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LETTERA A ANTONIO ROSMINI
AVVERTENZA
Altre lettere del Rosmini al Manzoni o di questo al Rosmini saranno pubblicate nell’epistolario. M’è parso però bene di unire qui le tre che seguono. Esse s’intrecciano insieme. La prima del Rosmini propone all’amico un nuovo punto di filosofia a trattare; il Manzoni risponde esponendo quello che invece a lui piacerebbe meglio, e dice come lo discuterebbe; e il Rosmini gli comunica quali su quest’altro soggetto sarebbero le idee sue. Il dialogo sul Piacere non fu scritto: ed è assai possibile che la risposta del Rosmini ebbe, com’egli aveva previsto, ma non avrebbe voluto, questo effetto sgradevole.
Nelle carte del Manzoni resta solo l’abbozzo della lettera al Rosmini, scritta su due fogli e mezzo di carta. La lettera stessa, nella forma che fu mandata, è stata copiata sull’autografo che n’esiste nell’Archivio dei Padri dell’Instituto della Carità a Stresa; la cui cortesia per me è davvero tanta, quanta era la mia ammirazione e l’affetto per l’uomo ottimo e grande che fondò il consorzio santo e operoso in cui vivono. Però, m’è parso utile di stampare a piè di pagina il primo abbozzo. Le mutazioni che il Manzoni fa trascrivendo, sono sempre utili a studiare. Del resto, il Manzoni usava scrivere più volte la stessa cosa, ma mi pare che non si ricopiasse mai. La prima stesura gli serviva di gradino e di preparazione a una più perfetta, sino a quella, tutt’altro che perfetta al parer suo, che finiva, come si sia, coll’essere l’ultima.
- Veneratissimo e Carissimo Donn’Alessandro,
Devo adoperare un’altra mano nello scrivere la presente (la mano del Setti) a cagione d’un occhio, che mi fa un brutto scherzo, perchè minaccia di non volermi più servire. Stefano mi dà spesso le desideratissime notizie di Donn’Alessandro, e l’altro giorno mi lesse un brano d’una lettera di sua madre, in cui si diceva, che Donn’Alessandro sta meditando un dialogo sul piacere, e che ne farebbe un altro sull’unità delle idee, ma ne vorrebbe da me qualche traccia. Non solo questa, ma vorrei esser così fortunato, come il fanciullo di Temistocle per comandare alla Grecia. A buon conto io consegno la presente al figliuolo di donna Teresa, e mi raccomando a Lei, che può mostrarci la bontà del Sorite sottinteso. — Eccole dunque un cenno sull’argomento dell’unità dell’idee, che si continua all’altro argomento da Lei trattato nel dialogo Dell’invenzione.
“Pare che in prima convenga dichiarare in qualche modo la proposizione. E per dichiarare la proposizione, e mostrare che non è assurda, può cavarsi profitto dalle similitudini, come di quella dello specchio, che essendo uno, fa vedere tutte le cose che vi si pongono davanti.
“Venendo alla cosa è sottomettendo le idee all’analisi, si trova che tutte hanno una parte comune, perchè sono ugualmente idee, e se non avessero altro che questa parte comune, non sarebbero molte, ma un’idea sola. Sono dunque molte non perché abbiano la parte comune, che le rende idee, ma perchè hanno oltre di ciò una parte propria, che è quella che le distingue, e così le moltiplica. Convien dunque cercare quale sia questa parte propria, e si trova che sono le cose, che le idee fanno conoscere; così l’idea d’una pietra e l’idea d’un albero, non sono due, perchè sieno idee, ma solamente, perchè una di esse è l’idea d’un albero, e l’altra è l’idea d’una pietra. Sono dunque più per la loro relazione colle cose, come la luce sarebbe una e uniforme, se non ci fossero le cose da cui venisse modificata. La pluralità dunque delle idee dipende dalla pluralità delle cose. Rimane đunque a cercare, come le cose sieno più, e più a noi appariscano, e come questa pluralità delle cose rimbalzi nell’idea. Qui dunque è da esaminare il fatto. Ora la pluralità delle cose apparisce a noi dalla pluralità delle sensazioni (parlando degli enti corporei, ai quali giova restringere sul principio il discorso, che si può estendere poi quanto si voglia in appresso), o per dir meglio, dalla pluralità dei luoghi chiusi dalle sensazioni, come da altrettante superfici. Questi sensibili non sono cogniti; fino che restano puramente sensibili, non sono idee. Che cosa fa lo spirito umano quando prima li conosce? quale è il primo risultato dell’atto di conoscerli? mentre prima che fossero conosciuti erano puri sensibili, a cui lo spirito non pensava, quindi perfettamente ignoti; di poi che cosa divennero? Lo spirito pensò ad essi ed il risultato fu, che pensandovi lo spirito disse seco medesimo, che que’ sensibili erano enti, ed enti sensibili e limitati da quei confini sensibili che presentano e da quella qualità di sensazioni superficiali tra le quali sono racchiusi: lo spirito tosto che li pensò come enti, vide che non c’era in essi alcuna contraddizione o ripugnanza, e quindi implicitamente conchiuse, che non solo erano pos sibili essi, ma assolutamente erano possibili degli altri si mili ad essi. È inutile qui d’introdurre la questione sul tempo, in cui lo spirito conosce implicitamente tutto ciò; basta stabilire che il pensiero prende i sensibili per suo oggetto, e rendendoli oggetto di sè, li rende a sè cogniti, onde il renderli oggetto e il conoscerli è il medesimo. Il renderli poi oggetto del pensiero è un dire con altre parole il pensarli come enti limitati e determinati dalle sensazioni. Ora questi enti determinati dalle sensazioni, quando si considerano puramente nella loro possibilità, diventano allo spirito altrettanti tipi, ossia idee speciali. Se dunque si cerca in che consista la specialità dell’idea si ritrova: 1.º ch’ella non sarebbe mai speciale se ella non si riferisse, ed applicasse ad un ente speciale, limitato con limiti sensibili. 2.º Che ciò che vi mette il pensiero, e che quindi costituisce il formale dell’idea, è la forma oggettiva, per cui il sensibile si rende oggetto dell’atto del pensiero; il che è quanto dire, è dal pensiero appreso come un ente con determinazioni sensibili. Quello dunque che costituisce l’idea, è l’ente; quello poi che rende speciale quest’ente, è la sua applicazione al sensibile, di maniera che l’ente è speciale non come ente, ma come applicato e riferito piuttosto ad un sensibile che ad un altro. Nè si dica che stando così la cosa il sensibile rimanga fuori dall’ente, perchè convien riflettere, che l’ente ha una forma sua propria, che è l’oggettività; onde qualunque cosa si apprenda come ente, o si apprenda nell’ente, è incontanente appreso come oggetto, ossia, che è il medesimo, come entità. Onde anche al sensibile sopravviene mediante il pensiero un’altra forma, che è la forma oggettiva, la forma dell’ente, e questa nuova forma, che si sopraggiunge al sensibile non distrugge già il sensibile, anzi lo lascia quello che era prima, ma lo riveste, e questo rivestimento è ciò in cui sta l’essenza del conoscere. Inquanto adunque il sensibile ha ricevuto questa nuova forma, intanto è conosciuto. Ma questa nuova forma di ente o di oggetto, è uguale ed unica per tutti i sensibili, perché è sempre la forma dell’ente. All’incontro i sensibili, che anche sotto questa forma sono i sensibili di prima (e qui si scorge il nesso fra il reale e l’ideale, nesso d’identità) sono diversi, ed è dalla loro diversità, che procede la moltiplicità delle idee. Come a ragion d’esempio se si riempissero delle sfere di cristallo perfettamente eguali di varii liquori diversamente coloriti, o d’altra materia, si direbbe, quelle essere tanti oggetti diversi, eppure le sfere di cristallo sono d’una grandezza, forma e natura identica, benchè ciascuna contenga cose diverse, o unita con esse paja anch’essa dall’altre di versa. Questa similitudine è imperfetta, poiché nelle sfere di cristallo non v’ha identità numerica come nell’idea; ma v’ha però identità nella forma sferica e nella natura del cristallo, onde s’avvicina in qualche modo a ciò che si vuol mostrare.
Conchiudesi dunque, che nell’idee convien distinguersi la forma dalla materia, la materia non è idea, ma è il sensibile, da cui viene la moltiplicità apparente della forma; la forma è l’idea e questa forma avvolge i sensibili per modo, che acquistano la forma ideale, ma senza perder quella forma che aveano prima, perché restano quelli che sono nel senso (e la loro essenza sta appunto nell’essere nel senso), ma acquistano una nuova forma rispetto al pensiero, e in questa nuova forma sta l’idea pura. Non è difficile capire che l’aggiunta di una nuova relazione (fosse anche essenziale) non distrugge nulla. Rimangono dunque i sensibili, ma mentre questi prima non sono al pensiero, di poi acquistano una nuova esistenza nel mondo dell’intelligenza.
“Si potrebbe in sulla fine estendersi a mostrare come questa dottrina non ha nulla di panteistico, perché nello stesso tempo che diffende l’unità dell’idea, ammette le cose finite, e la loro pluralità, ed anzi si giova di questa per ispiegare il fatto della pluralità apparente delle idee, che, in quanto sono più, meglio si chiamerebbero concetti.
“Questo dialogo ne chiama un terzo Sul mondo metafisico, o se non piacesse questo titolo, Sulla relazione del reale coll’ideale, dove si verrebbe esponendo come il reale stesso finito rivestito della forma dell’ente, acquista la proprietà di questa, di modo che si pensa fuor dello spazio del tempo ecc. Ad un suo cenno ne stenderò pure la traccia.„
Spero carissimo Donn’Alessandro d’abbracciarla presto a Lesa o a Stresa, e di trattenermi a lungo in sua compagnia. Presenti i miei rispettosissimi saluti a donna Teresa, e voglia ricordarsi sempre della venerazione e dell’affezione che Le professa
- Stresa, 13 Novembre 1850.
Il suo umil. e obbl. servo |
Milano, 12 del 1851.
Veneratissimo e carissimo Rosmini,
Mi farei veramente scrupolo di sviarle la mente, e d’affaticarle la vista con una lunga lettera, se non pensassi che potrà farsela leggere quando Le piaccia, e in momenti, direi persi, se ce ne fosse di tali per Lei, dall’ottimo P. Setti, al quale prendo quest’occasione per rammentare la mia affettuosa reverenza. Spero però, riguardo alla vista, che il servirsi del l’altrui sarà piuttosto una precauzione che una necessità, e che Stefano mi potrà subito scrivere bone nove della visita del professore di Pavia.
Ho ricevuta con gran piacere, e letta con ammirazione la lettera sull’unità dell’idea. Ma non ho potuto finora meditarci sopra abbastanza per vedere se potrei cavarne, o bene o male, un dialogo, perchè avevo la testa preoccupata dal disegno d’un altro (sul piacere), del quale Le è già stato fatto un cenno. Avendo poi dovuto metter mano alla correzione della Morale Cattolica, ho anche dovuto avvedermi subito, che la correzione non poteva essere semplicemente tipografica; ed eccomi ingolfato in un continuo e minuto lavoro. Questo m’ha stornato anche dal pensare al dialogo che disegnavo; e devo ora, per dir così, rifarmelo in mente, per presentargliene un sunto, e in parte un saggio, affine di sentire da Lei se ci sia il fondamento bono, e d’essere avvertito degli spropositi che avrei potuti mettere anche sul bon fondamento, e delle cose utili che potranno cosi facilmente essere sfuggite a me, come venire in mente a Lei. Ma questo, s’intende, con tutto il suo comodo, e s’intende principalmente in un tempo, che alle tante sue occupazioni, sarà probabilmente aggiunta quella di difendersi dai novi assalti d’una cosi violenta, eppure cosi instancabile animosità.
Il dialogo sull’unità dell’idea, se mai mi trovassi nella o vera o falsa fiducia di poterlo fare passabilmente, potrebbe avvenire tra i due interlocutori già messi in campo. La fretta di Secondo, che non vorrebbe fare la strada lunga dello studio, per arrivare alla questione già accennata nell’altro dialogo, potrebbe somministrare il pretesto d’un novo, e un pretesto drammatico. Ma, con l’intenzione manifestata di studiare insieme, il dibattimento tra que’ due non potrebbe esser tirato più in lungo, senza stiracchiamenti. Introdurrei dunque un Terzo, uomo non di studî sistematici, ma di lettura varia e occasionale, il quale, avendo letto di fresco l’opuscolo del Verri “sull’indole del piacere,„ andrebbe da Primo, per sentire cosa ne pensi? Ci si troverebbero l’interlocutore e il testimonio, dell’altro dialogo.
Primo, allegando d’aver letto l’opuscolo una volta sola, e da un pezzo, ne farebbe parlare il novo interlocutore. Si passerebbe in fretta e d’accordo sul vizio essenziale della definizione del Verri, che pone l’essenza del piacere in una negazione. Terzo, citerebbe, senza però mostrarsene persuaso, tre altre definizioni confutate dal Verri, una del Descartes, l’altra del Wolf, l’altra del Sulzer: sulle quali si passerebbe ancora brevemente, ma non inutilmente per la discussione avvenire. Primo si fermerebbe di più su una quarta e ultima, quella del Maupertuy: “Il piacere è una sensazione che l’uomo vuole piuttosto avere che non avere„: definizione che, secondo il Verri, non è tale che in apparenza, poichè viene a dire che il piacere è quello che piace. Mi pare, direbbe Primo, che, con un cambiamento materialmente piccolissimo, ma essenziale, questa definizione potrebbe diventare, se non affatto bona, molto migliore e più vicina al vero dell’altre tre: cioè col sostituire sentimento a sensazione. E non vedo che sia quell’idem per idem che dice il Verri, poichè ci sono specificati due elementi, che sono direttamente significati dalla parola piacere; cioè l’essere sentimento e cosa appetita. (Qui si potrebbe forse accennare che il Verri probabilmente non badò all’elemento della sensazione, perchè era per lui cosa sottintesa, non solo in tutte l’operazioni, ma in tutti gli stati della mente e dell’animo; ma che a chi discerna ciò che c’è di diverso, il sentimento è cosa essenzialissima. Ma credo che sarà meglio non interrompere, con questa osservazione, il corso della ricerca).
Sia pure, direbbe Terzo; ma una tal distinzione non mi pare che dia una cognizione molto chiara, nè molto, piena, della cosa.
P. È che ci sono vari gradi di definizioni, bone, migliori, ottime; come ci sono vari gradi di cognizioni. Domandiamo a un uomo qualunque, se il pia cere è una cosa che si sente, e una cosa che s’appetisce; e risponderà certamente di sì. Abbiamo dunque in questa definizione due elementi, la realtà de’ quali è attestata dall’intimo senso, testimonio irrefragabile in una materia d’intimo senso, come questa. Ora io chiamo la definizione bona in aspettativa delle migliori e dell’ottima) quella che svolge dall’oggetto e manifesta qualcosa che nessuno ci vedeva e che tutti ci riconoscono, all’esserne vertiti. E delle volte queste definizioni elementari sono più vicine all’ultima, di quello che si crederebbe: potrà non esserci altro da fare che correggere un’inesattezza, riparare a un’omissione, osservare un nesso tra que’ primi elementi cavati fuori naturalmente e semplicemente. A ogni modo, non sarà che un passo, per arrivare a conoscere più pienamente e più intimamente la cosa; ma è un passo nella strada giusta. E sapete che, per andare al fondo della verità, la prima cosa è mettersi nella verità.
T. Avete ragione: è chiaro che, per trovare cosa costituisca il piacere, non c’è altro che cercare quale sia la qualità che rende appetibili certi sentimenti, a differenza degli altri, la qualità comune a tutti i sentimenti piacevoli, e particolare ad essi.
P. Credete? si può provare.
Qui principierebbe un’analisi di diverse sorti di piaceri, nella quale questa qualità non si troverebbe mai. E del resto, Primo troncherebbe, quando paresse bene, quest’analisi, facendo osservare che se ci fosse questa qualità in tutti i piaceri, si dovrebbe poterla trovare nella prima specie che si osservasse, e trovatala, non dovrebbe esser difficile il riconoscere che non è particolare a quella specie, ma comune a tutte. Noi facevamo, direbbe, come il Ciclope accecato da Ulisse, che facendo passare le sue pecore a una a una, palpava il dorso, senza pensare che ci poteva esser nascosto l’uomo sotto la pancia.
Qui, scoraggiamento, reale in uno degl’interlocutori, affettato nell’altro; il quale riprenderebbe la questione sous-main, dicendo: Questo nostro discorso mi fa pensare a una parola che ho sentita tempo fa. Mi trovavo, una sera, in una compagnia numerosa, e ero caduto in potere d’uno che mi parlava di cose più proprie a esercitar la pazienza, che a cattivar l’attenzione. Vicino a noi c’erano due altri, che facevano una discussione filosofica, e appunto su questo nostro argomento; e io, senza intenzione di stare attento là, ma essendo disattento qui, sentivo, di tempo in tempo, qualche parola, qualche frase staccata. In un momento, uno di que’ due, alzando la voce, come si fa quando pare che la cosa meriti un’attenzione particolare, disse: Alla fine delle fini, il piacere non è altro, che sentimento. Mi parve una cosa singolare; e tornandomi in mente ogni tanto, pensavo: cos’ha voluto dire? Ma ora che cercando qual sia la cosa comune ai diversi piaceri, non ci troviamo di comune altro che il sentimento.... cosa vi pare?
T. Che so io? quasi quasi....
Qui entrebbe Secondo, per rendere più esplicita la tesi, col pretesto di dare a Terzo un avvertimento ironico. Badate! gli direbbe: costui vi vuol condurre dove non volete. Se gli concedete che il piacere non è altro che sentimento, pretenderà di farvi dire, anzi d’avervi già fatto dire che il sentimento è piacere. So che è persuaso di questo, e mi sono avveduto subito, che voleva tirarvi lì.
T. Di codesto poi non ho paura. Il paralogismo sarebbe troppo svelato. Ogni piacere è sentimento, dunque ogni sentimento è piacere, è lo stesso che dire: ogni querce è albero, dunque ogni albero è querce: ogni eroe è uomo, dunque ogni uomo è eroe.
S. Non vi fidate di questa scappatoia. Vi dirà che la parità non regge. Infatti, voi non direste certamente: la querce non è altro che albero; l’eroe non è altro che uomo. Dicendo che il piacere non è altro che sentimento, e astraendo così da qualunque modo e grado del piacere, per non considerare che la sua pura essenza, e dichiarando questa, identica al sentimento, avrete dichiarato il sentimento, identico al piacere . Ciò che vi fa dire che la querce è bensì un albero, ma non l’albero, che l’eroe è bensì un uomo, ma non l’uomo, sono le qualità speciali della querce e dell’eroe: ma dal piacere voi avrete esclusa ogni qualità speciale, dicendo che non è altro che sentimento.
T. Avrei in pronto l’argomento per mandare in fumo tutto codesto apparato di ragionamenti; ma, giacchè mi pare che vogliate divertirvi, voglio divertirmi per un poco anch’io. Ditemi dunque, giacchè parlate in suo nome, cosa mi risponderà se gli domando il perchè, essendo sentimento e piacere una stessa cosa, ci siano, per esprimerla, due nomi che, se piace al cielo, non sono sinonimi? Chè, se non m’inganno, parrebbe e a voi e a lui una cosa passabilmente curiosa, se uno vi dicesse: ho il sentimento di riverirla ovvero: il tale è rimasto campagna per godere i sentimenti della caccia: il tal altro ha tanto da spendere in minuti sentimenti.
S. Vi lascerà ridere, e riderà con voi, ma rimanendo ostinato nel suo proposito. È pronto a tutto, vi dico. Vi rammentate come, da principio, buttò là una parolina d’un nesso che forse si potrebbe trovare tra que’ due elementi? Io, che so come pensa, m’avvidi subito che ci covava la gatta. Vi dirà che sono due aspetti d’una cosa medesima, e che perciò essa può esser significata con due nomi; che la parola sentimento significa la cosa in sè e come pas sione del soggetto, e la parola piacere la significa in quanto è, come lo è essenzialmente, secondo lui, oggetto dell’appetito. Cosi (è una similitudine che l’ho sentito mettere in campo altre volte) così si dice idea e si dice cognizione, quantunque una qualsiasi cognizione non sia altro che un’idea, in quanto è intuita .
T. E gli parrà proprio, che una tale proposizione non abbia in corpo nulla di strano?
S. Di strano? Vi so dire che gli pare stranissima la proposizione contraria. Cosa è infatti, vi dirà, il sentimento considerato praticamente, se non l’atto della facoltà di sentire? E come intendere che l’atto proprio d’una facoltà possa (in quanto è quell’atto) repugnare al soggetto che possiede quella facoltà?
T. Dunque mi rivolgo a voi per sentire se la pensate proprio così; giacchè, per quanto questo sia galantuomo, e voi originale e quasi altrettanto originali tutt’e due, sono di quelle notizie che meritano conferma. L’accettate voi davvero quella proposizione?
P. Vi dico la verità che, dopo ciò che ha detto costui, mi pare che, per rifiutarla, bisognerebbe anche confutarla . E non ci vedo altro mezzo che tornare indietro a rifare con più diligenza l’analisi di poco fa. Se osservando più attentamente, possiamo, in un piacere qualunque trovare quella benedetta qualità comune a tutti i piaceri e....
T. No, no: sono rigiri; e ho imparato da Cesare, che è una minchioneria, auctore hoste, capere consilium. Vi domando piuttosto, se per rigettare una proposizione basta il vedere che implichi una contradizione, un assurdo manifesto.
P. Bisognerebbe essere incontentabile per voler di più.
T. E non vedete, o fate le viste di non vedere, che, secondo quella proposizione, il dolore sarebbe piacere.
P. Una bagattella! Ma come?
T. Volete proprio che vi presenti l’argomento in forma?
Ogni sentimento è piacere; ora il dolore è sentimento; dunque il dolore è piacere.
P. La forma è irreprensibile.
T. E la sostanza no? Meno che non voleste dire che il dolore non è un sentimento.
P. Al punto che è stata spinta la questione da quest’amico, codesta sarebbe appunto la cosa da esaminarsi.
T. Da esaminarsi? Ma in che mondo siamo? Non c’è più nulla d’evidente. Volete negare che ci sieno de’ sentimenti dolorosi, come ci sono de’ sentimenti piacevoli?
P. Codesto, non vorrei nè negarlo, nè affermarlo, perchè sono termini ambigui, e non sono quelli della nostra questione. Sentimenti dolorosi può voler dire sentimenti accompagnati da dolore, che è tutt’altro che dolorosi, in quanto sentimenti. A uno scettico il quale vi domandasse se non ci sono delle cognizioni dubbie, rispondereste che la questione è se la cognizione medesima sia il dubbio. E la nostra è se il sentimento, come sentimento, possa essere dolore.
Qui verrebbe un esame d’alcune specie di dolori; e, prendendo occasione dall’essere la sete addotta in esempio dal Verri, si principierebbe da questa.
Mi direte voi, domanderebbe Terzo, che l’esser tormentato dalla sete non sia sentire? Che l’assetato non senta qualcosa che lo fa essere in quello stato speciale e doloroso?
P. Qualcosa sente, di certo; ma cosa sente per l’appunto?
T. Sente.... sente il bisogno di bere.
P. Sentire un bisogno? Che s’usi quest’espressione è un altro par di maniche; ma qui s’ha a cercare se si possa dire con proprietà, e significando il fatto com’è. Il bisogno in genere non è altro che una relazione, un concetto della mente; e non si sentono che le cose reali etc. Nel caso speciale, il bisogno è una relazione del soggetto col bere, sia l’acqua, per esempio; e per sentire questa relazione, bisognerebbe sentire i due termini, cioè quell’acqua medesima l’assenza della quale dal sentimento è la cagione del guaio. Qui si che ci sarebbe la contradizione.
T. Cosa sente dunque l’assetato? lo domando io a voi, che non avete potuto negare che qualcosa senta, in quanto assetato.
Qui, con l’ajuto d’un dizionario di medicina si accennerebbero gli effetti che produce negli organi del corpo la mancanza del liquido necessario o conveniente, e si vedrebbe che la molestia dell’assetato viene dal difetto del sentimento compito di quegli organi. E quello invece che affoga, cosa sente?
L’eccesso dell’acqua? Tanto come si può sentire il bisogno. L’acqua? Sì; ma è l’acqua semplicemente sentita che cagiona il dolore? o non viene questo dal sentire il polmone impedito dal respirare, etc., cioè dal non sentire pienamente e interamente quell’organo?
Si passerebbe ai dolori morali, dove, se non m’inganno, la dimostrazione sarebbe ancora più facile.
E dopo altre osservazioni, p. es., sul piacere che cessa per la stanchezza dell’organo, che lo rende in capace di sentire; sul piacere che indirettamente, o comparativamente cagiona un dolore, etc., etc., l’interlocutore a cui si vuole dar la vittoria, direbbe: Conclusum est contra Manichaeos. L’altro osserverebbe che ci vuole una grande smania di cantar trionfo, per servirsi d’un epifonema così fuori del caso. Ma Primo sosterrebbe che è molto a proposito, perchè il bene e il male inerenti ugualmente all’atto proprio d’una facoltà, e risultanti ugualmente dalla forma di essa, è un concetto che repugna a quello di un unico e provvidentissimo, sapientissimo, ottimo e onnipotente creatore, e s’accorda in vece, per quanto il falso può accordarsi tra di sè, col concetto stranissimo di due principî contrari, e operanti insieme nel dar la forma a un soggetto medesimo.
Oltre l’inesattezze che non saprei vedere in questo aborto, anche guardandolo a occhio riposato, ce n’è di quelle che ho vedute e lasciate correre per la fretta. Ma per l’une e per l’altre, dico a Rosmini: “Se’ savio e intendi me ch’io non ragiono.„ Così fossero i bei giorni di Lesa, che le rettificazioni verrebbero pronte, e tanto più gradite!
Stefano Le dirà tante cose in nome mio e di Teresa; e a ogni modo i miei sentimenti di reverentissimo affetto per Lei non hanno bisogno nè di ripetizione, nè d’interprete.
Il suo Manzoni.
Fo le mie scuse al veramente benigno lettore, per le cancellature, e per il progressivo scarabocchiamento.
Al Reverendissimo Padre ANTONIO ROSMINI Proposto Generale dell’Istituto della Carità. STRESA. |
Ecco ora il primo abbozzo della lettera del quale discorro nell’avvertenza:
- Veneratissimo e Carissimo Rosmini.
Mi farei veramente scrupolo di sviarle la mente e d’affaticarle la vista con una lunga e scomposta tiritera, se non pensassi che potrà farsela leggere in ritagli di tempo dal l’ottimo Setti, al quale prendo quest’occasione per rammentare la mia cordialissima reverenza. Spero però, riguardo alla vista, che questo farsi leggere sarà piuttosto una precauzione che un bisogno, e che Stefano, portatore di questa lettera, mi potrà dar subito bone nove della visita del Professore di Pavia.
Ho ricevuto con gran piacere e letta con ammirazione la lettera sull’unità dell’idea. Ma non ho nemmeno potuto meditarla abbastanza, per vedere se potrei cavarne, bene o male, un dialogo, perchè avevo già la testa preoccupata dal disegno dell’altro, sul piacere, del quale Le è stato fatto cenno. Avendo poi dovuto metter mano alle correzioni della Morale Cattolica, mi sono pur troppo accorto che queste non pote vano essere semplicemente tipografiche; ed eccomi ingolfato in un perpetuo e minuto lavoro. Se fossero i bei giorni che ho passati in vicinanza di Stresa, Le parlerei de’ vari impicci che ci trovo, e delle difficoltà che ho bisogno d’affrontare, senza la speranza di far bene davvero; ma non voglio aggiungere a questa lettera delle lungaggini non necessarie. Le dirò solamente che questo lavoro m’ha stornato anche dal pensare al dialogo che disegnavo, e ora devo, per dir così, rifarmelo in mente per dargliene un cenno. Il qual cenno non ha altro fine che di sentire da Lei se il fondamento ci sia, e d’essere avvertito degli spropositi che avrei potuti mettere anche sul fondamento bono. Ma questo, s’intende, con tutto suo comodo, principalmente in un momento che il suo tempo così prezioso sarà probabilmente occupato nella cura di difendersi dai novi assalti d’una instancabile animosità. Chè, senza arrogarmi d’esser giudice in materie superiori alla mia cognizione, la volontà di pervertire il senso naturale delle proposizioni (oltre l’alterazione del testo, come il cambiar le fiamme in Grazia) si manifesta in tanti luoghi così subito e all’evidenza, che non ci vuole teologia, ma basta la logica più comune per avvedersene e esserne certi.
Il dialogo sull’unità dell’idea, se mai mi trovassi nella vera o falsa fiducia di poterlo fare mediocremente, potrebbe avvenire tra i due interlocutori dell’altro stampato: la fretta di Secondo che non vorrebbe passare per un lungo studio, per arrivare alla soluzione della questione già voluta proporre da lui, potrebbe somministrarne il pretesto. Ma, con l’intenzione già manifestata di studiare insieme, il dibattimento tra que’ due non si potrebbe continuare in altri dialoghi, senza stiracchiamenti. Introdurrei dunque un Terzo, il quale avendo letto di fresco l’opuscolo del Verri sull’indole del piacere, ne parlerebbe al Primo, per sentire cosa ne pensi (il Secondo potrebbe essere assente nel primo momento, e arrivare quando la discussione è già avviata). Il Primo, al legando d’aver letto l’opuscolo una volta sola, e da un pezzo, ne farebbe parlare l’altro. Si passerebbe in fretta e d’accordo sull’inconcludenza della definizione del Verri, che pone l’essenza del piacere in una negazione. Di qui l’adito a cercare cosa sia positivamente. Il Terzo metterebbe in campo, senza però mostrarsene persuaso, le definizioni citate e confutate dal Verri, su tre delle quali si passerebbe ancora brevemente. Il Primo si fermerebbe un po’ più sull’ultima che è di Maupertuis: Il piacere è una sensazione che l’uomo vuole piuttosto avere che non avere: definizione che, secondo il Verri, non è tale che in apparenza, perchè è quanto dire che il piacere è quello che piace. Mi pare, direbbe il Primo, che con un cambiamento essenziale, ma materialmente piccolissimo, questa definizione potrebbe diventare, se non bona, molto migliore e più vicina al vero dell’altre tre: cioè, col sostituire sentimento a sensazione. E non credo che ci sia quell’idem per idem, che vuole il Verri, giacchè qui sono distinti due elementi che non sono direttamente significati dalla parola pia cere, cioè l’essere sentimento e cosa appetita. Sia pure, direbbe il Terzo, ma, certo una tale definizione non porta molto avanti nella cognizione della cosa. — P. È che ci sono varie sorti di definizioni come ci sono vari gradi di cognizione. Il dire e sentire che fanno continuamente gli uomini questa parola, intendendosi tra di loro, mostra ad evidenza che l’applicano a una stessa idea, cioè che hanno di quest’idea una cognizione comune. Ora, domandiamo a un uomo qualunque se il piacere è una cosa che si sente e che si appetisce; e siamo certi del sì. Abbiamo dunque in questa definizione due elementi, la verità dei quali ci è attestata dal senso comune, testimonio inappellabile, in una materia di fatto, come questa. Molte volte non manca che il nesso. Non è che un passo per arrivare a conoscere più intimamente, o più precisamente, cosa sia il piacere; ma è un passo sulla strada giusta. E sapete che per arrivare al fondo della verità, la prima cosa è mettersi nella verità. — Avete ragione: è chiaro che, per trovare cosa costituisca il piacere, bisogna cercare quale sia la qualità che rende appetibili certi sentimenti, a differenza degli altri, la qualità comune a tutti i sentimenti che chiamiamo piacevoli. — P. Credete? si può provare. Qui principierebbe una analisi di diverse sorti di piaceri, ne’ quali questa qualità comune e esclusiva a una sorte di sentimenti, non si troverebbe mai. Il Primo poi troncherebbe, quando troverebbe che possa bastare per il lettore, quest’analisi, facendo osservare che è tempo perso, giacchè, se ci fosse questa qualità comune a tutte le specie di piaceri, si dovrebbe poterla trovare nella prima speciē che s’esaminasse, e trovatala, ci si vedrebbe subito che non è particolare a quella specie. Qui, il Terzo vorrebbe lasciar lì la questione, come insolubile, ma l’altro la riprenderebbe sottomano, dicendo: Questo nostro discorso mi fa pensare a una parola che ho sentito tempo fa, proprio su questo stesso proposito. Mi trovavo una sera in una compagnia numerosa, e ero caduto in potere d’uno che mi parlava di cose più adattate a esercitar la pazienza che a cattivare l’attenzione. Vicino a noi v’erano due altri che facevano una discussione filosofica, proprio, vi dico, sul piacere; me ne venivano all’orecchio o parole o frasi staccate. In un momento uno degli interlocutori alzando la voce, come accade in certi punti, sentii che disse: Pensateci, e vedrete che, alla fine delle fini, il piacere non è altro che sentimento. Mi parve una cosa singolare; e tornandomi in mente di tempo in tempo, dicevo tra me: cos’ha voluto dire? Ma ora, che, cercando cosa costituisca il piacere, non troviamo che de’ modi diversi e ciò che resta sempre è il sentimento, cosa vi pare? — Che so io? quasi quasi.... — Qui Secondo, stato zitto fino allora, interverrebbe per manifestare la tesi, sotto l’apparenza di dare al Terzo un avvertimento ironico. Badate! gli direbbe: costui vi vuol condurre dove non volete. Se gli passate che il piacere non è altro che sentimento, pretenderà di farvi dire, anzi d’avervi già fatto dire che il sentimento non è altro che piacere. So che la pensa così, e mi sono accorto subito che voleva tirarvi lì. – T. Se c’è lui ci può stare, ma me non mi ci tira, di certo. Il paralogismo è troppo patente. Ogni piacere è sentimento, dunque ogni sentimento è piacere, è lo stesso che dire: ogni querce è albero, dunque ogni albero è querce: ogni melenso è uomo, dunque ogni uomo è melenso. — S. Non vi fidate di codesto rifugio; perchè vi dirà che la parità non regge. Infatti, non direste mai in eterno che ogni querce non è altro che albero, che ogni melenso non è altro che uomo. Dicendo che il piacere non è altro che sentimento, e astraendo così da qualunque specie, da qualunque modo del piacere, per non considerare che la pura sua essenza, e dichiarando questa identica al sentimento, avrete dichiarato il sentimento identico al piacere. Ciò che vi fa dire che la querce è bensi un albero, ma non l’albero, e il melenso un uomo, non l’uomo, sono le qualità speciali della querce e del melenso: ma dal piacere voi avrete esclusa ogni qualità speciale. — T. Avrei in pronto l’argomento da mandare in fumo tutto codesto apparato di raziocini: ma giacchè mi pare che vogliate divertirvi, voglio un poco divertirmi anch’io. Ditemi dunque cosa dirà, giacchè voi parlate in suo nome, e non c’entrate che per ajutarme, cosa dirà se gli domando il perchè, essendo sentimento e piacere la stessa cosa, ci siano, per esprimerla, due vocaboli che non sono sinonimi. Chè, se non m’inganno, vi parrebbe una cosa passabilmente curiosa, se uno vi dicesse: ho il sentimento di riverirla.
S. È pronto a tutto, vi dico. Vi rammentate come da principio vi parlò d’un nesso che si poteva forse trovare tra que’ due elementi? Io che so come pensa, m’accorsi subito che gatta ci covava. Vi dirà che sono due aspetti d’una cosa medesima, e che perciò questa può essere significata con due nomi; che la parola sentimento significa la cosa in sè, e come una passione del soggetto fornito s’intende della facoltà corrispondente, e la parola piacere significa la cosa medesima in quanto è, come lo è, secondo lui, essenzialmente, oggetto dell’appetito. Cosi si dice idea e cognizione, sebbene una cognizione qualunque non sia altro che un’idea intuita. Che se vi paresse più chiaro e più preciso il dire che il sentimento è essenzialmente piacevole, credo che accetterà, senza difficoltà, la proposizione in questa forma. – T. E non gli parrà proprio che abbia in corpo nulla di strano? — S. Di strano? Vi so dire che gli parrebbe stranissima la proposizione contraria. Cos’è in fatti il sentimento considerato praticamente, se non l’atto della facoltà di sentire? E come intendere che l’atto proprio d’una facoltà (in quanto è quest’atto) repugni al soggetto che possiede quella facoltà? — T. Ora mi rivolgo a voi che siete il titolare; perchè quantunque sappia che voi altri due siete come i ladri di Pisa; e che ciò che dice lui l’avete per ben detto, pure sono di quelle notizie che meritano conferma. L’accettate davvero quella proposizione? — P. Al punto che costui ha spinta la quistione, mi pare che per non accettarla bisognerebbe confutarla. E per me non ci vedo altra strada, che di tornare indietro a rifare l’analisi di dianzi. Osservando più attentamente, possiamo trovare quella benedetta qualità comune ai piaceri, che li differenzi dagli altri sentimenti.... T. No, no: sono rigiri, e ho imparato a scola che è una minchioneria auctore hoste capere consilium. Vi domando piuttosto se per rifiutare una proposizione, basta che implichi un assurdo. — P. Per bacco! — T. E non vedete, o fate le viste di non vedere che, secondo quella proposizione, il dolore sarebbe piacere? — P. Una bagattella! ma come? — T. Volete proprio che vi presenti l’argomento in forma? Ogni sentimento è piacere: Atqui il dolore è sentimento. Ergo il dolore è piacere. Meno che non voleste dire che il dolore non è sentimento. — P. Di novo, al punto che è arrivata la questione, questa sarebbe appunto la cosa da esaminarsi. — T. Da esaminarsi? ma in che mondo siamo? — P. Periere mores, jus, pietas, fides. Vorrete negare che ci siano de’ sentimenti dolorosi, come ci sono de’ sentimenti piacevoli? — P. Codesto non vorrei nè negarlo nè affermarlo, perchè sono termini ambigui,e non sono quelli della nostra questione. Sentimenti dolorosi può voler dire sentimenti accompagnati da dolore, che è tutt’altro che “dolorosi, in quanto sentimenti.„ Se uno scettico, vi domandasse se non ci sono delle cognizioni dubbie, gli rispondereste che la questione è se la cognizione medesima sia dubbio . Così noi dobbiamo cercare se ci sia qualche sentimento che sia dolore in sè o in quanto è sentimento.
Qui verrebbe un esame di alcuni dolori; e prendendo occasione dall’essere la sete citata per esempio dal Verri, si principierebbe da questa.
P. Cosa sente l’uomo che è addolorato per cagione della sete?
T. Sente.... sente il bisogno di bere.
P. Sentire un bisogno? Che si dica, è un altro par di maniche; ma qui si cerca se si dica o se si possa dire con proprietà. Il bisogno non è altro che una relazione, è un concetto della mente, e non si sentono che le cose reali. È una relazione del soggetto (sia) con bere, sia con l’acqua, e per sentirla bisognerebbe sentire quell’acqua medesima, che ap punto è assente dal sentimento.
T. Ma pure l’assetato qualcosa sente, in quanto è assetato.
P. Senza dubbio, altrimenti non potrebbe aver sete.
T. Cosa sente dunque? lo domanderò io a voi.
Qui, con l’ajuto d’un dizionario di medicina, si passerebbe alla descrizione degli effetti che produce negli organi la mancanza del liquido conveniente, e si vedrebbe che la molestia dell’assetato viene dal difetto del sentimento compito di quegli organi.
P. È quello invece che affoga, cosa sente? L’acqua? Sì: ma è nel sentimento dell’acqua il dolore; o è nel sentimento del polmone impedito dal respirare, nel sangue impedito dal circolare, cioè dal non, sentire queste parti nel loro stato naturale, nel loro pieno esercizio?
Si passerebbe ai dolori morali, dove, se non m’inganno, la dimostrazione è ancora più facile. — E, dopo altre osser vazioni, il P. terminerebbe con un conclusum est contra Manichæos. Il T. direbbe che ci vuole una grande smania di cantar trionfo, per servirsi d’un epifonema cosi alieno dalla questione. Ma il P. sosterrebbe d’averlo citato a proposito, perchè il bene e il male inerenti ugualmente all’atto proprio d’una facoltà e resultanti ugualmente dalla forma di essa, è un concetto che repugna a quello d’un provvidentissimo sapientissimo e ottimo, e onnipotente Creatore, o s’accorda invece (per quanto gli errori possono accordarsi insieme) con quello stranissimo come empio, di due princìpi avversi e cooperanti.
- Carissimo e Veneratissimo Donn’Alessandro,
Stefano mi recò ieri la Sua lettera, e di qual consolazione, di qual conforto mi sia stata, non è necessario che glielo dica. Essa non solo mi attestò il bono stato di salute di Manzoni, che Stefano mi confermò in voce, ma mi assicuro anche della lena con cui lavora; e quali lavori! Dio sa quante belle cose vedremo aggiunte alla Morale Cattolica, e con quanto vantaggio del pubblico. Ma a questo non sarà niente minore quello che verrà dai Dialoghi, e per la forma, trattandosi di un genere di cui è così povera l’Italia, e per la sostanza, trattandovisi cose importantissime, di cui forse è ancor più povera. Il Dialogo sul piacere già dallo schizzo che mi ha mandato, intendo che riuscirà magnifico, e se mi pare, che si ci potesse aggiungere qưalche cosa utilmente per isviscerar meglio il soggetto, ho quasi paura a dirglielo, perchè non vorrei impacciarla, menandola per altri sentieri. Ma perchè Ella già vuol che dica, dirò a condizione, che se ciò che soggiungerò Le riuscisse ’d’ingombro o d’impaccio, Ella l’abbia per non detto, e stracciando la lettera vada avanti così, che andrà sicuramente bene e lontano.
La cosa principale mi parrebbe quella di chiarir la natura del dolore (chè il piacere è quasi direi indefinibile), di guisa che, se il Dialogo si intitolasse Del dolore, parmi che l’intitolazione non sarebbe men propria.
E’ dunque parmi da procurare che spicchi bene in che modo il dolore sia una lotta del principio senziente che vuol sentire, contro le difficoltà che incontra ad emettere tutto intiero l’atto naturale del sentimento. Ora per ispiegarmi più brevemente che mi sia possibile, mi permetta che adoperi dei termini scolastici.
Comincierò dal dire che Aristotele con tutta la scuola di stinse giustamente la negazione dalla privazione, chiamando negazione la mancanza assoluta di qualche cosa, e privazione la mancanza di ciò che un ente dee avere per natura acciocchè questa sua natura sia compita.
Ma non basta: la privazione di ciò che un ente deve avere, è di varia sorte secondo la varietà degli enti. Ora gli enti finiti si dividono: in enti-principio, e in enti-termine. Gli enti-termine sono gli enti puramente materiali, ne’ quali non c’è niente di soggettivo, perchè non hanno nè sentimento, nė intelligenza, e perciò nè sentono nè intendono la privazione che cade in essi.
Ma all’incontro che cosa sono gli enti-principio? e come li distinguiamo dagli enti-termine, ossia dalla materia? Il carattere loro distintivo è quello del sentire (sia che sentano semplicemente, o sia che anche intendano). Di qui procede che la privazione che cade in essi, deve essere da essi stessi sentita, perchè tutto ciò che accade in una natura sensibile, è sentito per l’essenza della stessa natura, che consiste nel sentimento. Rimane dunque a vedere qual sia questa privazione propria degli esseri soggettivi ossia senzienti, la quale costituisce il dolore.
Questa privazione essendo, per la definizione, qualche cosa che manca all’essere senziente, acciocchè egli abbia conseguito compiutamente la sua natura, si domanda quando avvenga che l’essere senziente abbia attinta la natura che gli è propria, interamente? E si risponde che appunto perchè un tal ente è per essenza sentimento, allora egli è pienamente formato e naturato, quando il sentimento che lo costituisce, non trova ostacolo alcuno a spiegarsi in tutta quella estensione ed intensione, che gli è naturalmente propria. Ma vi hanno degli ostacoli, che talora gli impediscono questo spiegamento del suo atto sensitivo e sensibile, e allora egli lotta contra questi ostacoli e sta male fino che non ha superata la lotta.E poichè egli è essenzialmente sensibile come dicevamo, sente questa lotta, e indi tutte le varie specie di dolori.
Il dolore dunque si può definire in generale con una prima e provvisoria definizione, “quel sentimento che prova l’ente sensibile di non poter sentire tutto quello che dee sentire, e dello sforzo che fa di rimuovere da sè questi limiti posti al suo natural sentimento.„
E qui si presentano varie domande: la prima, onde nasca questa lotta? E la risposta è, che nasce da una legge ontologica, voglio dire comune a tutti gli enti, cioè da quel conato che ogni ente fa di conseguire, o mantenere, o reintegrare la sua propria forma, affine d’essere quello che deve essere nè più né meno, e questa è l’attività stessa, per la quale cose sono, l’atto e la forza prima, dell’esistenza.
La seconda domanda che si presenta è: qual sia la natura o forma propria di ciascun ente? — E si può rispondere che qualunque sia ce n’è una, che l’ente col primo suo atto tende a conseguire o a reintegrare, perchè l’ente rifugge ad essere imperfettamente come ad essere annullato, ma posto che egli sia imperfettamente, si serve di quella parte di esistenza e di forza che ha, per acquistare quell’altra parte che ancora non ha. Ed è qui da osservarsi, che la forma naturale di un ente è suscettiva di aumento, dimodochè per essa non s’intende già quella sola che è inseparabile da lui, ma anche quella che acquista, aumentandosi, come accade al bambino, che si fa uomo, o all’animo che oltre le facoltà native acquista degli abiti; e per dirla con una definizione universale “tutto ciò che in un ente è immanente e non puramente transeunte„ ripugnando ogni ente a spogliarsi di ciò che ha stabilmente acquistato, e così reso a sè stesso natura e propria forma.
Sono corollari di questa avvertenza, la spiegazione
1.º Del perchè la mancanza di certi beni non produca dolore e la mancanza d’altri sì.
2.º Del perchè la mancanza di certi beni non produca dolore in alcuni enti della stessa specie, e in altri sì.
3.º Del perchè non produca dolore la mancanza di certi atti transeunti sebbene piacevoli in sè stessi, onde il dolore non è la mancanza di qualunque piacere, ma d’un certo pia cere immanente e naturale, che costituisce il soggetto senziente nella forma che ha per natura, o che ha acquistata.
4.º Del perchè la privazione di certi atti transeunti piacevoli diventi molesta e dolorosa in alcuni che hanno acquistato l’abito ad essi relativo; e questa spiegazione è, che questi atti transeunti diventano necessari alla conservazione dell’abito permanente, il quale è forma acquistata e appartiene agli atti immanenti che l’ente non vuol perdere, perché tutto ciò che ha di attuale (e anche nell’abito c’è un’attualità) gli è piacevole.
Una terza domanda ancora si fa qui avanti: quali sono gli ostacoli pei quali l’ente senziente non può emettere tutto l’atto del suo natural sentimento? E qui verrebbe necessario indicare, come tutti i sentimenti degli enti finiti hanno bisogno di certi termini, come il sentimento corporeo ha bi sogno della materia del movimento e dell’organismo e in una parola di una continua riproduzione degli stimoli corporei; il sentimento intellettuale ha bisogno degli oggetti, e quindi la pena che si soffre, quando si cerca qualche verità che non si trova; il sentimento morale pure ha bisogno de’ suoi propri oggetti in cui termini l’affetto ecc. E se i termini in cui finisce stabilmente l’atto del sentimento vengono in parte tolti via, non in tutto (chè lo stesso sentimento s’annullerebbe), allora il principio senziente si sforza d’averli o di ricuperarli e reintegrarli, e lotta colle difficoltà che ci trova.
E qui osserverò essere importante non confondere quello che manca all’ente senziente nell’ordine estrasoggettivo, con quello che gli manca entro la sfera dell’ordine soggettivo, che è quello del sentimento, benchè la privazione estrasoggettiva sia correlativa alla soggettiva. Onde gli effetti a ragion d’esempio della sete che si posson osservare nello stato del ventricolo ecc., non appartengono propriamente alla molestia della sete, ma la indicano, quasi come la causa indica l’effetto. Osserverò ancora che si potrebbe applicare la teoria alla molestia della noja, che si presta a belle e sottili osservazioni.
Ma dopo di tutto ciò verrebbe in campo l’obbiezione, che se il dolore è il sentimento della lotta ecc., egli è pure un sentimento, e non una semplice privazione. E qui converrebbe dimostrare che il dolore stesso in quella parte che è senti mento è piacevole. Paradosso apparente, ma pur vero; e si potrebbe illustrare con delle importanti osservazioni, come coll’istinto che ha una madre che ha perduto una figlia di abbandonarsi al dolore riuscendole grave che altri la persuada a rivolgere il pensiero altrove; del dolce che produce la compassione e il pianto a pietosi fatti visti a rappresentare, o avvenuti sui nostri occhi, dell’amor della vita, benchè addolorata anche di dolor fisico e del timor della morte (e verrebbe qui naturale per essere sciolta l’obbiezione tratta da suicidi, spiegando l’allucinazione in cui cadono, toccata nel ferroque averte dolorem di Didone); e ne’ concetti benchè strani del Leopardi e del Foscolo, che magnificano il dolore e il fanno credere all’uomo desiderabile, si potrebbe trovare un’espressione in parte vera della natura umana.
Quindi riformando o perfezionando la definizione data del dolore si potrebbe sostituirvi quest’altra più breve e che parmi toccare il punto: “Il dolore è la privazione nel sentimento„, dalla quale apparisce, che certo non c’è dolore senza sentimento, e che tuttavia il dolore non è sentimento.
Non mi dilungo, e mi son dilungato già troppo, e sopra un solo punto che non dee, spero, disturbare la bella orditura di tutto il dialogo. Ma rinnovo la preghiera di stracciare questa carta se Le sembra atta piuttosto ad intricarla che ad ajutarla al Suo intento.
Carissimo Donn’Allessandro, preghi per me specialmente ora che sono tribolato da tanti che al presente mi abbaiano addosso, a cui non so risolvermi di rispondere, parendomi tempo perso, specialmente trovandomi fra tante occupazioni coll’occhio che non mi serve, e con una certa stanchezza fisica che mi abbatte alquanto le forze; ma per grazia di Dio non quelle dell’animo.
Sono molto obbligato al buon Pestalozza che mi diffende, dandomi prova d’una amicizia così rara. Non so se sarò in tempo di consegnare a Stefano questa mia. I miei occhi e la mia mano1 è gratissimo a suoi saluti e Le vuole scrivere i suoi ossequi.
L’abbraccio coll’affetto e la venerazione che Ella ben conosce nel Suo
- Stresa, 24 del 1851.
ROSMINI.
P.S. A Donna Teresa la mia riverenza.
- ↑ Il Padre Setti.