Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta Saggi e discorsi (Martinetti)




Del conflitto tra religione e filosofia *1.


Ogni concezione che attribuisca alla religione una funzione specifica e non la riduca ad un’attività sussidiaria della moralità o della vita in genere, deve riconoscere che la filosofia e la religione non sono se non due gradi o manifestazioni diverse di un’attività unica, la quale può essere chiamata genericamente, in un più largo senso, «religione». Questi due gradi si differenziano essenzialmente pel diverso carattere della concezione teoretica rispettiva: nel primo, che potremo dire «religione» in stretto senso, questa è in prevalenza concezione immaginativa, estetica; nel secondo, che è detto filosofia, è in gran parte costruzione razionale, sistema logico. A questa differenza fondamentale si riannodano poi differenze secondarie: la religione (in s. s.) è generalmente fondata su d’una tradizione, si esplica in una vita collettiva, ecc.; mentre la filosofia è in maggior grado creazione personale, è vissuta individualmente, ecc. Le forme intermedie (religioni filosofiche, sette teosofiche, «scuole» di filosofi greci, ecc.) confermano questa distinzione di grado: la caratterizzazione nominale è il più delle volte applicata in base a differenze esteriori, non essenziali. Di qui si può comprendere ancora perchè la parola «filosofia» venga generalmente usata a designare il lato teoretico (un’astrazione il più delle volte) di quell’attività che nella sua totalità soltanto dovrebbe aver diritto a questo nome.

Ciò posto, come accade che la storia ci presenta un conflitto incessante della filosofia con la religione, e che questo conflitto persiste ancora attualmente nonostante replicati tentativi di conciliazione, come un’insanabile contraddizione interiore dello spirito? La ragione di questo conflitto sta tuttavia nella stessa affinità, anzi identità di natura della filosofia e della religione: vano è sperare che questa lotta abbia fine un giorno, perchè essa è la lotta delle forme superiori della vita religiosa contro le forme tradizionali ed antiche. Questo ci apparirà chiaramente se noi prendiamo a considerare alquanto più da vicino il processo dell’evoluzione religiosa nei suoi momenti essenziali.

Ogni forma particolare della vita religiosa è sempre ai suoi inizii la creazione e la vita d’un’individualità geniale; la religione come fatto storico è il risultato d’una tradizione geniale in cui ogni simbolo rappresenta il ricordo d’un’intuizione religiosa, anche se esso, come le opere d’arte d’una civiltà remota, non contenga più nulla che ne rievochi alla mente nostra il senso primitivo. Dalle individualità creatrici la vita religiosa si diffonde appresso in una cerchia sempre più vasta per quel medesimo processo di imitazione che ricorre in tutte le forme della vita sociale e che solo rende possibile l’iniziazione della moltitudine ad una vita superiore. Ma questa espansione della vita religiosa è inseparabile da una specie di degradazione, che noi diremo il paganizzamento della religione. Esso consiste in ciò che l’imitazione propaga il simbolo della vita religiosa superiore, ma non può, per l’inferiorità mentale del soggetto, ridestarvi la vita interiore corrispondente: onde, o si ha la trasmissione pura e semplice del simbolo, o, come il più delle volte accade, il simbolo passa a coprire forme inferiori e preesistenti della vita religiosa, le quali continuano a vivere sotto la nuova forma senza un’elevazione sensibile. Il paganizzamento del cristianesimo nei primi secoli dell’èra, il passaggio di concezioni ed usanze proprie del politeismo germanico nel cristianesimo medievale, le degenerazioni teistiche e politeistiche del buddismo ci danno esempi numerosi di questa degenerazione che accompagna l’estensione dei simboli religiosi. Tra di essi ricordiamo in primo luogo le divinizzazioni degli eroi religiosi. Budda concepì la sua missione come qualche cosa di puramente umano e non volle che i suoi seguaci avessero altro oggetto di venerazione che la dottrina da lui predicata: ciò non impedì che la fede popolare ne facesse un dio e ne intessesse di miracoli la vita. Anch’egli è disceso volontariamente dal cielo e si è incarnato nel seno d’una vergine: segni miracolosi ne accompagnano la concezione e la nascita. Un vecchio eremita è tratto da questi segni verso la città ov’è nato, profetizza la sua futura missione e si duole di non poter più vedere quei tempi. Il giovane Budda sorpassa in eccellenza tutti gli uomini ed insegna ai suoi stessi maestri; la sua predicazione è preceduta dalla tentazione per opera del demonio, Mara. Anche la sua morte è accompagnata da prodigi: anche Budda risorge per un momento onde mostrarsi ancora ad un suo discepolo. Ricordiamo in secondo luogo il rifiorire del politeismo nelle religioni superiori. Nel buddismo, p. es., gli antichi dèi vedici sono conservati ed accolti nel cielo buddistico, sebbene degradati e sottoposti a Budda, anzi a gli innumerevoli Budda e Bodisattva. Il Budda stesso è circondato dalla coorte degli innumerevoli Budda passati e futuri: ed anche nel buddismo il bisogno d’un culto personale sa farsi strada nel culto di Maitreya (il benigno), che è il Budda venturo. Appena occorre ricordare come la chiesa tibetana crede di avere un’incarnazione sempre presente del Budda nel suo pontefice, nel Dalai-Lama. Così nella chiesa cristiana gli dèi del paganesimo sono riconosciuti dai padri della chiesa, ma come demoni; ed il loro posto è preso dagli angeli. Il fiorente culto degli eroi, che era la parte essenziale del culto popolare antico, si continua con la venerazione dei santi e dei martiri che hanno lo stesso posto anche nel cristianesimo popolare attuale: la sostituzione è chiara nel più alto grado in alcuni casi, nei quali non si fece che sovrapporre, in qualche santuario o luogo sacro, al culto d’un dio o d’un eroe quello d’un eroe cristiano. Ricordiamo infine la degradazione del simbolismo pratico ad un materialismo magico, teurgico. Il battesimo. p. es., non è più solo il segno d’una purificazione interiore, ma è un atto magico, che ha per se stesso la virtù di cancellare l’impurità originaria; la sacra cena non è più simbolo d’una comunione interiore, ma una trasformazione magica delle specie consacrate. Non è meraviglia che allora al simbolismo così inteso si accompagnino l’uso degli amuleti ed altre pratiche proprie soltanto della religiosità inferiore. — Questo adattamento d’una concezione religiosa alla mentalità collettiva inferiore si rivela del resto, oltre che nei simboli, anche nella disciplina e nella morale. Ben è noto come il Buddismo, che fu da principio una congregazione ascetica di monaci, abbia dovuto accogliere intorno a se il mondo laico, come una specie di terzo ordine con una meno rigorosa osservanza. Anche il cristianesimo primitivo, così ostile al mondo, dovette pure, diffondendosi, fare al mondo la sua parte: e così accanto alla morale dei perfetti accogliere, come una specie di programma minimo, una morale inferiore anche troppo conciliabile con le esigenze della vita esteriore.

Ora, è naturale che tutto questo non sia senza provocare una reazione nelle anime sinceramente ed altamente religiose: nella storia della religione a questo processo di esteriorizzazione, di paganizzamento si contrappone costantemente un processo di interiorizzazione, di elevazione, che si manifesta variamente, secondo le circostanze, come ascetismo, come misticismo, come eresia: onde con qualche ragione si è potuto dire che la vera storia della religione è la storia dell’eresia. Noi denominiamo questa reazione, reazione mistica. La maggior parte delle sètte mistiche e delle eresie che fiorirono in Occidente nella seconda metà del medio evo rappresentano una reazione mistica contro il paganizzamento del cristianesimo: esse si accordano infatti in generale non solo nel proposito di ricondurre la chiesa alla purezza ed all’interiorità della fede primitiva, ma anche nel rigetto della maggior parte dei sacramenti e dei riti, nel disprezzo del formalismo esteriore e superstizioso. Il pietismo di Arndt e Spener fu un ravvivamento del misticismo che già aveva infiammato i grandi riformatori, una reazione contro il formalismo arido in cui era degenerato il luteranesimo, un movimento in favore della religiosità e della pietà interiore. Ma l’esempio più luminoso di questa forma di reazione della coscienza religiosa ci è dato dal profetismo ebraico. Il proposito dei profeti (specialmente fino a Geremia) non è tanto di lottare contro il particolarismo e l’antropomorfismo della concezione ebraica di Iahvè, quanto di purificare il culto di Iahvè dalle superstizioni di origine locale e straniera che ripullulavano continuamente nel seno stesso del jahvismo mosaico. Ed è degno di nota che quando, dopo il ritorno dall’esilio, si realizzò l’ideale profetico della teocrazia mosaica, l’ideale realizzandosi ricadde, sotto altre forme, in quella medesima corruzione che i profeti avevano combattuto e le superstizioni antiche rivissero nel culto sacerdotale. Il culto venne indirizzato d’allora in poi al solo Iahvè, ma diventò un culto puramente formale ed il polidemonismo risorse nella rappresentazione dogmatica degli angeli e dei demoni; le cerimonie rituali di purificazione e di espiazione sostituirono i riti magici del naturalismo popolare. Contro questo nuovo paganizzamento del mosaismo insorse la coscienza religiosa dei profeti posteriori all’esilio: e questa reazione, di cui abbiamo i primi inizii nella religiosità pia dei salmi, ebbe in Gesù il suo massimo rappresentante.

La reazione mistica dovrebbe nella sua purezza essere una restaurazione, un ravvivamento interiore d’un sistema indiscusso di simboli: e quantunque non sia mai realmente tale, perchè una restaurazione pura e semplice è storicamente assurda e perchè vi confluiscono sempre altri moventi, è fuori di dubbio che in molti casi essa costituisce il momento essenziale del rinnovamento religioso. Ma questo rinnovamento può procedere in certi casi anche da un’altra ragione: vale a dire può presentarsi come reazione non solo contro il degradamento dei simboli, ma anche contro la costituzione stessa di questi simboli, come espressione della loro insufficienza di fronte al progresso della vita religiosa. — Ogni sistema di simboli religiosi è sempre in origine anche una costruzione teoretica fondata su d’una visione geniale della realtà: e questa visione costituisce per quel tempo la forma più alta del sapere. La medesima esigenza tuttavia che ha dato origine ai primi simboli (la fissazione e la trasmissione della vita religiosa) sospinge lo spirito verso la creazione d’un simbolismo concettuale, logico: sotto la pressane medesima d’una vita religiosa più ampia ed intellettualmente raffinata il pensiero logico, esercitato già dalle esigenze pratiche, si apre alla considerazione disinteressata del tutto e cerca di fissare questa attitudine religiosa in simboli adeguati, in un sistema concettuale di valore universale ed obbiettivo. — Però quest’azione ha il più delle volte al suo inizio tendenze conciliatrici e si applica a trasformare, più che ad abbattere, l’antico simbolismo estetico. Allora si ha una specie di equilibrio fra gli interessi della coscienza religiosa e quelli del pensiero logico: i seguaci della religione sono essi i più fervidi fautori della conoscenza e della cultura: il sistema dei simboli religiosi si piega, per la naturale facoltà di adattamento, alle variazioni dell’ambiente intellettuale. Ma questo equilibrio — che segna l’età dell’oro per la religione — è di sua natura estremamente instabile: la capacità di adattamento e di assimilazione ha dei limiti, mentre d’altra parte il progresso della conoscenza non riconosce confini. Viene quindi necessariamente un tempo in cui si trovano la religione e il pensiero logico come due forze ostili: l’opera indefessa di conciliazione e di assimilazione non riesce più a cancellare la divergenza nascente, destinata a farsi più grande ogni giorno. — Ed allora si ha da parte della concezione religiosa quella forma particolare di degenerazione che noi diremo irrigidimento dogmatico della religione. Questa, come per attitudine di difesa, si fissa in un sistema chiuso ostilmente ad ogni penetrazione di nuovi elementi intellettivi, pone se stessa come qualche cosa di assoluto e di immutabile e proietta questa sua integrità definitiva nel più remoto passato. Ben nota è, p. es., la tendenza del cattolicismo a datare fin dalle origini cerimonie, culti, dogmi sorti solo molto più tardi e poco per volta; ed ugualmente nell’ebraismo dopo l’esilio si fa risalire a Mosè la legislazione teocratica, che è il risultato ultimo dell’attività profetica. E poiché l’abitudine e la tradizione hanno collegato in modo indissolubile a quella data concezione i benefizi della vita religiosa, la causa sua diventa la causa della religione: essa è consacrata e difesa di fronte alle critiche dell’intelletto per una specie di pietà, di scrupolo, come si conservano per pietà le antiche e rozze immagini, preferendole anche alle più perfette creazioni dell’arte. In ciò dobbiamo senza dubbio vedere una manifestazione dell’istinto di conservazione, che compie nella vita religiosa una funzione analoga a quella del conservatorismo politico. L’esempio più vicino a noi è quello della costituzione del dogma cristiano, specialmente nella sua forma più rigidamente conservatrice, nel cattolicismo: si veda, per es., come si sono in esso cristallizzate ed immobilizzate delle concezioni vive e profonde del pensiero antico (p. es. il concetto del Logos). — Di qui si spiega ancora come a questo irrigidimento dogmatico si accompagni frequentemente l’intolleranza. Coloro i quali considerano la loro verità come una verità d’origine divina, consacrata, oltreché dall’origine sua, dall’autorità della tradizione, sono tratti naturalmente a considerare questa verità come l’unica verità e la fede in essa come la conditio sine qua non della religione. Ogni altra credenza non può essere che un errore inescusabile perchè conduce all’irreligione. Ora chi vede nella religione, ed a buon diritto, il bene supremo dell’umanità e deve perciò promoverne la conservazione, dovrà anche lottare per la conservazione integra della fede, per la repressione di tutte le credenze contrarie e perseguitare coloro che le professano come nemici della religione e della vera pietà.

È naturale che quando una religione non solo ha subìto per la forza delle cose quel processo di degradamelo che suscita la reazione mistica, ma si è chiusa in un sistema di dogmi ostile alla vita intellettiva — che pure è il fondamento attivo della vita religiosa — essa provochi una reazione religiosa ben più intensa e profonda, una reazione che deve mirare non solo a riformare la vita religiosa nella sua interiorità, ma anche e più a rinnovarne il fondamento teorico: il movimento religioso di rinnovamento ha allora un carattere ad un tempo mistico e speculativo. Tutte le età in cui un intenso movimento spirituale prelude alla formazione di una grande religione ci presentano distintamente l’uno e l’altro aspetto. Il ritualismo bramanico, che aveva sistematizzato in un vasto sistema teologico il politeismo vèdico, era fondato su d’una concezione, la quale, come vediamo già da alcuno dei più recenti inni vedici, era inferiore alle nuove esigenze del pensiero; d’altra parte aveva incluso in sè riti ed elementi animistici appartenenti a periodi religiosi anteriori. La reazione che condusse alla rivoluzione buddistica ci si presenta da una parte come speculazione panteistica (Upanisadi, filosofie prebuddistiche), dall’altra come reazione ascetica e mistica: quest’ultimo è il carattere che prevale nel buddismo, il quale, pur fondandosi inconsapevolmente sulla speculazione anteriore, disdegna la speculazione e reagisce in particolare contro il formalismo superstizioso del bramanesimo. Così la corrente religiosa che condusse alla costituzione del cristianesimo ha le sue radici in quella reazione mistica contro il politeismo pagano che comincia già con l’orfismo greco; d’altra parte ha il suo antecedente speculativo nello svolgimento del pensiero filosofico greco, dagli eleati ai neoplatonici. E l’uno e l’altro elemento si riscontrano egualmente nel movimento che precede la riforma: movimento condizionato tanto dal fiorire della mistica quanto dall’intenso rinnovamento intellettuale dell’umanesimo.

Questi due aspetti della reazione religiosa costituiscono generalmente due correnti distinte; ma ciò non vuol dire che il carattere «mistico» escluda il carattere «speculativo» o viceversa. Anzi può dirsi che la distinzione delle due correnti è data solo dalla prevalenza, non dalla presenza esclusiva dell’uno o dell’altro carattere. Nella corrente orfica, p. es., si svolge anche un certo movimento speculativo, mentre dall’altra parte il carattere religioso e mistico compenetra anche la speculazione platonica. Nè è meraviglia che gli spiriti mistici, i quali reagiscono specialmente contro il paganesimo religioso, sentano parzialmente anche essi il bisogno d’una rielaborazione del fondamento teoretico: bisogno che si rileva in essi sovente per via d’un’interpretazione allegorica dei dogmi antichi, in una forma che può coprire anche le più audaci speculazioni. Onde in certi casi è difficile decidere se ci troviamo dinanzi ad un eretico o ad un filosofo. Nella maggior parte dei casi tuttavia l’un carattere prevale decisamente sull’altro: dove la reazione è in prevalenza mistica, abbiamo una riforma religiosa od un’eresia; dove è prevalentemente speculativa, abbiamo un movimento filosofico.

Questo fugace sguardo sul processo dell’evoluzione religiosa ci permette di caratterizzare così in modo preciso il posto che nello stesso occupa la filosofia: esso è un rinnovamento speculativo del materiale teoretico dei simboli religiosi ed il suo sorgere è strettamente connesso col passaggio dal simbolismo estetico al simbolismo razionale, logico. Essa è perciò sempre, quando sia considerata nella sua totalità, nella quale si integrano i momenti discordi ed opposti, aspetto e fattore vitale d’un grande movimento religioso; e l’apparente suo conflitto con la religione non è l’antagonismo sterile di due forze straniere ed ostili, ma è una semplice forma di quella lotta fra le tendenze conservatrici e le innovatrici, che in ogni campo della vita prepara il progresso verso le forme superiori. Ciò che da un punto di vista provvisorio abbiamo chiamato degradamento della vita religiosa, è, sotto un aspetto più universale, estensione e consolidamento, conversione di forze brute ed ostili; e ciò che nella filosofia può giustamente apparire alla religione come negazione irreligiosa, è sempre, da un punto di vista più comprensivo, preparazione interiore d’una religiosità più intensa e profonda. Di qui appare ancora per ultimo quanto sia superficiale e vana la speranza d’un accordo, d’una conciliazione qualsiasi tra la religione e la filosofia, per mezzo d’una subordinazione o d’una delimitazione reciproca. Come in ogni altro campo, anche qui la vita non è possibile se non alla condizione di essere divenire, progresso, conquista dolorosa; e, l’utopia d’una pace idilliaca, che il pensiero qualche volta si finge come termine avvenire del processo, non ha altro senso che di essere la rappresentazione figurata d’una norma ideale relativa al presente.

  1. *Estratto dal Coenobium, VIII (1924), 1.

Note

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