alla ragione, alla quale essi sono suggelti per la legge della natura. Da’quali non solamente sono perturbati gli animi, ma ancora i corpi: imperocché e’ si può ■vedere la faccia degli adirati, o di coloro i quali sono commossi da qualche libidine, o paura, o da qualche trop- po piacere; de’ quali universalmente sono cambiati i volti, e le voci, e i moti, e gli stati. Per le quali cose s’intende (acciocché noi ritorniamo alla forma dell’ ufficio ) che tutti gli appetiti si debbano raffrenare, e ra- morbidargli : e conviensi inverso loro usare tale gastigazione e diligenza, che niente noi facciamo senza ragione, o a caso, o inconsi- derata e negligentemente. Imperocché dalla natura noi così non siamo generati, che noi paiamo fatti a giuochi e ciance, ma più tosto a severità, e a certi studi maggiori e più gravi.




CAPO XLVI.


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Del giuoco, e quando sia lecito giuocare.


Ma egli è lecito usare i giuochi e i motti: ma come il sonuo e gli altri riposi, allora quando noi avremo sodisfatto alle cose gravi e di utilità. £ esso modo di motteggiare non debb' essere dissoluto e immodesto, ma pia- cevole e degno di uomo da bene. Imperoc- ché come a’ fanciulli noi non diamo ogni li- cenza di giuocare, ma quella la quale non sia aliena dagli atti dell'onestà; così in esso motteggiare riluca qualche lume di buono ingegno.

Due ragioni sono in tutto del motteggiare: una non degna dell'uomo libero, e lasciva,, e scellerata, e brutta, l' altra è elegante e conveniente alla città, e d’ ingegno, e pia- cevole. Del qual modo non solamente Plauto nostro, e l'antica commedia degli Ateniesi, ma ancora 1 libri de’ filosofi socratici sono pieni. E molti detti ancora piacevoli sono di molti altri; come quelli i quali furono rac- colti da Catone vecchio, i quali sono chia-


H

mati apojiegmata, cioè dell! sentenziosi. A— gevole è adunque la distinzione de’ motti r degni dell’ uimo libero, e di quegli che non si convengono al libero uomo. Imperocché quelli che s’appartengono all'uomo libero allora sono, se essi sono fatti col tempo ra- gionevole, in modo eli’ essi sieno degni del- l’ animo rimesso, e dell’ uomo. Gli altri non sono degni dell’uomo libero, se alle scelle- rate cose è aggiunta la bruttezza delle parole.

Ancora si debbe ritenere un certo modo del giuocare : che non troppo noi spargiamo ogni cosa } e traportati dal piacere, noi tra- scorriamo in qualche bruttezza. Ma il nostro campo, e gli studi del cacciare, a sufficienza» danno gli esempi del giuocare.

CAPO ILV1I.

Che si debba considerare per fuggire le voluttà.

Ma ad ogni qaistione d’ufficio s’appartiene sempre avere in pronto, quanto la natura dell'uomo anteceda alle pecore, e alle altre bestie. Quelle niente sentono se non il pia-





cere del corpo, e a quello sono portate con ogni impeto: ma la mente deH’uomo è nutri- cata imparando e pensando; e sempre o ella cerca, o ella fa qualcosa \ ed è menata dal diletto e del vedere e dell’ udire. E se alcuno fosse inchinato al piacere del corpo, purché esso non sia della generazione delle pecore (imperocché e’ sono alcuni uomini non per le opere, ma pel nome ), ma se è inchinato alle virtù, benché esso sia preso dal corpo- rale piacere j egli occulta e dissimula per ver- gogna l’appetito del piacere carnale.

Per la qual co9a s’intende, che il piacere del corpo non è assai degno- dell’ eccellenza dell’uomo, e che quel tal piacere debba es- sere spregiato e ributtalo. E se fusse alcuno il quale attribuisca qualche opera al piacere corporale, per le dette cose s’intende, che questo tale debba usare misura in pigliare quel tal piacere. E così adunque il vitto no- stro, e il governo intorno al corpo, sarà rife- rito alle forze, e non al piacere di lui. E ancora se noi vorremo considerare che eccel- lenza e dignità sia nella natura, noi intende- remo quanto sia brutta cosa trascorrere in lussuria, e vivere morbidamente, e con di-


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licatezze; e quanto sia onesto vivere tempe- ratamente, e con contenenza, e severità, e sobriamente.

CAPO LXVIII.

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Della diversità de' costumi, e delle due per- sone che dalla natura siamo vestiti.

Ancora si debbe intendere, cbe dalla na- tura noi quasi siamo vestili di due persone: delle quali l'una è comune; per la quale noi siamo partecipi della ragione', e di quella ec- cellenza, per la quale noi antecelliamo alle bestie; dalla quale è tirato ogni onesto e de- coro, e dalla quale noi cerchiamo trovare la ragione dell'ufficio. L’altra persona è la quale è propriamente data a ciascuno in ispezialità. Imperocché come ne' corpi sono grandi dis- similitudini; imperocché noi veggiamo al- cuni per la velocità atti al correre; alcuni per le forze potere combattere; e così nelle forme, noi veggiamo alcuni essere bene com- plessionati, e alcuni di gentile fazione; così negli animi sono ancora maggiori varietà. Egli era in Lucio Crasso e Lucio Filippo molto piacevo! parlare; e maggiore ancora





in Olio Cesare figliuolo di Lucio, e più da industria. E io questi medesimi tempi in Marco Scauro e in Marco Druso giovanetto era molta serietà : e in Caio Lelio molta pia- cevolezza; e in Scipione suo familiare era molto maggiore desiderio d’ onori, ma più maninconica vita.

Ma de 1 Greci noi abbiamo inteso che So- crate fu dolce e piacevole, e di festereccio ragionamento, e in ogni parlare fu simula- tore } il quale parlare i Greci chiamano iro- nia, cioè gavillazione, e intendere pel con- trario. E per l'avverso, noi intendiamo che Pitagora e Pericle, senza piacevolezza, ac- quistarono somma autorità. Annibaie de' ca- pitani de' Cartaginesi fu callido r e de’ nostri fu Quinto Massimo, e in celare facilmente, e tacere, e dissimulare, e in fare agguati, e in preoccupare i consigli de’nemici. Nel qual modo i Greci antepongono a tutti i loro ca- pitani Temistocle, e Giasone Fereo. B tra i primi e' pongono scaltrito e saputo il fatto di Solone : il quale, acciocché la sua vita fosse più sicura, e più ancora esso facesse prò alla repubblica, finse impazzare. E sono alcuni altri molto dissimili a costoro, cioè semplici

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e aperti; i quali giudicano che niente si con- venga fare o d’occulto od' inganni; i quali sono coltivatori della verità, e nimici della frode. Sono ancora alcuni altri, i quali pa- tiranno ciò che tu vuoi, e a chi ti piace de~ serviranno, purché essi conseguitano quello eh’ essi vogliono: come noi vedevamo Siila e Marco Crasso. Nel qual modo noi abbiamo inteso essere stato e pazientissimo e scaltris- simo Lisandro, appresso a’Lacedemoni: e pel contrario Callicratida, il quale fu il prossimo capitano dell’armata dopo Lisandro.

Ancora noi abbiamo inteso, che alcun al- tro ne’ ragionamenti (benché molto potente e’fusse) faceva ch’egli pareva uno di molti. La qual cosa noi vedemmo in Catulo padre, e nel figliuolo: e questo medesimo in Quinto Muzio Mancia. Io ho udito da' nostri vecchi, che questo medesimo fu in Pubblio Scipione Nasica : e per l’ avverso, che il padre suo, il quale vendicò gli direnati sforzamenti di Gracco, non ebbe alcuna piacevolezza nel parlare. E similmente Xenocrate fu severis- simo filosofo } e per quello fu grande e fa- moso. Innumerabili altre dissimilitudini sono della natura e de’ costumi, da non essere ri- presi.






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CITO XLIX.

Che in quelle cose massimamente ci dobbia- mo affaticare, alle quali siamo più atti •

E’ si debbe ritenere quelle cose, le quali ci sono proprie dalla natura, purché esse non sieno viziose; acciocché più agevolmente noi ritegniamo quel decoro, il quale noi cerchia- mo. Ma cosi si debbe fare, che niente noi contendiamo contro alla natura universale : e quando noi avremo conservata quella, al- lora noi seguiteremo la nostra. E benché gli studi degli altri sieno migliori e più gravi; nientedimeno noi misureremo i nostri colla regola della natura nostra. Imperocché ei non s' appartiene ripugnare alla natura; e niente seguitare, che tu non possa acquista- re. Per la qual cosa più apparisce di che qua- lità e'sia quello decoro. E per questo niente si confà, non essente volontaria Minerva, co- me si dice*, cioè opponentesi e contrariente la natura.

E al tutto se alcuna cosa è il decoro, niente per certo è più, che accordarsi colla natura universale, e ancora con le speziali faccende:


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la qual cosa tu non potrai conservare, se tu segui la natura degli altri, e lasci la tua. Im- perocché come noi dobbiamo usare quello medesimo parlare, il quale sia noto a noi, c che noi, come fanno alcuni mescolanti parole greche, non siamo meritamente dileggiati; così ne' fatti e in tutta la vita, noi non vi dob- biamo mettere alcuna differenza.

Ma questa diversità della natura ha tanta forza, che alcuna volta alcuno debbe uccide- re sé medesimo, e alcuno nou lo debbe nella stessa cagione. Imperocché Maroo Catone nou fu in altra cagione, e in altra tutti quegli al- tri, i quali in Affrica si dettono a Cesare : e forse che quegli altri sarehbono stati ripresile essi avessino morto sé medesimi, imperocché la vita loro fu più leggiera, e i costumi più facili. Ma perchè la natura aveva attribuito a Catone la incredibile gravità; e quella aveva affortificata con la perpetua costanza, e sem- pre era stato nel proposito, e nel preso con- siglio; piuttosto doveva morire, che ragguar- dare il volto del tiranno.

Quante molte cose pati Ulisse in quello lungo errore, quando esso servì a Circe e a Calipso donne, se donne si debbono chia-




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mare ! e volle essere piacevole con ognuno in ogni parlare; e in casa sopportò le villa* nie de’ servi e delle schi 1 ve ] acciocché qual- che volta esso pervenisse a quello eh’ egli de- siderava. £ Aiace, con che animo si dice che fu, mille volte piuttosto avrebbe voluto sop- portare la morte, che patire quelle cose. Le quali cose a noi consideranti converrà pesax'e quello che ciascuno abbia di suo, e quello temperare, e non volere provare quanto le cose altrui se gli confacciano. Imperocché quello massimamente a uno si confà, il quale spezialmente è proprio di lui.

Ciascuno adunque conosca la natura sua, e si faccia severo giudice della bontà e de'vizi suoi : e che quelli che si contraffanno nelle scene non mostrino avere più prudenza di noi : imperocché coloro a sé scelgono le fa- vole non perfettissime, ma accomodatissime a loro. Coloro che hanno buona voce, si scel- gono le favole di Epigono e Medo; e coloro che sono buoni a' gesti, pigliano Menalippo e Clilemnestra: Rulilio, del quale io mi ri- cordo sempre, Antiopo; ed Esopo pigliava A- iace. Adunque farà l’ istrione nella scena, quello che non fa il savio uomo nella vita?




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In quelle cose adunque spezialmente noi ci affideremo, alle quali noi saremo attissimi. Ma se alcuna volta la necessità ci sospignesse a quelle cose, che non lussino dello ingegno nostro, porremo ogni cura, e pensiero, e di- ligenza, che quelle, se noi non le possiamo fare con onore, almeno noi le facciamo senza disonore. E nientedimeno noi non ci dob- biamo sforzare, che piuttosto noi seguitiamo que'beni i quali non ci sono conceduti dalla natura, che noi fuggiamo i vizi.

A queste due persone, le quali di sopra noi abbiamo detto, se ne aggiugne la terza \ la quale ci dà il caso e il tempo. La quarta an- cora, la quale col giudicio nostro noi acco- modiamo a noi medesimi. Imperocché le si- gnorie, gl’ imperii, le nobiltà, gli onori, le ricchezze, le abbondanze, e quelle cose che sono contrarie a queste, come esse sono po- ste nel caso, cosi sono governate da’ tempi.

Ma che persona noi vogliamo portare, viene dalla volontà nostra E cosi alcuni si applicano a filosofìa, alcuni a ragione civile, alcuni a eloquenza : c di esse virtù, alcuno piuttosto vuole eccellere in questa, e quel- l’ altro in quell’ altra. Ma chi ha avuto il pa-




dre o gli antichi suoi eccellenti in qualche

gloria, costui molto volentieri studia eccel- lere in quelli medesimi onori. Come Quinto Muzio figliuolo di Pubblio fece in ragione civile 5 e Affricano figliuolo di Paolo ne’fatti delle armi. Alcuui ancora alle lodi, le quali eglino hanno ricevute da’ padri, ne aggiun- gono qualcuua sua : come questo medesimo Affricano, coll’eloquenza accrebbe la gloria delle armi. La qual cosa medesimamente fe- ce Timoteo figliuolo di Conone: il quale con- ciosiacosacchè non fosse nelle armi più infe- riore che il padre, a quella lode aggiunse la gloria della dottrina e dello ingegno.

Ma alcuna volta si fa, che alcuni, lasciato il seguitare gli antichi suoi, conseguitano alcun altro studio. E spezialmente molto in questo spesso si affaticano coloro, i quali, nati di vile sangue, a sè medesimi prepongono cose grandi. Adunque quando tutte queste cose noi cerchiamo, coll'animo e col pensiero dob- biamo considerare quello, che ci si confac- cia. Ma la prima cosa si debbe considerare, chi e di che qualità noi vogliamo essere, e di che vita: la quale deliberazione, per diffi- coltà, tutte le altre passa. Imperocché quan-


do noi vegniamo nella giovanezza ( quando egli è grandissima debolezza di consiglio ) allora ciascuno a sè ordina quello modo della futura vita, il quale massimamente egli ha amato. Adunque innanzi egli è avviluppato in un certo modo e corso di vivere, che esso possa giudicare quello che sia ottimo.

Imperocché dicono, come è appresso a Xenofonte, che Ercole prodigo, quando pri- ma cominciava nella giovanezza ( il qual tem- po è dato dalla natura allo eleggere, in qual via di vivere ciascuno debba entrare) uscì in uno luogo solitario, e quivi sedente, lungo tempo seco e molto dubitò, quale delle due vie fusse meglio a pigliare. Imperocché quivi egli vedeva due vie, l’una della virtù, e l’al- tra de' corporali piaceri. Questo forse potè addivenire a Ercole figliuolo di Giove : ma a noi non addiviene quello medesimo, i quali seguitiamo le vestigie di coloro, de' quali ci pare, e agli studi e ordini di coloro siamo commossi. Ma alcuna volta pieni de' precetti de' padri nostri, siamo ridotti all'usanza e al costume loro. Alcuni altri sono mossi dal giu- dicio della moltitudine; e quelle cose le quali paiono bellissime alla maggior parte, quelle






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spezialmente desiderano. Alcuni nientedime- no, o per una certa felicità o per bontà di natura, o per disciplina de' padri, hanno se- guitato la retta via della vita.

Ma quella ragione spezialmente è rada di quegli uomini, i quali o per eccellente gran- dezza d’ ingegno, o per egregia erudizione e dottrina, o per l' una e l' altra cosa ornati, hanno avuto lo spazio del deliberare, qual corso di vita spezialmente volessino seguire: nella quale deliberazione ciascuno debbe chia- mare ogni consiglio alla natura sua. Imperoc- ché awegnadio che in tutte le cose che si fanno, noi cerchiamo, Come di sopra è detto, quello che si confaccia, da quel modo il quale noi abbiamo preso; ancora in ordinare tutta la vita considereremo quello decoro : impe- rocché molta maggior cura ci è da essere posta, acciocché noi possiamo in tutta la per- petuità della vita essere costanti a noi mede- simi, e non zoppeggiare in alcuna onestà.


Che nel genere della vita diligentemente dob- biamo considerare le forze della natura e della fortuna.

Ma perché a questa ragione la natura ha grandissima forza, e a lei la fortuna è pros- sima; F una e F altra si debke considerare nello eleggere il modo della vita : ma mag- giore considerazione si debbe avere nella na- tura. Imperocché ella è molto più ferma e molto più costante; in modo che la fortuna molte volte, come se essa fosse mortale, pare che combatta colla natura immortale. Chi adunque avrà conferito ogni consiglio del vi- vere al modo della natura sua non viziosa, costui sia costaute: imperocché quello massi- mamente si confà. Se già per a caso non avessi inteso aver errato nello scevre il modo della vita : la qual cosa se ella accadrà (ma ella può accadere) debbesi fare la mutazione degli or- dini e de' costumi. Quella mutazione, sei tempi l'aiuteranno, la faremo più facilmente con maggior commodità; ma se così non fosse, faremo quella piano piano, e a poco a poco,




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come giudicano i savi delle amicizie, le quali non dilettino e non sieno lodate; dicono, che più si confà rimuoverle a poco a poco, che di subito tagliarle.

Ma, rimutato il modo della vita, con ogni ragione si debbe attendere, ch’ei paia cbe noi quello abbiamo fatto con buono consiglio. £1 perchè un poco innanzi fu detto, che si deb- ba seguitare le vestigia degli antichi; prima quello sia eccettuato, che i vizi non si segui- tino; dipoi, se la natura non sopportasse che alcune cose non si potessino imitare, le dob- biamo lasciare: come il figliuolo di Affricano superiore ( il quale si fece figliuolo adottivo quesl'altro Scipione, figliuolo di Paolo ) per la infermità non potè così essere simile del padre, come era stato colui del suo. Se adun- que ei non potrà o difendere causa, o tenere il popolo ragunalo a udire, o fare guerre; nientedimeno quelle cose dovrà fare, le quali saranno in sua podestà : ciò è osservare giu- stizia, fede, liberalità, modestia, temperan- za; acciocché e’ non sia addomandato da lui quello cbe manchi. Ma ottima eredità è la- sciata da’padri a’fìgliuoli,la gloria delle virtù, e degli egregi fatti; a’quali essere a disonoi’e, si debbe giudicare illecito e scelleratezza.


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CAPO LI.

Degli uffici de' giovanetti.

E perchè non i medesimi uffici sono attri- buiti alle età diseguali; e altri uffici sono dei giovani, e altri de’ vecchi; ancora si debbe dire qualcosa di questa differenza.

Apparliensi adunque al giovanetto, rive- rire gli uomini di tempo; e di costoro eleg- gerne alcuni ottimi e lodati, col consiglio e autorità de’ quali ei si governi. Imperoc- ché l’ignoranza della giovanile età, si debbe reggere e ordinare colla prudenza de’ vec- chi. Ma spezialmente questa età, si debbe rimuovere dalle libidini, e debb'essere eser- citata nella fatica, e pazienza dell'anima e deL corpo : acciocché la industria di costoro di questa età, si mantenga in fiore nelle fac- cende civili e delle arme. E ancora quando e’ vorranno dilettare gli animi, e darsi al pia- cere, schifino la intemperanza, ericordinsi della vergogna : la quale cosa sarà più age- vole, se essi vorranno che a queste tali cose intervenghino i vecchi.





Degli uffici de vecchi .


Ma i vecchi a sé amminuiranno le fatiche del corpo, poiché essi vedranno che l’ eser- citazioni dell’ animo debbano essere a loro accresciute. Ancora daranno opera, che da loro sieno aiutati con prudenza e consiglio gli amici, i giovani, e la repubblica. Ma da niente più si debbono guardare i vecchi, che dal darsi alla pigrizia, e al doloroso ozio. La lussuria conciosiacosa che essa sia brutta a ogni età, nientedimeno alla vec- chiaia è bruttissima. Ma se l’ intemperanza della libidine verrà, è doppio male : im- perocché essa vecchiaia piglia il disonore, e fa l'intemperanza de'giovani essere più senza vergogna.

CAPO LUI.


Degli uffici de magistrati, de privati y e de' forestieri.

E qui non mi pare alieno, dire degli uf- fici degli uomini di magistrato, e de' pri-


vati, e de’citladini, e de’ forestieri. È adun- que il proprio dono del magistrato intendere, sé portare la persona della città, e dovere sostenere la dignità, e l’onore di lei, e con- servare le leggi, dare le ragionile ricor- darsi delle cose che sono commesse alla sua fede.

Ma all’ uomo privato si conviene vivere con eguale e pari ragione co’ cittadini, e non si sottomettere e avvilirsi, e non s’ in- nalzare : e ancora nella repubblica volere quelle cose, che sieno tranquille ed oneste* Imperocché a noi suole parere, e cosi so- gliamo dire, che tale uomo sia buono cit- tadino.

Ma l’ ufficio del forestiero, o di colui che di nuovo abita è, niente fare oltre alle fac- cende sue, e niente domandare d'altri, e non mettere cura nell’altrui repubblica. Così quasi si troveranno gli uffici, quando e’ si cer- cherà quello che si confaccia, e quello che sia atto alle persone, a’ tempi, e all’elà. Ma niente è che tanto si confaccia, che in ogni faccenda che si debba fare, e in pigliare ogni ‘consiglio, osservare la costanza.





CAPO I1V.


Del decoro circa la bellezza, ordine,

I ed ornato.


Ma perchè quel decoro si conosce in tutti i fatti e detti; e finalmente nel corpo, quando si muove o sta posato; ed è posto in tre cose, nella bellezza, nell’ ordine, e nell’or- nato atto al fare; più difficile è il parlarne : ma assai sarà eh’ ei sia inteso. Ma in que- ste tre cose è contenuta ancora quella cura, che noi siamo commendati da coloro, coi quali e appresso de’quali noi viviamo. E an- cora di queste cose parliamo un poco.

CAPO AV.

o • » . .

Che i membri che la natura ha occultato noi ancora gli dobbiamo occultare.

Primamente si dica, che la natura pare che abbia avuta grande ragione del corpo no- stro : la quale ha posto in aperto la forma nostra, e tutta quella figura, nella quale fosse l’apparenza onorevole : ma quelle parti






del corpo, le quali furon date alle neces- sità della natura, e le quali dovevano avere 1’ aspetto e la forma brutta, le occultò e coperse. E la vergogna degli uomini lia imi- tato questa diligente fabbrica della natura; imperoccbè quelle cose le quali ha nasco- sto la natura, quelle medesime tutti gli uo- mini, che sono colla mente sana, rimuovono dagli occhi, e danno opera che essa neces- sità essi obbediscano, quanto possano più oc- cultamente. E di quali parti del corpo l’uso è necessario, nè quelle parti, nè 1 uso di quelle, chiamano con loro nomi : e quello che non è brutto a fare, purché si faccia coperto, al chiamarlo è brutto. E così il fare apertamente tali cose, e il brutto ra- gionare, non mancano di lascivia. Ma i ci- nici non dobbiamo udire-, o se alcuni stoi- ci furono quasi cinici, i quali riprendono e dileggiano, che noi chiamiamo brutte quel- le cose, le quali non è brutto farle; e quelle cose le quali nel farle sono scellerate, le chiamiamo ne’nomi loro, com’è il rubare, e l’ ingannare. Il fare adulterio è scellera- tezza, ma a parola non è brutto. Il dare opera a fare figliuoli, in fatto è onesto, e


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nel nome è Brutto. E molte altre cose, in questa medesima sentenza contro alla ver- gogna? sono disputale da costoro medesimi. Ma noi seguitiamo la natura, e rimovia- moci da ogni cosa, la quale non è appro- vata dagli occhi e dagli orecchi. Lo stare, r andare, il sedere, giacere, il volto, gli occhi, i movimenti delle mani, osservino quello che si confacela.

Nelle quali cose due cose principalmente fuggiremo; che niente sia effeminato o la- scivo, e che nulla sia duro o rusticano. Ma e’ non si dehhe concedere agl’istrioni e agli oratori, che queste cose sieno atte a loro, e in noi non sieno con ordine alcuno. Il co- stume di quegli che si esercitano nelle scene, per l’antica disciplina ha tanta vergogna, che nessuno va nella scena senza brache. Im- perocché essi temono, che se per caso al- cuno addivenisse, che alcune parti del corpo s aprissino, esse non fossino vedute diso- norevolmente. Secondo il costume nostro, i giovanetti che già possono generare non si lavano co’ padri, nè i generi co’ suoceri. Dehhesi adunque ritenere tale vergogna; e spezialmente quando essa natura n’è mae- stra e guida.

Che due sono le ragioni della bellezza.


Ma conciosiacosa che due ragioni siena di bellezza -, delle quali 1’ una è posta nella venustà, cioè nel pulito e grazioso corpo; 1’ altra nella dignità, cioè nella buona pro- porzione delle membra; la venustà noi di- remo che s’ appartiene alla femmina, e al maschio la dignità.

Adunque dalla bellezza nostra noi rimo- veremo ogni ornamento non conveniente al- 1’ uomo; e similmente schiferemo il vizio simile a questo, il quale è nel moto e nei . gesti del corpo. Imperocché i moti di coloro

che giuocano alla palestra sono molto odio- si : e ancora i moti degl’ istrioni non man- cano alcuna volta di vituperazione : e quelle cose che sono rette e semplici, nell’ una e • ' nell’altra ragione di questi giocolatori, me-

ritamente sono lodate.

Ma la dignità della bellezza si debbe di- fendere colla bontà del colore, ed il colore


coll’ esercitazione del corpo. Oltre queste cose si conviene usare una nettezza non o-



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diosa, nè cercata troppo: solamente fuggasi la rusticana e disumana negligenza. Questa medesima ragione si conviene avere nel ve- stire, nel quale, siccome in più cose, il mezzo è ottimo.

E dobbiamoci guardare, ebe nell’andare noi non usiamo o quella tardità lenta, che noi paiamo simili a quelle vivande, le quali ne’ conviti sono portate con molta pompa; o che nella fretta noi non pigliamo troppa prestezza, la quale quando si fa, è mosso 1’ ansare, mutansi i volti, e le bocche si torcono : per le quali cose si fa grande di- mostrazione, che la costanza non sia con noi. Ma molto più ancora ci dobbiamo af- faticare, che i moti dell’animo non si par- tano dalla natura. La qual cosa noi con- seguiremo, se noi ci guarderemo che noi non caschiamo nelle perturbazioni, e negli sbigottimenti; e se noi terremo gli animi attenti, alla conservazione del fare quello eh’ e’ ci si confà.


CAPO LVII.


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Del duplice movimento delC animo .

Ma i moti degli animi sono due : impe- rocché l’uno è nella considerazione, e l’al- tro nell’appetito. La considerazione si ri- volta specialmente nel cercare il vero, l'ap- petito commuove al lare. Adunque si d eb- be procurare, che noi usiamo la considera- zione al fare cose molto opportune, e che noi diamo l’appetito ubbidiente alla ra- gione.

CAPO X.V1II.

Della fona del parlare.

E perchè la forza del parlare nostro è grande, e questa è doppia, 1’ una é nella contenzione, e l’altra nel sermone. La con- tenzione noi attribuiremo alle quistioni dei giudici, e delle orazioni al popolo, e del senato; ed il sermone noi useremo ne’cer- chi, e nelle dispute, e ne’ ragionamenti familiari, e ancora ne’ conviti. I precetti della contenzione s’ appartengono a' retori-




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  • o 7

ci; ma del sermone non ne sono alcuni: benché io non so, se ancora tali precetti possano essere. Ma i maestri si trovano per gli studi di coloro che imparano : ma in questi precetti del sermone non è chi stu- dii; e dell'arte rettorica ue sono piene tut- te le cose. Benché quegli che sono precetti delle parole e delle sentenze, medesima- mente si appartengono ancora al sermone.

Ma conciosiacosa che la voce sia quella, la quale dimostra il parlare nostro, nella voce noi osserveremo due cose 5 che essa sia chiara, e sia soave. L’ uno e 1 ’ altro al tutto s'addomanda dalla natura : ma l’uno s’accrescerà per la esercitazione; e 1' altro per la imitazione di coloro, che parlano bassamente e con soavità. Niente fu ne’Ca- tuli, che non con molto giudicio tu sti- massi, ch’essi usassino le lettere : benché es- si erano letterati; ma ed alcuni altri. Ma questi Catuli si stimava, che avessino otti- mamente la lingua latina: il suono era dol- ce, e le lettere non erano pronunciate e- spressamente, nè con oppressione : accioc- ché il parlare loro non fosse oscuro o brut- to, parlavano senza contenzione, e la voce non era languida, nè risonante.




II parlare di Lucio Crasso era più abbon- dante T e non meno piacevole, ma non mi- nore opinione fu de’ Catuli nel ben parlare. Ma per motti e piacevolezze, Cesare, fratel- lo del padre di Catulo, vinse ognuno; in mo- do che in quello modo del dire nella corte, esso vinceva le contenzioni e i sermoni de- gli altri. In tutte queste cose si debbe pi- gliare fatica, se noi cerchiamo quello che si confaccia ne’ fatti.

Sia dunque questo sermone, nel quale mas- simamente i Socratici eccellono, leggiero y a non pertinace; e in lui sia piacevolezza : e costui che l’usa, non scacci gli altri sermo- ni, come se fosse venuto nella sua possessio- ne; ma stimi, come nelle altre cose, così nel sermone comune, non essere iniquo Io scambiarsi. E prima vegga di che cose egli parla: e .se parla di cose utili, aggiunga- vi la severità; e se di dilettevoli, la piace- volezza. E la prima cosa provvegga, che il sermone non dimostri alcuno vizio esse- re ne’ costumi : la qual cosa allora spezial- mente suole addivenire, quando studiosa- mente di coloro che non sono presenti, per cagione di biasimargli, si dice o motteggian-





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do, 0 dicendo con severità, e villania e biasimo.

Ma i sermoni molte volte sono o de’ fatti della repubblica, o de’ familiari, o degli studi, e dottrina delle arti. Debbesi anco- ra dare opera, che se ancora il parlare no- stro si sarà partito da’ proposti ragionamen- ti, e ito ad altre cose, esso debba ritorna- re a quegli medesimi. E sieno qualunque vuoi le cose : imperocché noi non ci dilet- tiamo di cose medesime, nè similmente in ogni tempo. Conviensi ancora conoscere in- sino a quanto diletti il parlare nostro; e come e’ vi fu ragione nel cominciare, così sia nel finire misura.

Ma come in ogni vita rettamente si co- manda, che noi fuggiamo le perturbazio- ni, cioè i troppi moti delfanimo, non ub- bidienti alla ragione; così di questi moti debbe mancare il sermone, acciocché e’ non vi sia o ira, o qualche cupidigia, o pigri- zia, o dappocaggine, o non vi apparisca qualche simil cosa. E spezialmente si con- viene procurare eh’ ei paia, che noi e rive- riamo e amiamo coloro, co’quali noi con- feriamo il sermone.


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CAPO LIX.

i

Come e in che modo si debba svillaneggiare gli amici .

Alcuna volta accaggiono i necessari svil- laneggiamenti : ne’ quali forse si debbe usa- re e maggiore contenzione di voce, e più potente gravità di parole. Ma quello anco- ra si debbe fare, eh' e’ non paia che noi facciamo quelle cose adirati: ma come i me- dici rade volte, e mal volentieri, vengono allo incendere e al segare; così medesima- mente noi verremo a tal modo di punizio- ne: e non vi verremo, se non per neces- tà, se alcuna altra medicina non si trova. Ma nientedimeno l’ira stia da lungi; col- la quale niente si può fare rettamente, e niente con considerazione.

Ma da grande parte è lecito usare la pia punizione, aggiuntovi nientedimeno la gra- vità; acciocché e’ vi sia la verità, e la super- ba villania sia scacciata. E quello medesi- mo che ha lo svillaneggiamenlo di acerbità, si debbe mostrare, quello essere stato preso per cagione di colui che é svillaneggiato. Ma




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vera cosa è ancora in quelle contenzioni, le quali noi abbiamo con coloro che ci sono inimicissimi, benché da loro noi udiamo cose non degne di noi, ritenere nientedi- meno la gravità, e Tira da lungi rimuo- vere. Imperocché quelle cose le quali sono fatte con alcuna perturbazione di animo, non possono essere fatte costantemente, e non possono da coloro che vi sono pre- senti essere lodate.

E ancora non ci dobbiamo commendare r imperocché brutta cosa è predicare di sé medesimo; e spezialmente quelle cose che sono false; e con irrisione di coloro che odono, lodare sé; come faceva il soldato glorioso.

CAPO LX.

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Di che qualità debba essere la casa delfuomo onorato e principale.

E perchè noi seguitiamo tutte le cose ( ma per certo noi vogliamo ) si debbe an- cora da noi dire, di che qualità ci piaccia dover essere la casa di un uomo onorato e principale; e di che fine essa debba esse-





in

re, o di che uso; al quale si conviene acco- modare l’ordine dell’ edificare: e nientedi- meno debbe aggiungere la diligenza della dignità o della commodità. A Gneo Ottavio, il quale fu primo consolo di quella fami- gHa, fu in onore, come noi abbiamo inte- so, che in quel luogo che si chiama pala- gio, esso aveva edificato una egregia casa, e piena di dignità : la quale quando era ve- duta dal popolo, era stimata aiutare al si- gnore suo (uomo venuto a Roma di nuovo) all’addomandare il consolato. Questa mede- sima, Scauro, figliuolo del detto Gneo Ot- tavio, guastò e dettele l' accessione. Colui adunque primo in casa sua arrecò il conso- lato : costui figliuolo del sommo e famosis- simo uomo, nella casa multiplicata arrecò non solamente 1’ essere scacciato, ma anco- ra la vergogna e il danno.

Imperocché la dignità si debbe adornare colla casa, e non debb’ essere cerca tutta dalla casa : e il signore non debb’ essere onorato per la casa, ma la casa pel signore. E come in tutte le altre cose si debbe ave- re la ragione non solo di sé, ma ancora degli altri; così nella casa del famoso uomo.





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nella quale si debbe ricevere molti forestie- ri, e grande moltitudine di uomini di qua- lunque generazione, e’ conviensi procurare eh’ e' vi sia larghezza. Altrimenti la casa ampia spesse volte fa vergogna al signore, se in quella è poca gente, e spezialmente se quella pel passato fu abitata da un altro signore. Imperocché ella è cosa odiosa, quan- do da chi passa si dice: o casa antica, da quanto diseguale signore se' signoreggiata ! la qual cosa in questi tempi di molti si po- trebbe dire.

Debbesi guardare spezialmente, se tu edi- fichi, che tu non ti facci innanzi fuori di misura colla spesa e colla magnificenza: nel quale modo molto male è ancora allo esem- pio. Imperocché molti con grande studio, spezialmente in questa parte, imitano i fatti de’ principi. Come, chi ci è che abbia imi~ tato la virtù di Lucio Lucullo? Ma quanto grande numero è di coloro,' i quali 1’ hanno imitato nell’ edificare magnifiche ville ! Ma ancora intorno a questo, per certo si do- vrebbe osservare misura, e quella ridurre a uno mezzo : il quale medesimo mezzo si do- vrebbe trasferire a ogni uso, e governo


della vita. Ma assai sia avere dette queste cose insino a qui.


CAPO MCI.

Che in ogni nostro atto dobbiamo osservare tre cose.

Ma in ogni atto che noi pigliamo, tre cose si conviene osservare : la prima, che T appetito ubbidisca alla ragione : della qual cosa nessun' altra è più accomodata al mantenere gli uffici. Dipoi che si consideri, di che grandezza sia quella cosa, che noi vo- gliamo fare; acciocché non minore o mag- giore cura e opera si pigli, che sia di biso- gno. La terza cosa è, che noi ci guardiamo secondo la misura; cioè che noi temperia- mo con modo quelle cose, le quali s’appar- tengono alla diguità, ed all’apparenza li- berale. Ma ottima misura è mantenere quel- lo che si confaccia, del quale poco innan- zi noi dicemmo, e non andare più oltre. Ma di queste tre cose, eccellentissimo è che l’appetito ubbidisca alla ragione.

CAPO UH.


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Dell ordine delle cose, e dell opportunità de' tempi.

Dopo le dette cose da noi, si dirà del» r ordine delle cose, e dell’ opportunità de’ tempi. Ma in questa scienza si contiene quel* la, che in greco si chiama eutaxia, cioè buon ordine. E non è quella che noi interpre- tiamo modestia, nella quale parola è il mo- do; ma quella è eutaxia, nella quale s’in- tende essere la conservazione dell’ordine. Adunque, acciocché questa medesima noi, chiamiamo modestia, così si diffinisce dagli stoici, che la medesima è scienza dell’ al- logare nel luogo loro quelle cose, le quali si fanno o diconsi. E cosi pare, che una me- desima forza sia dell’ ordine e dell’ alloga^ zione: imperocché l’ordine così diffinisco* no, eh’ esso è la composizione delle cose ne’ luoghi atti e commodi; e il luogo del- l’ atto, dicono eh’ è opportunità di tempo.

Ma il tempo opportuno all' atto in greco e detto eucheria, cioè opportunità di tempo;

  • in latino occasione. Così si fa che questa




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modestia, la quale noi interpretiamo, come io ho detto, sia scienza di opportunità di tem- pi atti al fare. Ma questo può essere la me- desima definizione della prudenza; della qua- le nel principio noi dicemmo. Ma in questo luogo noi cerchiamo della moderazione e tem- peranza, e delle virtù simili di queste. A- dunque quelle cose, che propriamente si ap- partenevano alla prudenza, se ne disse nel suo luogo : ma ora noi diremo quelle cose, le quali proprie sono di queste virtù, delle quali già molto ne abbiamo parlato: le quali s ap- partengono alla vergogna, e all’approvazio- ne di coloro, co’quali insieme noi viviamo.

Tale ordine adunque degli atti si debbe pigliare, che come nel parlar costante, così nella vita tutte le cose sieno tra loro atte e convenienti. Imperocché ella è brutta co- sa e molto viziosa, in un fatto severo in- serirvi qualche sermone, degno di convito delicato. Ma bene fece Pericle, quando nella pretura per compagno avea Sofocle : e conciosiacosa che costoro lussino in ragio- namento del comune ufficio, e per accaso passasse un bello fanciullo, e Sofocle di- cesse : che bello fanciullo, o Pericle ! Pericle




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allora disse : al pretore, o Sofocle, e’ si

confà avere astenente non solo le mani, ma ancora gli occhi. Ma questo medesimo So- focle, se nel lodare coloro che giucavano di persona, avesse detto tale cosa, ragionevol- mente avrebbe mancato di riprensione. Tan- ta è la forza del luogo e del tempo, che se uno il quale abbia a dire la causa sua, per la via e mentre eli’ e’ va, esso da sè si pruo- va, o pensa qualche cosa attentamente, non ha ripreso: ma se fa questo medesimo nel convito, parrà inumano, e in ignoranza brutta del tempo.

Ma quelle cose le quali molto si disco- stano dall’umanità, come se uno cantasse

in mercato, o nella corte, o se alcuna al- tra grande contrarietà fosse, facilmente si conosce che non desiderano molto amino- nizioni o precetti. Ma quegli che paiono piccoli peccati, e facilmente non possono essere intesi, da questi si debbe guardarsi più diligentemente. Come ne’ suoni di cor- de, o ne' zufoli, benché un poco si disco- stino dal vero suono, nientedimeno da chi intende tale errore suole essere conosciuto; così ancora si debbe vivere, che nella vita



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niente si discosti dalle cose convenienti : e ancora molto più che in quegli strumenti, quanto è maggiore e migliore la risonanza degli alti nostri, che de' suoni.

Adunque come ne' suoni, gli orecchi co- noscono ancora le minime cose, così ancora noi, se noi vogliamo essere diligenti e forti, e conoscitori de’ vizi, intenderemo spesso grandi cose dalle piccole : e dallo sguardo degli occhi, e dal raccorre o distendere le sopracciglia, e dalla maninconìa, e dall'alle- grezza, e dal riso, dal parlare, dall’innal- zare o abbassare la voce, dallo stare cheto, e da tutte le altre simili cose, facilmente noi giudicheremo quale di queste cose sia fatta attamente, e quale si discosti dall’ uf- ficio e dalla natura. Nella quale ragione di atti non è incomodo giudicare per gli altri, di che qualità ciascuna di queste cose sia; acciocché se alcuna cosa in coloro non si confà, noi poi la schifiamo. Imperocché si fa, non so in che modo, che più noi cono- sciamo negli altri che in noi, se alcuna cosa si pecca. E così, facilissimamente nell’im- parare i discepoli sono corretti, quando i maestri, per cagione di emendargli, imi- tano i vizi loro.



CAPO LX11I.


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Che nelle cose dubbie dobbiamo consigliarci co' dotti.

Non è cosa aliena, alle cose le quali nel pigliare ci danno dubbio, aggiungervi uo- mini dotti, e saputi perla pratica; e do- mandare costoro quello, cbe di ciascuna ra- gione d’ ufficio loro paia. Imperocché la maggior parte degli uomini quasi suol es- sere traportata, dov’ essa è meuata dalla natura. Nelle quali cose si conviene vedere, non solamente quello che ciascuno favelli, ma ancora che parere ciascuno abbia, e perché cagione ancora a ciascuno così gli paia. 'Imperocché come i pittori, e gli scul- tori, e di quinci ancora i poeti, ciascuno vuole che 1’ opera sua sia considerata dal volgo; acciocché se alcuna cosa fusse ripresa da' più, quella sia corretta; e costoro da sé e con gli altri cercano quello, che in quella opera sia peccato; cosi pel consiglio degli altri, molte cose saranno fatte e non fatte da noi, e mutate, e ricorrette.

Ma di qnelle cose non si diri alcuno pre-




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cetto, le quali si fanno secondo il costume e secondo gl'istituti civili: imperocché di quel- le cose già ne sono stati dati i precetti. £ non si conviene che alcuno sia menato da questo errore, che se Socrate o Aristippo abbino fatto alcuna cosa contra il costume o usanza civile, o abbiano parlato, esso pensi a lui essere lecito fare quello medesi- mo. Coloro pe’ grandi e divini loro beni, conseguitavano questa licenza. Ma la ra- gione de’ cinici tutta si debbe levare via : imperocché essa è inimica della vergogna, senza la quale niente può essere retto, e niente onesto.



CAPO LXIV.

Che noi dobbiamo osservare la compagnia di tutti gli uomini.


Ma coloro, de'quali la vita è conosciuta nelle cose oneste e grandi, essenti in buo- no parere della repubblica, e bene meri- tati o meritanti, e ricevuti qualche onore o signoria, noi dobbiamo osservare ed ama- re con riverenza. Dobbiamo ancora attri-





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buire molto alla vecchiaia, e cedere a colo- ro, che avranno magistrato; e fare diffe- renza tra’l cittadino e il forestiere : e nel forestiere considereremo, se quivi egli è ve- nuto o pubblico o privato. E in somma ( acciocché particolarmente io non dica di ciascuna cosa) noi dobbiamo amara, difen- dere, e conservare la comune compagnia, e le ragunate degli uomini di ogni ragione.

CAPO LXV.

Quali arti e quali guadagni sieno onesti.

Già degli artelìcii e de’ guadagni’, così quasi noi abbiamo inteso quali sieno da es- sere tenuti liberali, e quali brunii Prima- mente sono con vituperio riprovati que’ guadagni, i quali incorrono negli odii de- gli uomini; come quelli degli usurai, e de* portitori. Ma illiberali e brutti sono i gua- dagni, di tulli i mercenari, de' quali sono comperate le opere, e non le arti : impe- rocché in coloro il premio è un mercalare la servitù. Brutti guadagni ancora si deb- bono stimare quelli di coloro, i quali dai



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mercatanti mercatano quella cosa, la quale immantinente rivendono : imperocché nien- te fanno prò, se non è che essi mentiscono; e nessuna è più brutta cosa che 1’ essere bugiardo. Gli artefici tutti si rivoltano in brutta arte: imperocché la bottega niente può avere degno di uomo dabbene. E quel- le arti ancora non saranno approvate, le quali sono ministre della voluttà; come so- no pesciaiuoli, beccai, cuochi, facitori di torte e camangiari, pescatori, come disse Terenzio. E a questi aggiungi, se ti piace, gli unguentai, i ballatoci, e tutto il giuoco di dadi e tavole.

Ma quelle arti nelle quali è maggiore prudenza, o cercasi non mezzana utilità, com’è la medicina, 1’ architettura, la dot- trina delle cose oneste, son oneste a colo- ro, all’ ordine de’ quali esse sono conve- nienti. La mcrcatanzia, se ella é piccola, è da essere stimata brutta; ma se ella é gran- de e copiosa, e da molti luoghi arrecante molte cose, e a molti dividentele senza bu- gia, non è da essere vituperata. E se essa, saziata del guadagno, o vero più tosto con- tenta, come spesso dal mare in porto, così


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del porto sì traporterà a’campi, e alle pos- sessioni; pare che ragionevolmente debba essere lodata.


CAPO XXVI.

Che l' agricoltura in tutte le arti operative è la più laudabile.

Imperocché di tutte le cose, per le quali si guadagna alcuna cosa, nessuna è miglio- re che T agricoltura, e nessuna più abbon- dante, o più dolce, o più degna dell'uomo libero. Della quale assai molte cose ne di- cemmo in Catone maggiore : pigliane quel- le cose ora, le quali s'appartengono a que- sto luogo.

CAPO XXVII.

Della comparazione degli onesti.

Ma come gli uffici sieno menati da quel- le parti, le quali sono della onestà, assai mi pare che si sia sposto. Ma di quelle me- desime cose che sono oneste, può spesse


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volte accadere contenzione, e comparazio- ne di due onesti, quale sia più onesto. 11 quale luogo fu tralasciato da Panezio. Im- perocché, avvegnadiochè 1’ onestà proceda da quattro parti; delle quali P una sia del- la cognizione, l’altra della compagnia, la terza della magnanimità, e la quarta della moderazione *, necessario è che nello eleg- gere l’ ufficio, noi spesso facciamo compa- razione di queste cose tra loro.

Piaceci adunque, che quegli uffici sieno più atti alla natura i quali vengono dalla compagnia, che quegli che procedono dal- la cognizione. E questo può essere confer- mo con questo argomento: imperocché se ■a un savio addiverrà tale vita, eli’ esso sia ricco, soprahbondandogli tutte le abbon- danze di tutte le cose; benché costui con sommo ozio seco consideri e contempli tut- te le cose, le quali sieno degne di consi- derazione; nientedimeno se appresso a lui sarà tanta solitudine, ch’esso non possa ve- dere l’uomo, uscirebbe di questa vita. E principale di tutta la virtù è essa sapienza, la quale i Greci chiamano sofìa. E la pru- denza é quella, la quale in greco è della


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Jronesis : ma noi intendiamo altra virtù es- sere questa, la quale è scienza deli’ addo- mandare e del fuggire le cose. Ma quella sapienza la quale io chiamai principale, è scienza di cose divine ed umane; nella quale si contiene la comunione e le com- pagnia tra loro e degli uomini e degli dei. E se questa è grandissima, come per certo essa è, di necessità è che quello ufficio sia grandissimo, il quale viene da compagnia e comunione. Imperocché e’ si conviene che la cognizione e la contemplazione della na- tura, sia manca e quasi non finita, se e' non seguita alcuno atto delle cose.

Ma quell’ atto massimamente è conosciu- to, nel difendere i commodi degli uomini.. Adunque s’ appartiene alla compagnia della generazione umana. Adunque questa com- pagnia e comunione, è da essere prepo- sta a quella cognizione. E questo ciascuno ottimo, per opera lo dimostra e giudica.; Imperocché chi è tanto cupido in ragguar- dare e conoscere la natura delle cose, che se a lui trattante e contemplante le cose degnissime di considerazione, gli sia offer- to il pericolo e 1’ avversità della patria,





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alla quale si possa sovvenire e aiutare, es- so non getti via e lasci tutte quelle cose, ancora se esso stimasse potere annoverare le stelle, e misurare la grandezza del mondo? £ questo medesimo farà, in un fatto o pe- ricolo del padre, o dell'amico. Per le qua- li cose s'intende, che agli studi e uffici della scienza, sono da essere preposti gli uffici della giustizia; i quali s’appartengono alla utilità degli uomini : della quale niente debbe all’ uomo essere più caro.

E coloro, de’ quali gli studi e tutta la vita si rivolta nella cognizione delle cose, non si sono partiti dall’ accrescere l’ utilità e i commodi degli uomini. Imperocché essi hanno ammaestrato molti, per la qual cosa essi fussino migliori cittadini, e più utili a’ fatti loro, e della repubblica. Come Li- sia discepolo di Pitagora ammaestrò Epa- minonda : e Platone, Dione da Siracusa; e così molli molti altri. E noi medesimi, se alcuna utilità abbiamo arrecato alla re- pubblica nostra, a quella venimmo ammae- strati e adornati da’ dottori, e dalla dot- trina.

E non solamente costoro, mentre che so-






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no vivi e presenti ammaestrano, e insegna* no agli studiosi dello imparare; ma questo medesimo essi fanno ancora dopo la morte, co' libri eh' essi hanno lasciati. Imperocché da costoro non è stato lasciato luogo alcu- no addietro, il quale si appartenesse alle leggi > 0 a ’ costumi, o alla disciplina della repubblica: in modo che e' pare, che co- storo abbiano conferito ogni lor ozio alle faccende nostre. Così coloro dati agli stu* di della dottrina e alla sapienza, spezia- lissimamente conferiscono la loro pruden- za e intelligenza, all’utilità degli uomini. E per questa cagione ancora è meglio par- lare copiosamente, purché si faccia con pru- denza, che considerare acutissimamente sen- za eloquenza. Imperocché la considerazio- ne si rinvolta in sé medesima; ma Telo* quenza abbraccia coloro, co’quali noi siamo congiunti in compagnia.

E come gli sciami delle pecchie, non sì ragunano per cagione di fare i fiedoni; ma, conciosiacosa che da natura sieno congrega- bili, fanno quelli; così gli uomini, e mol- to più, per natura congregati, aggiungo- no la sollecitudine del fare e del conside-




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rare. Adunque se quella virtù la quale e’ pel difendere degli uomini, cioè per la com- pagnia dell’umana generazione, non piglia la cognizione delle cose; quella cognizio- ne parrà digiuna, e che sola si svaghi. Ancora la grandezza dell'animo, rimota la compagnia e la congiunzione umana, è una fierezza è disumanità. E così si fa che la compagnia e comunione degli uomini, vin- ca lo studio della cognizione.

E non è vero quello che da alcuni si di- ce, che per le necessità della vita, per- chè noi non potessimo senza gli altri fare e conseguitare quelle cose, le quali lana- tura desiderasse, per questo questa com- pagnia e congiunzione sia tra gli uomini : e che se tutte le cose, le quali s’apparten- gono al vivere e governo nostro, a noi fos- sino amministrate, com’ essi dicono, qua- si da una vergola divina 5 allora ciascuno d’ottimo ingegno, lasciale tutte le faccen- de, darebbe sé tutto alla cognizione e alla scienza. Non è così : imperocché quello ta- le fuggirebbe la solitudine, e cercherebbe il compagno dello studio suo, e vorrebbe ora insegnare, ora imparare, alcuna volta




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(lire. Adunque ogni ufficio che s'appartiene al difendere la congiunzione e compagnia u- mana, debb' essere preposto a quello uffi- cio, il quale si contiene nella scienza e co- gnizione.

Quello ancora forse si dovrebbe sapere, se questa congiunzione, la quale è massima- mente atta alla natura, sia da essere sempre ancora preposta alla moderazione e alla mo- destia. A noi non piace. Imperocché e’ sono . alcune cose, parte sì brutte, e parte sì scellerate, che quelle il savio non dovrà fate, per cagione ancora del conservare la patria. Quelle cose, le quali sono molte, Posidonio le raglino. Ma alcune di queste ' sono sì brutte e sì scellerate, che al dirle ancora paiono brutte. Adunque queste tali cose non piglierà il savio per ragione della repubblica 5 nè la repubblica vorrà che per sè esse sieno prese. Ma il fatto è più com- niodo che questo, che da noi si ragiona : imperocché e’ non può accadere tempo, che alla repubblica s’appartenga, che il savio faccia alcuna di tali cose.

Per la qual cosa questo sia in effetto nel- lo eleggere gli uffici, che questa ragione


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di uffici eccella, la quale è contenuta nella compagnia umana. Imperocché, che l'alto considerato segua la cognizione e la prudeu- za, così si fa che il fare consideratamente di più pregio sia, che il considerare con prudenza. E queste cose basti avere dette insino a qui. Imperocché egli è stato ma- nifestato il luogo, eh' ei non è difficile, nei cercare l'ufficio, vedere quale ufficio sia da essere preposto all'altro. Ma in essa comu- nione sono i gradi degli uffici, pe’ quali si può intendere quale avanzi l’altro : che i primi uffici sono tenuti agl’ iddìi immortali, i secondi alla patria, i terzi a’ padri e alle madri, e dipoi per ordine a tutti gli al- tri. Per le quali cose brevemente disputa- te, può essere inteso, che gli uomini non solamente sogliono dubitare, se la cosa è onesta o brutta; ma ancora, preposte due cose oneste, quale sia più onesta. Questo luogo, come di sopra è detto, fu lasciato da Panezio. Ma oggimai andiamo alle cose che restano.

Fine del Primo Libro degli Uffici di M. T.

Cicerone a Marco figliuolo.

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