< Della Nuova Istoria
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Zosimo - Della Nuova Istoria (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1850)
Libro II
Libro I Libro III


DI ZOSIMO

CONTE ED AVVOCATO DEL FISCO

DELLA NUOVA ISTORIA

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LIBRO SECONDO

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2****** perchè una lunghissima nostra vita giugne a pena ad abbracciare l’intervallo di tempo tra queste solennità, chiamandosi dai Romani secolo, il Greco αἰών. Giova poi a guarire dalle pesti, dalle epidemie e da varj altri morbi; eccone la origine. Un Valoso Valesio, stipite della famiglia Valeriana, era personaggio illustre presso de’ Sabini. Egli avanti la sua casa avea un bosco di altissimi alberi, i quali tocchi dal fulmine e ridotti in cenere davangli a pensare che pronostico si fosse la combustione loro. Ammalatasi quindi la sua prole, oltre all’arte medica ricorrea pure a quella degli aruspici, e questi dalla foggia del caduto fuoco presunto avendolo segno della indignazione de’ Numi, non male a proposito Valesio, coll’opera loro offerendo vittime, studiavasi placarli, e poichè unitamente alla consorte assai paventava non fosse per avvenire la morte de’ garzoncelli, prostratosi innanzi a Vesta promettevale in cambio di essi due perfette anime, la propria e quella dì lei che ebbeli generati. Rivolgendo poscia la sguardo alla foresta percossa dalla folgore parvegli sentire da una voce il comandamento di condurre a Taranto i malati, ed ivi scaldata l’acqua del Tevere col fuoco del Padre Plutone e di Proserpina, lor dessela bere. All’udire tali parole tanto più disperavano la salute, non ignorando essere Taranto in remoto luogo dell’Italia, nè avervi colà acqua Tiberina; non davagli parimente buono augurio la prescrizione di scaldare l’acqua sopra l’ara degli Iddii infernali: scoratisi pertanto anche gli aruspici, egli tuttavia ad un secondo eguale avviso determinossi ad obbedire. Posti dunque sopra nave fluviale i figli, navigava a seconda della corrente portando seco il fuoco. Ma vedendo i suoi infermi semispenti dal caldo facea volgere la prora a quella parte del fiume ove l’acqua più mite scorrea. Avvenutosi quindi a una capanna da pastore ebbe a sapere che prenderebbe terra in Taranto, avendo il luogo nome comune col Taranto vicino al promontorio Iapigio. Laonde Valesio, adorato il Nume, ordina al piloto di venire a riva, e sceso dalla nave racconta ai pastori tutte le sue bisogne; scaldata quindi poc’acqna tratta dal Tevere ad un fuoco da lui acceso in quel luogo la porge ai figli. Questi non a pena bevutala, abbandonatisi al sonno, risanarono, e dormendo conobbero per una visione che nere vittime sacrificar doveano a Plutone ed a Proserpina, e passate tre di in canti e balli. Destatisi riferirono al padre esser loro apparso in sogno un gran personaggio simigliente a Nume, per ammonirli che immolassero nere ostie nel campo di Marte, là dove il vacuo terreno è destinato agli esercizi de’ cavalli. Valesio dunque propostosi di ergervi un’ara, gli operaj nell’ eseguire lo scavamento trovaronla bell’e fatta coll’iscrizione: - A PLUTONE e PROSERPINA. Laonde più manifestamente compreso il voler degli Iddii sacrificòvvi sopra nere vittime, ed ivi celebrò le veglie notturne.

Donde poi quest’ara e tal foggia di sacrificio derivasse prendo qui a narrare. Venuti a guerra Albani e Romani e l’una e l’altra fazione essendo già in armi, presentossi agli eserciti figura di prodigioso aspetto, vestita di nera pelle e divulgante con sonora voce che il padre Plutone e Proserpina ordinavano loro di sagrificare sotterra prima di venire a battaglia; così parlato scomparve. I Romani spaventati dal fantasma scavato il suolo alla profondità di venti piedi inalzarono l’ara e sacrificatovi occultaronla, perchè, ad eccezione di essi, a tutti rimanesse ignota. Valesio dunque rinvenutala, fattovi sopra il sacrificio, ed eseguite le noturne veglie ebbesi a nome Manio Valerio Tarantino, gli Iddìi infernali dai Romani appellandosi Mani, Valerio dalla voce latina Valere (essere sano), ed aggiuntogli dai Tarantini il soprannome Tarantino per essere stato il sacro rito presso di loro compiuto.

Ne’ consecutivi tempi, correndo il primo anno dopo la cacciata dei re, la morìa travagliando Roma P. Valerio Poplicola immolato avendo sopra quest’ara un bue nero a Plutone ed a Proserpina liberò la città dal malore, e scrisse nell’ara: » Io P. Valerio Poplicola ho dedicato il fuoco del Campo Marzo a Plutone ed a Proserpina, e fatti i giuochi ad onore di Plutone e di Proserpina per la liberazione del popolo Romano.» Al sovrastare in appresso malattie e guerre, l’anno dalla fondazione di Roma trecencinquantadue3, il popolo mano bramoso di allontanare sì gravi infortunj mediante gli oracoli Sibillini ordinò ai diputati all’uopo di consultarli, e costoro annunciarono che terminerebbe il male coll’offerire vittime a Plutone ed a Proserpina. Ricercato il luogo sacrificarono a norma del contenuto nei libri Sibillini, console essendo M. Potito per la la quarta volta e compiuto il rito ed affrancatisi dagli imminenti mali ascosero novamente l’ara ponendola sotterra all’estremità del Campo Marzo. All’essersi di poi ommesso durante qualche tempo questo sacrificio sopraggiunti altri sinistri, Ottaviano Augusto ripetè i giuochi da prima fatti, consoli essendo L. Censorino e M. Manlio Puelio4, ed in allora sotto i consoli L. Censorino e Caio Sabino, esposte avendo Ateio Capitone le leggi de’ giuochi, ed i quindici diputati alla custodia degli oracoli Sibillini rinvenuto il tempo in cui sacrificare dovessi e dare gli spettacoli. Dopo Augusto, Claudio celebrò i giuochi senza verun riguardo allo stabilito numero degli anni. Domiziano poi, nulla curante Claudio, numerato il giro degli anni trascorsi dai giuochi di Augusto, sembrò volesse conservare la legge da principio stabilita. Severo in seguito, passati di già anni cendieci5, co’ figli Antonino e Geta li rimise novamente sotto i consoli Chitone e Libone.


Il tenore di essi è chiaramente riportato dagli scrittori. I banditori andando in giro invitavano tutti ad uno spettacolo mai più veduto da loro, nè poter vivere tanto da intervenirvi una seconda volta. Giunto in appresso il tempo della mietitura, pochi giorni prima di cominciare i giuochi, quindici diputati assisi in ringhiera nel tempio palatino del Campidoglio distribuivano al popolo le materie espiatorie, fiaccole, intendomi, solfo e bitume, participandole soltanto i liberi, ma non i servi. Radunatasi quindi la gente, provveduta di grano, orzo e fave, ne’ prefati luoghi e nel tempio di Diana eretto sul colle Aventino compieva onestamente le veglie noturne. Avvicinatosi poscia il tempo de’ giuochi nel Campo Marzo, duraturi tre giorni e tre notti, offrivansi in sacrificio vittime agli Iddii presso alla ripa del Tevere conducente a Taranto. I Numi cui fannosi olocausti sono Giove, Giunone, Apollo, Latona e Diana; le Parche inoltre, le Lucine, Cerere, Plutone, e Proserpina. Correndo la prima notte degli spettacoli, all’ora seconda, erette sul margine del fiume tre are, l’imperatore coi quindici diputati vi sacrifica tre agnelli, ed asperse le are del sangue v’abbrucia per intiero le vittime. Costruita poscia un’orchestra senza teatro ed accesi i lumi ed i fuochi vi si canta un inno dì recente composizione, dopo di che principiano i giuochi dicevoli ai sacri riti, ricevendo gli esecutori per mercede le primizie de’ frutti, o sia del frumento, dell’orzo e delle fave, essendo esse, conforme al narrato, a tutto il popolo distribuite. Nel prossimo secondo giorno asceso il Campidoglio ed offertevi le consuete vittime, di là volgendo il passo ad un apparecchiato teatro si celebrano i giuochi ad Apollo e Diana. Il terzo dì nel tempio Palatino d’Apollo vensette illustri fanciulli con pari numero di pulzelle fiorenti gli uni e le altre, aventi, dir voglio, ambo i genitori in vita, cantano, usando Greca e Romana lingua, inni e Peani, mediante cui salve rendonsi le città ligie all’impero. Eranvi inoltre eseguite più cerimonie portate dal rito divinamente prescritto; le quali pratiche infinattantochè rimasero in vigore la Romana repubblica non soggiacque a detrimento veruno. A rendere poi il narrato meritevole di maggior fede riporterò lo stesso Oracolo della Sibilla, prima di noi riferito similmente da parecchi autori.


Ast ubi mortalis longissima venerit ætas
Vitæ centenis denis redeuntibus annis,
Sis, Romane, memor, nec te ulla oblivia fallant:
Sis memor ut facias Diis immortalibus illo
Rem sacram in campo quem Thybridis adluit unda,
Nox brevior tenebris terras ubi texerit atris,
Solque suum jubar abdiderit: tum victima Parcis
Agnorum atque ovium pariter cadat Oceaninis.
Postea cœruleæ placantor et Ilithyæ.
Lucinæ, quibus has sacris decet. Inde feraci
Telluri porcus mactetur, cum sue nigra.
Inde boves albi Jovis adducantor ad aram,
Idque die, haud noctu. Nam Diis cœlestibus una
Sacra diurna placent. Simili ratione juvenca
Junoni nitida et labis mactabitur expers.

Hinc et sacra feret paria abs te Phoebus Apollo.
Latona genitus, quem Solem nomine dicunt,
Pæanasque canent sublata voce Latini
Ædibus in sacris pueri, innuptæque puellæ:
Sic tamen ex alia ut consistant parte puellæ,
Ex alia pueri dicant sua carmina: quorum
Vivat uterque parens, superis vescatur et auris.
At quæ nuptarum fuerint numeroque locoque,
Adsideant flexis genibus Junonis ad aram
Divam exorantes. cunctorum ut vota secundet.
Vota quidem et marium, magis at muliebria vota.
Quilibet e domo secum ferat omnia, quæ fas
Mortales superis, ceu primitias epularum.
Mitibus et Divis, Divis offerre beatis.
Omnia Cælitibus sint hoc cumulata per aras.
Ex his suppedites ut femellis maribusque,
Qui sacris aderunt. Etenim noctesque diesque
Vis hominum præsens ad pulvinaria Divium
Ingens sit numero, ludrica ed seria tractans.
Hæc adeo tibi sint memori bene condita mente.
Itala sic tellus omnis, tellusque Latina
Æternum tua sceptra colet, tua jussa capesset.


Or bene che mediante la convenevole osservanza, secondo il prescritto dall’Oracolo e richiesto dalla ragione stessa, di tutti questi riti la Romana signoria mantenuto avrebbe la sua integrità ed assoggettato, quasi dissi, in perpetuo tutto il mondo conosciuto da noi al suo dominio, e quindi trascurati i secolari giuochi, dopo la rinunzia al trono dell’imperatore Diocleziano6 ella decadesse a poco a poco e chetamente ridotta fosse a prendere in qualche modo barbariche fogge gli avvenimenti medesimi ebbonlo dichiarato. A provare poi la nostra asserzione sondata sulla verità sienmi di guida le vicissitudini de’ tempi. Dal consolato di Chitone e Libone, durando il quale Severo diede al pubblico i giuochi secolari, infino ai consoli Diocleziano per la nona volta e Massimiano per l’ottava corsero anni cento e uno, ed allora appunto Diocleziano tornò da imperatore a vivere privatamente, imitato in seguito da Massimiano7. Compitosi poi sotto i consoli Costantino e Licinnio per la terza volta l’intervallo d’anni dieci, era mestieri di aver già eseguiti i giuochi, non dipartendosi dalla costumanza, ma trascuratili cominciarono di giustizia gli affari a declinare lentamente, ed immergere la repubblica in quelle calamità da cui siamo gravati.

Tre anni appresso Diocleziano mancò ai vivi; Costanzo e Massimiano Gallerio, pervenuti antecedentemente all’impero, nominarono cesari Severo e Massimino, nato costui dalla sorella di Gallerio, accordando al primo l’Italia ed al secondo le province orientali. Stabilite di questo modo bene le cose ed i barbari a motivo de’ rovesci sofferti ne’ tempi andati vivendo più che volentieri in quiete, Costantino, tratti i natali da vituperoso commercio di donna capitata non legittimamente nelle mani dell’imperator Costanzo, da pezza ravvolgendo nell’animo pensieri tendenti alla monarchia, e tanto più cresciutogliene il desiderio vedendo Severo e Massimino elevati alla cesarea onoranza, risolvè, abbandonati i luoghi ove dimorava, trasferirsi appo Costanzo suo padre, il quale soggiornava infra popoli di là dalle Alpi, vivendo il più nella Britannia. Temendo poi non venisse nella fuga arrestato, a molti nota essendone la bramosia di regno, non a pena abbattevasi in qualche stalla ove fossero cavalli dalla repubblica alimentali, collo storpiamento rendeali disutili, solo ritenendo per sè il numero di essi occorrente a proseguire il viaggio. Ora perseverando in tale operazione impediva a quanti seguivanne le tracce il proceder oltre, ed ognor più avvicinavasi a que’ popoli tra cui aveavi il genitore.

Accaduto intrattanto per voler del fato la morte dell’ imperatore Costanzo8, i pretoriani militi non riteneano veruno de’ suoi legittimi figli idonei al regno, osservandovi per lo contrario in Costantino attitudine, ed animati insieme dalla fiducia di magnifiche largizioni conferivangli l’onoranza di cesare. Espostane dunque in Roma, secondo la consuetudine, l’imagine, Massenzio, figlio di Massimiano Erculio, di mal animo tollerava che le mire di Costantino, generato da cosi ignobile femmina, dessero in brocco, mentre egli, prole di tanto imperatore, ozioso rimanendo nel palazzo ad altri vedrebbe concessa la paterna signoria. Risolutosi ad imprendere e tratti al suo partito Marcelliano e Marcello, tribuni de’ soldati, Luciano (dispensatore della carne porcina dal pubblico erario donata al popolo) e gli aulici militi, nomati pretoriani, venne da essi collocato sotto il regal trono, promettendo egli splendido guiderdone a tutti coloro pel cui mezzo ottenuto avesse così grande beneficio. Questi cominciarono l’opera coll’uccidere Abellio, il quale occupando la prefettura della città mostrato erasi contrario ai loro divisamenti.

Massimiano Gallerio avutone sentore manda Severo cesare a guerreggiare Massenzio. Il duce partito da Milano ed avvicinatosi al nemico colle truppe Mauritane fu di leggieri vìnto da Massenzio, il quale sedotto aveagli col denaro la maggior parte dei militi, e tratto a parteggiar seco Anullino prefetto del pretorio. Severo fuggendo corse a Ravenna, città forte, molto popolosa ed avente copia di vittuaglia, bastevole ai suoi bisogni ed a quelli delle truppe seco.

Massimiano Erculio a tale avviso ragionevolmente sollecito del figlio Massenzio abbandonata la Lucania, facendovi allora soggiorno, dirizzò frettoloso il passo a Ravenna, ove osservato che non potea cacciare Severo a malincorpo da una città munita e ricca d’annona, circonvenutolo con giuri persuasegli di andare a Roma, e quegli incamminatovisi, al metter piede nel luogo nomato Le tre Taverne, caduto nelle insidie postevi da Massenzio fu ucciso, rottogli con laccio il collo.

Del rimanente Massimiano Gallerio, comportar non potendo senza molestia i macchinamenti contra Severo cesare, stabilì dall’oriente viaggiare a Roma onde recare il meritato gastigo a Massenzio. Presa terra in Italia e vedendo gli animi de’ militi poco alla sua persona fedeli, senza far pruova delle armi ricalcò la via d’oriente.

Massimiano Erculio di poi comportando mal volentieri i torbidi che travagliavano la repubblica, direttosi a visitare Diocleziano a dimora in Carunto (Celtica città) studiavasi persuaderlo a riprendere le redini dell’impero, non tollerando che, per sì lungo tempo e con tante fatiche da loro conservato, pericoli ora di essere sconvolto da forsennata gioventù e dalla pazzia di coloro, ì quali ne avrebbero il reggimento. Diocleziano rifiutò di condiscendere alla proposta, anteponendo la quiete al maneggio degli affari (forse perchè, religiosissimo essendo, prevedeva i torbidi prossimi a succedere). Erculio fallitogli il colpo ed inoltratosi infino a Ravenna camminò di nuovo alle Alpi, volendo quivi dimandare consiglio a Costantino. Ma, per natura cupido e mancator di fede, promessagli la figlia Fausta in isposa e seco lui adempiuta la parola, era tutto nell’ingannarlo, assicurandolo che perseguiterebbe Gallerio Massimiano all’uscire dell’Italia, e tramerebbe insidie a Massenzio. Riportatone il consentimento intorno a quanto esposto avea, di là partendo procacciava ricuperare l’impero colla speranza di produrre scambievoli odj infra il genero Costantino ed il figlio Massenzio.

Mentr’egli attende a questi maneggi Massimiano Gallerio, non allontanandosi dalla costumanza de’ trascorsi tempi, crea imperatore il suo famigliare Licinnio, pensando mediante costui perseguitare Massenzio. Ma colpito, intanto che iva ruminando tali divisamenti, per grave ferita da morte, Licinnio eziandio si fe’ a pretendere l’impero. Intento poi anch’egli Massimiano Emilio a tornarne al possesso, come detto abbiamo, cercava rimovere le truppe dall’affezione portata a Massenzio. Riuscito con doni e meschine suppliche a condurle al suo partito si brigava di tendere insidie a Costantino adoperandovi gli stessi militi di lui. Se non che da Fausta prevenuti essendone i tentativi, e manifestati per intero al consorte, Emilio, uscito affatto di ogni speranza, viene da malattia spento presso Tarso9.

Massenzio liberato dalle macchinategli insidie, e di già ritenendosi fermo possessore dell’impero, spediva in Africa ed a Cartagine messi portatori in giro del suo ritratto. Ma oppostevisi le truppe di que’ luoghi per la benivolenza professata a Gallerio Massimiano, sempre di lui ricordevoli, e persuase che Massenzio per tale ribellione guerreggiate avrebbele, batterono la via d’Alessandria, ed avvenutesi nel percorrerla ad assai maggiori nemiche forze, nè resister loro potendo, sopra navi tornarono a Cartagine. Laonde Massenzio turbatosi risolvè navigare alla volta d’Africa coll’intendimento di punirvi gli autori della sedizione. Ora sacrificatosi dagli aruspici e detto non essere propizie le vittime, egli paventando mettersi in mare tanto perchè le viscere presentato non aveano fausti indizj, quanto per lo timore di essere contrariato da Alessandro, il quale copriva in quella regione la prefettura del pretorio, si rivolse a costui, onde liberare da ogni sospetto il suo valico dall’Italia in Africa, addimandandogli per istatico il figlio. Questi essendo giovincello e di bellissimo sembiante, il genitore insospettitosi avervi nella dimanda inganno, ed in cambio si volesse perfidamente abusarne, ricusa di consentire all’inchiesta mandatagli sotto il prefato titolo. Avendo poscia Massenzio spedito altri coll’ordine di morirlo frodolentemente, e conosciutasi per rivelazione la scelleraggine, le truppe giudicandolo idoneo motivo di ribellarsi vestono della porpora Alessandro, originario della Frigia, debole, timoroso, pigro ad ogni fatica, ed anche maturo d’anni.

Un incendio a que’ dì surto in Roma, nè giunti a scoprire se derivante dall’aere o dalla terra, mandò a fuoco e fiamma il tempio della Fortuna. Accorsivi tutti ad estinguerlo un soldato proferito avendo ingiuriose parole contro al Nume fu dalla plebe, spinta da religioso zelo, assalito ed ucciso. Destatasi pertanto una militare sedizione, poco mancò di vedere la città dalle truppe ridotta allo sterminio, se Massenzio riuscito non fosse a mitigarne il furore.

Questi di poi rintracciava occasioni di muover guerra a Costantino, simulatamente incolpandolo della morte del genitore. Al qual uopo escogitava correre la via che mena ai Rezj, popoli vicini alla Gallia ed alle regioni Illiriche, sognando occupare la Dalmazia e l’Illiria assistito dalle truppe ivi di stanza e da quelle di Licinnio. Se non che, fermo in questi divisamenti, volle innanzi tutto ordinare le Africane faccende. Raccolte dunque genti e dato loro a duce Rufio Volusiano, prefetto del pretorio, lo manda in Africa, aggiuntogli a compagno Zena, uomo celebratissimo così per esperienza nella bellic’arte come per la sua piacevolezza. Al primo affrontamento le truppe d’Alessandro in qualche numero sottratte essendosi dal periglio colla fuga, egli stesso tenne lor dietro; ma vinti i fuggitivi anche il duce fu preso e strangolato.

Terminatasi non altramente la guerra s’aprì un vasto campo agli ingannatori per denunziare poco men che tutti i dimoranti in Africa, di stirpe e di ricchezze cospicui, come seguaci delle parti d’Alessandro, nè aveavi affatto chi sperare potesse mercede, gli uni venendo uccisi e gli altri spogliati delle proprie sostanze: si menò di più nella stessa Roma trionfo pe’ delitti commessi in Cartagine. Così correano gli affari di Massenzio dopo i riferiti avvenimenti, e mentre non solo per la Italia, ma in Roma stessa il tutto procedeva con somma crudeltà ed arroganza.

Costantino, avutolo già in sospetto ed ora vie meglio, prepara vasi a guerreggiarlo; ragunate dunque genti tra’ barbari caduti in suo potere, tra Germani ed altro Celtiche nazioni, compresavi la Britannia e formato un esercito di novantamila fanti ed ottomila cavalieri passava dalle Alpi in Italia, senza recar danno alle città che non faceangli resistenza c soggiogando le accintesi a contradiarlo. Massenzio capitanava truppe assai più numerose composte di Romani ed Italiani, seco lui strettisi in lega di guerra, pari il numero ad ottantamila combattenti. Conduceva eziandio seco i Tusci della intiera marittima piagga, ed i Cartaginesi anch’eglino fornivanlo d’un esercito dì quarantamila guerrieri; aiuti a simile mandavangli i Siculi, di maniera che il suo esercito ascendea a censettantamila pedoni e diciottomila cavalli.

Ambedue provvedutisi di numerosissime truppe, Massenzio costruiva un ponte sopra il fiume Tevere, non del tutto insiem connesso dalla sponda verso la città insino alla opposta; ma tale diviso in due che i legni donde componevansi le sue parli congiunti venivano in qualche modo tra loro con arpioni di ferro, agevoli a togliersi quando si bramasse dividerle. Comandava inoltre ai fabbri che non a pena vedessero l’esercito di Costantino co’ piedi sulla congiunzione del ponte, ritirandone le spranghe, lo disunissero, facendo così affondare nell’acqua quanti eranvi sopra. Massenzio non altramente operava.

Costantino pervenuto coll’esercito infino a Roma, piantava il campo avanti la città, in luogo assai vasto ed acconcio alla cavalleria. Massenzio assediato entro quelle mura offeriva ostie agli Iddii, ed interrogava gli aruspici intorno all’esito della guerra, consultando in pari tempo gli oracoli Sibillini. Trovatone uno il quale ammoniva essere nei destini che perirebbe di miserabile morte chiunque osasse danneggiare il popolo Romano, consideravalo avvertimento propizio alla sua persona, quasi l’Oracolo indicasse ch’egli respingerebbe gli assalitori di Roma tutti solleciti a procurarne la conquista; ma gli eventi consecutivi mostraronne il veritiero significato. Imperciocchè uscito egli della città colle truppe e valicato il ponte da lui fatto eseguire, una smisurata moltitudine di civette dall’alto volande empievano le mura. Costantino osservato il fenomeno ordinava a’ suoi di attelare l’ esercito, e, postesi le fazioni dall’una e dall’altra parte di fronte, mandò i cavalieri innanzi; questi affrontate le nemiche genti in arcione le misero in rotta; la fanteria por ella, avutone il comando, in perfetto schieramento avviassi alla pugna. Venuti a fiera battaglia, i Romani ed i confederati Italiani, bramosi di scuotere un’acerba tirannia, appalesavansi molto neghittosi a pericolare; le altre milizie poi toccaronvi grandissima strage, parte di esse conculcata rimanendo dai cavalli, e parte uccisa dai fanti. Per verità sinattantochè i militi in sella poterono resistere si parca avervi qualche speranza in favore di Massenzio, ma vinti costoro, egli colle residue truppe datosi alla fuga retrocedeva alla città valicando il ponte del fiume. Le travi di esso allora, inette a sostenere cotanto peso, rottesi, fu con tutto il seguito dalla impetuosa corrente portato via.

Divulgatasi la vittoria in Roma nessuno ardiva manifestare segni di gioia, molti opinando falsa la nuova. Se non che tradotto entro le mura il capo di Massenzio in un’asta infisso, il popolo deposto ogni timore diedesi a giubilare d’allegrezza. Dopo tale vittoria Costantino gastigò ben pochi famigliarissimi di Massenzio. Tolti poscia di mezzo i pretoriani, atterrati i castelli ove dimoravano, e poste in assetto le urbane faccende camminò alla volta de’ Celti e de’ Galli; ma chiamato in prima Licinnio a Milano lo ammogliò con la sorella Costanza per lo innanzi promessagli, quando bramavalo a compagno nel guerreggiare il nemico Massenzio; dopo di che volgeva il passo verso de’ Celti. Animatesi del resto le guerre civili infra Licinnio e Massimiano e venute le fazioni a battaglia presso gli Illirici, al principio di essa parve la vittoria dichiararsi pel secondo, nondimeno subito rinnovata la pugna, egli fu costretto alla fuga, e per l’oriente avviatosi, nell’Egitto, fiducioso di raccogliervi militi sufficienti a proseguire la guerra, mancò in Tarso ai vivi10.

Laonde pervenuti all’impero Costantino e Licinnio dopo brevissimo tempo la discordia penetrò infra loro, datole avendo impulso Costantino11 col mostrarsi, giusta la sua consuetudine, poco esatto ne11’osservare di buona fede le convenzioni, preteso avendo il possesso d’alcuni popoli spettanti all’impero di Licinnio. Il perchè ambedue prorompendo in aperte nimicizie facean leve di soldatesca per venire alle armi. Licinnio quindi radunava sue genti presso Cibali, città della Pannonia sita in monte, ove ascendesi calcando una via stretta e cinque stadj lunga. Al più di essa va contigua profonda palude, il resto è montagna, nella quale havvi il colle con sopravi, come detto abbiamo, la città. Presentasi quindi un’aperta pianura vastissima di vero e senza limiti allo sguardo; qui Licinnio piantato avea il campo stendendo sotto del colle in lunghezza la sua falange, onde non apparissero deboli i corni. Costantino attelò i suoi vicino al poggio, e messavi di fronte la cavalleria sembratagli con tale ordinanza vie meglio impedire al nemico di rattenere nel proceder oltre i pedoni, impetuoso attaccandoli onde venissero più a rilento alle prese.

Disposto così lo schieramento e riuscito superiore nel primo scontro avventasi di colpo, fatti inalberare i vessilli, sopra l’avversario, dando principio ad un certame forse più ostinato di altro qualunque. Imperciocchè dopo uno scambievole trar d’arco si pugnò lungamente con le aste e spade. Combattutosi dall’aurora infino al calar delle tenebre vinse il corno destro comandato da Costantino. A tale sconfitta i legionari di Licinnio vedendo il proprio duce montare in sella e disporsi alla fuga, più non vollero sapere di far permanenza colà, e porvisi a cena; ma lasciato il bestiame, i giumenti ed il resto delle bagaglio, e solo portando seco la vittuaglia necessaria ad estinguere la fame, giungono durante la notte, levato ogni indugio, collo stesso Licinnio a Sirmio, città della Pannonia bagnata all’intorno da un fiume, il quale versa le sue acque nell’Istro. Il duce trapassatala di corsa e rottone il ponte avviossi nella Tracia pensando assoldarvi truppe.

Costantino occupala Cibali, Sirmio e gli altri luoghi abbandonati nella fuga dal nemico, spedisce cinque mila legionarj sulle tracce di esso, ma costoro ignorandone la battuta via indarno procurarono di raggiugnerlo. Egli poi, racconciato il ponte assai guasto da Licinnio, segnivane coll’esercito le orme. Arrivato nella Tracia s’avvenne alla pianura scelta dal rivale per mettere il campo, e durante la notte medesima della sua venuta, poste in ordinanza le troppe, fa loro comandamento di tenersi pronte col primo aggiornare all’aringo. Licinnio al mattutino osservato in armi l’avversario schiera pur egli i suoi, avendo a compagno di guerra Valente, nominato da lui cesare nella fuga da Cibali. Venuti alle mani, gli eserciti, da principio a qualche distanza tra loro, valeansi degli archi, ma consumati gli strali diedero di piglio fieramente alle aste e spade. Ora, mentre a furore egli combattevano, i mandati da Costantino ed incalciare i fuggenti, ascesi, durando tuttavia la pugna, un luogo donde rimirar poteansi gli eserciti ed aggirato un colle, da erta e più elevata posizione statuiscono di soccorre ai loro, circondando il nemico. I militi di Licinnio evitato sì grave pericolo ed animosamente facendo a tutti petto, dopo grandissima strage da ambe le parti, riuscirono a rendere indecisa la sorte di quella campale giornata: in seguilo le truppe, sonato a raccolta. separarono tornando entro agli steccati.

Il giorno appresso fatta tregua parve loro di venire a patti e strignere lega, dichiarando Costantino imperatore degli Illirj e de’ popoli quanti aveanvene di là da essi, e Licinnio della Tracia orientale e delle provincie ulteriori; torrebbesi alsi di mezzo Valente, creato cesare da Licinnio, come autore (se mal non m’appongo) di tutti gli accaduti sinistri. Convenutisi di questa guisa, e da entrambi giurata la più esatta osservanza de’ prefati accordi, per vie meglio legarsi nell’adempimento loro Costantino creò cesari Crispo, nato da una concubina di nome Minervina, uscito di pubertà, Costantino, pochi dì prima venuto al mondo nella città di Arles, e Licinniano, prole di Licinnio ed entrato nel ventesimo anno. Così ebbe termine la seconda guerra.

Costantino poscia udito avendo che i Sauromati abitatori presso alla Palude Meotide, valicato sopra navi l’Istro, malmenavano i suoi dominj, spedì truppe ad infrenarli. I barbari a simile col monarca Ransimodo mossagli guerra, principiarono ad assalire una città guardata da bastevol presidio ed avente il muro da terra insino a qualche altezza costruito di pietre, e la parte superiore di legno. Eglino dunque opinando agevole impresa tale conquista incendiandone il fabbricato di legno, v’apportavan fuoco e dardeggiavanne i difensori: ma questi con ìstrali c sassi avventati dall’ alto mettevanli a morte. Sopraggiunto in seguito Costantino ed impetuosamente investitili da più elevato luogo, molti ne uccise, pur molti ne fe’ prigioni e pose il resto in fuga. Rausimodo allora colle poche truppe rimasegli montalo sopra nave tragittò l’Istro, avendo nell’animo di mettere novamente a soqquadro il Romano impero, Costantino scopertane la fuga trapassa anch’egli il fiume per seguirne le orme, e raggiuntili vicino ad un selvoso colle, ove pervenuti erano a corsa, ne replica la strage, avendovi Rausimodo infra gli uccisi; raccolta parimente quantità di prigioni e concessa grazia al resto, chiedentegli mercede, torna al pretorio menando seco grande caterva de’ primi.

Distribuiti costoro nelle cittadi passò a Tessalonica, e terminato il porto, mancandone per lo avanti, ordinava l’apparecchio necessario ad altra guerra contro di Licinnio. Laonde costruivansi navi di trenta remi ognuna, e da carico meglio di due mila. Apprestava di più un esercito di cenventimila pedoni e diecimila tra gente in sella e navale. Licinnio, uditone, mandando qua e là messi per le nazioni comandava leve di fanti e cavalli, e che si preparassero navi adatte alla guerra. A tale annunzio furongli di colta spedite dagli Egizj ottanta treremi, dalla Fenicia egual numero, dagli Ionii e i Dorii sessanta, dai Ciprii trenta, dalla Caria venti, dai Bitinii trenta e dagli Africani cinquanta. Avea del pari da un cencinquantamila pedoni e quindicimila cavalieri inviatigli dalla Frigia e Cappadocia. Teneasi da Costantino l’armata di mare nel Pireo e da Licinnio nell’Ellesponto. Disposto così il tutto, in riguardo alle terrestri e marittime truppe, da ambe le fazioni, Licinnio steccossi in vicinanza d’Adrianopoli della Tracia, e Costantino, fatte venire dal Pireo le sue navi, raccoltone il maggior numero in Grecia, ed inoltratosi coll’esercito da Tessalonica alla riva del fiume Ebro, il quale da sinistra bagna Adrianopoli, vi ergeva lo steccato. Licinnio egualmente poneva a campo i suoi da un monte a cavaliere della città insino a stadj dugento là dove il fiume12.... scarica le sue acque nell’Ebro; gli eserciti molti giorni stettersi immobili ne’ loro steccati l’uno di contro all’altro. Costantino allora osservato dove il fiume correa strettissimo si vale dello stratagemma seguente. Commette all’esercito di trasportare legname e legarlo con funi, simulando costruire sopra il fiume un ponte per agevolarne il valico alle sue truppe. Ingannato così il nemico ed asceso un colle da folta boscaglia coperto, quindi agli aguati acconcio, vi occulta cinquemila pedestri arcadori ed ottanta cavalieri13. Fattosi di poi accompagnare da soli dodici militi in sella e trapassato l’Ebro là dove, minore essendo la corrente, facile addiveniva il guadarlo, improvviso cade sopra al nemico; il di che molti soggiacquero a morte, non pochi a furia voltarono le spalle, ed altri per lo terrore della inopinata sorpresa rimasero a bocca aperta, stupiditi del repentino tragetto. Il resto de’ cavalieri intrattanto coll’intero esercito passati liberamente all’opposta riva menarono grande strage di umane vite, portandosene il numero a trenta quattromila, ed al tramonto del sole occuparono il vallo nemico. Licinnio colle poche truppe, che a stento potuto avea raccogliere, pigliò la via di Tracia mirando unirsi all’armata di mare.

La dimane all’alba tutti i Licinniani militi che fuggendo campato aveano lor vita o nel monte, o nelle vicine convalli, si rimisero alla discrezione del vincitore unitamente a quelli tardi nella fuga. Arrivato Licinnio in Bisanzio, Costantino, seguendone le pedate, assediò la città, la sua flotta dal Pireo di già messo avendo alla vela, come narravamo, ed apportato nella Macedonia. Chiamatine dunque i capitani presso dì sè ingiunse loro di trovarsi pronti colle navi alta foce dell’Ellesponto. I duci, obbedito al comando, con sole ottanta velocissime navi, fornita ognuna di trenta remi, incapace essendo l’angusto luogo di contenerne quantità maggiore, divisarono cimentarsi alla pugna. Abanto in questa condottiero della flotta Licinniana, vi compariva con dugento legni, e forte spreggiando il picciol numero di quelli nemici estimò poterli ben di leggieri circondare. Inalberati dalle fazioni i vessilli ed i piloti navigando contro a! nemico di fronte, quelli di Costantino governavan le navi in guisa di assalirlo idoneamente. Abanto per lo contrario affatto all’avviluppata investendo i Costantiniani faceva urtare insieme i suoi legni, stipati in grande numero entro men che spazioso luogo, quasi presentando mezzo al nemico di sommergerli, o come si voglia fracassare. Alla per fine, molti de’ suoi guerrieri caduti orribilmente nell’acqua, e l’annottare troncato avendo la mischia, il vinto afferrò ad Eleunte della Tracia, ed il vincitore fece abbassare le àncore nel porto Eantio. Il dì vegnente spirando forte vento Aquilonare Abanto di là uscito preparavasi a navale pugna. Ma spaventato dalla moltitudine delle navi mosse da cinquanta remi già condotte dall’avversario ad Eleunte, avvolgevasi nella incertezza se dovesse pigliare a combatterle. Verso il meriggio un galiardo Austro succeduto al vento Aquilonare gettò parte dell’Asiatica flotta di Licinnio contro alla spaggia, parte con violenza spinsene di scoglio in scoglio, ed altre ne affondò coi naviganti. In tal frangente perirono cinquemila guerrieri e centrenta navi co’ marini, sopra cui Licinnio mandato avea dall’Asia nella Tracia porzione dell’esercito, ad impedire che gli assediati seco in Bizanzio patir dovessero strettezza di luogo nel ricettare cotanto numerose truppe. Dopo così terribili marittime vicende Abanto con sole quattro navi riparò in Asia, ove pervenute da prima all’Ellesponto le navi apportatrici di varie merci e di copiosissima vittovaglia all’esercito vittorioso, questo con tutta la flotta partiva per unirsi agli assediatori di Bizanzio, e cingere anche da mare la città. I militi di Licinnio allora incapaci di reggere neppure alla vista delle marittime forze nemiche, tornarono sopra navi ad Eleunte.

Costantino proseguendo con vigore l’assedio, eretto un terrapieno a livello dell’altezza di quel muro e locatevi sopra torri di legno a dominarla, da esse avventava dardi alla guarnigione per trasportarvi senza propria offesa le arieti ed altre macchine onde averne compiuto il possesso. Licinnio da tali apprestamenti ridotto a mancanza di consiglio stabilì, abbandonando Bizanzio alla più debole parte dell’esercito, e pigliando seco i maggiormente idonei e sperimentati suoi favoreggiatori, avviarsi a Calcedone della Bitinia, col divisamento, raccolte che avesse truppe nell’Asia, di ritentare la sorte delle armi. Giunto dunque per mare colà ed accompagnatosi con Martiniano, creatolo cesare, duce delle palatine guardie (nomato dai Romani maestro degli ufficj) lo spedisce a Lampsaco per contrastare al nemico il passaggio dalla Tracia nell’Ellesponto; egli poi colloca le sue truppe ne’ colli e nelle strette presso a Calcedone.

Mentre Licinnio così operava Costantino avendo a sua disposizione alto numero di navi da carico e da guerra, brama valicare all’opposto lido non fidando in quelli del Bitinico mare inaccessibili particolarmente alle navi da carico; fatte pertanto costruire a fretta veloci barche ed aggiuntevene altre naviga al promontorio nomato Sacro, vicino alla foce del Ponto e lunge da Calcedone dugento sladj; quivi sbarcate le truppe ed ascesi alcuni colli sceglievi il luogo da ordinarle a battaglia. Licinnio uomo assuefatto ad ogni pericolo, quantunque vedesse il nemico entrato nella Bitinia, manda tuttavia chiamando Martiniano da Lampsaco, ed esortate le milizie, col dir loro ch’egli precederebbele, forma lo schieramento, ed uscito della città muove ad incontrare il suo competitore già in armi. Datosi principio a sanguinosa battaglia ne’ luoghi posti infra Calcedone ed il tempio, Costantino, avendo assai maggiori forze, affrontata dt gran cuore la contraria fattone recolle cotanto eccidio che da centrentamila combattenti a pena trentamila ebbero salva la vita. Dopo questo aringo i Bizantini aprirongli tosto le porte, imitati in seguito dai Calcedonj. Il vinto Licinnio col resto de’ cavalieri e delle poche milizie pedestri dirizzò il passo a Nicomedia.

Un Persiano frattanto, nomato Ormisda e di stirpe regale, presentossi all’imperatore Costantino, ed eccone il perchè. Mentre suo padre monarca della Persia celebrava, giusta l’usanza del paese, il proprio natalizio giorno, Ormisda entrò nella reggia portando seco molta cacciagione. I convitati astenutisi affatto dall’onorario, né surti, come doveano, egli montato in collera proferì che avrebbeli colla morte di Marsia gastigati. Da molti quel parlare in gergo non fu compreso; ma un Persiano, che dimorando in Frigia udito avea la istoria di Marsia, spiegò loro il significato delle udite minacce. Eglino allora scolpitele ne’ loro animi e non a pena spento il monarca ricordevoli dell’avvenuto, mettono sul trono il minor fratello, quantunque fossevi legge che imponeva d’inalzare al supremo potere infra la regale maschile discendenza il primogenito, e rinchiudono Ormisda coi ceppi ai piedi in carcere posta sopra un colle rimpetto alla città. Passato qualche tempo la consorte accingesi a liberarlo nel modo seguente. Pigliato un grosso pesce introducegli nel ventre una lima, e cucitane la pelle consegnalo ad un fedelissimo eunuco perchè lo porti ad Ormisda col avviso di non mangiarlo che trovandosi affatto solo, e di prosittare ad un tempo di quanto rinverragli nel ventre. Manda poscia camelli carichi di vino e ciòi alle guardie del prigioniero, onde pur eglino diensi a gozzovigliare. Mentre poi costoro sedeano consumando que’ ciòi Ormisda trinciato il pesce e vedutavi la lima rompe con essa i ceppi de’ suoi piedi, e vestita la veste dell’eunuco, esce passando in mezzo agli avvinazzati carcerieri, ed accompagnato da altro degli eunuchi arriva presso al re degli Armeni suo amico ed ospite, il quale di poi gli somministrò mezzo di riparare appo Costantino, da cui ricevè ogni dimostrazione di amore e benevolenza. Così avvenne il fatto, come narrato lo abbiamo.

Licinnio, assediato anche in Nicomedia dal nemico esercito, vedendosi pienamente in difetto di abiti ed a bastanza copiosi militi per combattere, privo d’ogni speranza, uscito di quelle mura, si presentò supplichevole a Costantino: e recatagli la porpora nomandolo signore e monarca, gli addomandava perdono delle passate faccende, ben sapevole di ottenerne la vita, promessa fatta con giuro alla consorte, a suo nome venutagli innanzi ad implorarla. Costantino poi consegnò Martiniano a suoi militi coll’ordine di ucciderlo, e relegò Licinnio a Tessalonica; non di meno poco dopo, rendutosi spergiuro (facile a cadere in simili colpe14), tolsegli di laccio la vita.

Tornata la Romana signoria in mano del solo Costantino egli non più studiavasi celare quella malizia in retaggio avuta dalla natura, e tolto il freno alla cupidigia del suo animo tutto adoperatasi per gingnere all’assegni mento d’un assolato dispotismo. Ricorrea dunque ai paterni riti15 non tanto colla volontà di onorarli, quanto da necessità costretto, prestando fede agli indovini, se eranvene di esperti, siccome a coloro, i quali predetto aveangli il vero intorno alle sue felici imprese. Calcato poscia il suolo di Roma, fattosi arrogantissimo, dalla stessa propria famiglia opinò dar principio alla empietà sua, morendo, senza riguardo veruno, il figlio Crispo, eletto cesare, in ordine al narrato, e cadutogli in sospetto di avere famigliaritadi colla matrigna Fausta16; se non che a malincuore comportando sua madre Elena la uccisione del giovine, mostrandosene addoloratissima, quasi a consolarla riparò ad un male con altro peggiore, ordinato avendo lo scaldare oltre misura una stufa, e rinserratavi Fausta di là trassela morta17. Rimordendogli poi de’ commessi delitti e della spregiata santità de’ giuramenti la coscienza presentatosi ai flamini18 addimandavane la espiazione19. Rispostogli da costoro non avervene alcuna per lavare così turpi nefandigie, un Egizio di nome ed originario della Spagna, trasferitosi a Roma e stretta colle palatine donnicciole amicizia, per mezzo di esse ottenne licenza di presentarsi all’imperatore, e seco lui ragionando chiarirlo come la religione de’ cristiani avesse facoltà di cancellare qualunque misfatto, promettendo ai colpevoli che abbracciandola ne verrebbon tosto assoluti. Costantino, uditone piacevolmente il discorso, ponendo in non cale i paterni riti, e gustate le speranze offertegli da Egizio, diede principio alla sua empietà coll’avere in sospetto la divinazione.

Imperciocchè sebbene a lei ricorrendo predette fossergli molte sue avventurose geste, avverate in seguito dagli eventi, dottava a un tempo non pronosticasse ad altri, consultandola, quanto di sinistra accedergli potrebbe; laonde stimolalo da tal pensiero deliberò abolirla. Al qual uopo giunto un dì, secondo la paterna consuetudine festivo, in cui l’esercito montar dovea sul Campidoglio, pervenutovi pur egli, con oltraggiose parole insultandolo, e conculcando i sacri riti si fe’ odioso al popolo ed al senato.

Dopo di che più comportar non potendo le imprecazioni, quasi dissi, mandategli dall’universale, iva in traccia d’altra città non inferiore a Roma ove stabilire, costruitovi un palazzo, la sua dimora. Trovandosi pertanto infra la Troade e l’antico Ilio, e rinvenutovi luogo idoneo alla divisata fabbricazione, s’accinse all’opera innalzandovi qualche parte di muro, visibile anch’oggi navigando verso l’Ellesponto. Se non che, avutone ben presto pentimento20, abbandonolla perfetta, e condottosi a Bizanzio, maravigliandone la posizione, risolvè ampliarla grandemente e renderla sede non immeritevole d’un monarca. La città sorge in colle sopra la parte dell’istmo formato dal cosiddetto Cera o Corno, e dalla Propontide; altre volte aveavi colà una porta, ove appunto finiscono i portici eretti dall’imperator Severo, dopo calmato il suo sdegno contro de’ Bizantini per avere ospitato Nigro suo nemico. Dalla banda occidentale lungo la china del colle eravi un muro che terminava al Tempio di Venere ed al mare dirimpetto a Crisopoli. Altro muro a simile dall’Aquilonare colle in iscesa toccava il porto, nomato Darsena, e il mare che in linea retta bagnane l’entrata e donde mettesi alla vela per l’Eussino Ponto, la quale area di terreno, certamente augusta sino al Ponto, agguaglia forse in lungo stadj trecento21; non maggiore da prima era la grandezza della città. Ma Costantino laddove un tempo esisteva la porta fattovi un rotondo foro22 con portici all’intorno, vi costruì due amplissimi archi di marmo Preconesio, l’uno di prospetto all’altro, e conducenti così ai portici di Severo come fuori della pristina città. Nè pago ancora della estensione datale attorniolla di nuovo muro lontano dal vecchio oltre quindici stadj, racchiudendo con esso tutto l’istmo da mare a mare. Rendutala con tale mezzo molto più vasta di quanto fosse per lo addietro fabbricovvi il suo palazzo ben poco inferiore al Romano. Abbellì eziandio sommamente l’Ippodromo aggiugnendovi il tempio intitolato ai Dioscuri23, i coi simulacri ritti in piedi veggonsi tuttora ne 1 portici; locò in altra parte il tripode ed il simulacro d’Apollo Delfico. Vastissimo poi essendo il foro e da quattro portici rinserrato, all’estremità dell’uno, ove per giugnere salir devonsi non pochi gradi, eresse due templi mettendo nel primo il simulacro di Rea, madre degli Iddii (situato ab antico, da coloro che nella navigazione accompagnarono Giasone, sul monte Didimo, a cavaliere della città di Cizico), e narrano essere stato da lui, spregiatore alla impazzata delle cose divine24, mutilato, levandogli da ambe le parti i leoni e cangiandone l’atteggiamento delle mani. Conciossiachè per lo addietro si parea tenesse quelle belve, ed ora lo vedi supplichevole osservare, dirizzativi gli occhi, la città. Nel secondo tempio locò il simulacro della Romana Fortuna. Oltre a ciò seguito, abbandonando Roma, da parecchi senatori, provvideli di nuove abitazioni. Trasandato fra questo mezzo ogni bellico pensiero, i Taifali, scitica nazione, con cinquecento assalito avendo le imperiali frontiere egli non ischierò lor contro milizia veruna, ma perduta eziandio la maggior parte dell’esercito, ed osservando i nemici spintisi a guastare da per tutto insino al suo vallo, provvide sollecitamente colla fuga alla propria salvezza.

Messe da banda le cure guerresche e datosi a voluttuosa vita distribuì al popolo Bizantino la pubblica annona di conformità alla costumanza sin qui sempre in vigore, e consumando il pubblico danaro in disutili edificj eressene parecchi ben presto andati in malora, poiché, stati essendo frettolosamente condotti a termine vano era lo sperarne durata. Travolse di parità gli antichi uffizj de’ magistrati, ed eccone pruova: in prima due erano i prefetti del pretorio, eseguendone di concordia le funzioni, ed a! potere ed alla soprantendenza loro soggiaceano così i militi palatini, come queglino a guardia della città, e quanti aveano stanza in tutti li confini. Questa magistratura inoltre, tenuta la più autorevole dopo l’imperatore, distribuiva l’annona e con opportuni gastighi ammendava le trasgressioni della militare disciplina.

Or dunque Costantino, sovvertitore delle buone ordinanze25, diviso tale uffizio, uno essendo, in quattro governi, assegnò a un prefetto del pretorio tutto l’Egitto con la Pentapoli della Libia, l’Oriente infino alla Mesopotamia, ed inoltre i Cilici, i Cappadoci, gli Armeni e tutta la marittima piaggia dalla Pamfilii a Trapezunte ed ai castelli vicini alla Faside, unitavi a simile la Tracia e la Alisia, circoscritta dai confini de’ monti Emo e Rudupe e della città Doberi; aggiuntovi di più Cipro e le isole Cicladi, eccettuate Lemno ed Imbro e la Samotracia. Diede al secondo il governo de’ Macedoni, de’ Tessali, de’ Cretesi, della Grecia colle isole circostanti, d’ambo gli Epiri, degli Illirj, e Daci, e Triballi, e Pannonj insino a Valeria ed alla Mista superiore. Pose il terzo al reggimento di tutta l’Italia, della Sicilia colle prossimane isole, della Sardegna, della Corsica e dell’Africa dalle Sirti fino a Cirene. Il quarto in fine ebbe i Celti di là dalle Alpi, e gli Ispani coll’isola Britannica. Scompartita non altramente l’autorità de’ prefetti applicossi con diligenza a scemarla vie più in altre guise. Conciossiachè per lo innanzi avuto avendo in ogni luogo le truppe a comandanti non solo i centurioni ed i tribuni, ma pur anche i duci (tale nomavinsi coloro destinati ovunque a far le veci de’ pretori), ora istituiti i maestri de’ militi ed a chi di essi fidata la presidenza de’ cavalieri, a chi de’ fanti colla facoltà di ammaestrarli e punire, anche da questo lato minorò d’assai tali magistrature. Quanto poi fosse il danno recato dalle antedette novità, in tempo così di pace come di guerra, incontanente dalla mia narrazione addiverrà palese. Allorchè i prefetti del pretorio col mezzo dei loro subalterni riscuotevano da per tutto i tributi e pagavano con essi le truppe aveaole sommesse alle punigioni, comunque giudicato le avessero espedienti, di cui eransi fatte meritevoli; poichè giustamente riconoscendo in colui dal quale riceveano vitto e soldo il diritto di reprimerli, guardavansi assai bene dalle azioni contrarie alla militare disciplina per timore non venisse loro tolto il cibo o dato altro gastigo. Differenti ora essendo il pagatore ed il soprantendente alla osservanza delle militari leggi, tutti la fanno da padroni; nè tacerò che la maggior parte dell’annona va a riempire le scarselle del comandante e de’ suoi ministri.

Egli permise inoltre ai barbari di calcare il suolo della Romana signoria. Imperciocchè sotto Diocleziano state essendone prudentemente le frontiere ovunque afforzate, come narravamo, di città, castella e borgate, ed avendovi in ciascheduna di esse guernigione, i barbari non poteano mettervi piede accorrendo le truppe da ogni parte a respignerli. Ora toltivi que’ presidj per trasferirne il più in cittadi affatto libere da ogni timore, e portarvi ad uno il contagio della milizia, lasciò senza difesa quelle molestate dai nemici; di maniera che hannovene già molte abbandonate dai loro abitatori, e gli stessi militi datisi ai teatri ed ai piaceri addivennero fievoli ed effeminati. A parlare schietto, fornì principio e sementa alla rovina degli affari, trascinati dì continuo sulla via del peggioramento.

Egli nomato cesare il figlio Costantino, unitamente ad esso ed a Costanzo e Costante, ambo sua prole ed ancor questi fregiati dell’egual titolo, riuscì così bene ad accrescere la magnificenza di Costantinopoli, grandissima città, che, lui spento, molti principi, stabilitavi lor dimora, attiraronvi gente in numero assai più alto di quanto porta l’usanza, la quale da ogni parte v’accorse per dedicarsi alla milizia, alla mercatura, ovvero sia ad altre occupazioni. Laonde e nuove mura a maggiore intervallo di quelle già inalzate la circondarono, e tale affoltaronsi i contigui fabbricati che i cittadini trovano di soverchio anguste tanto le proprie cose quanto i crocicchi, non essendo loro permesso il camminarvi senza pericolo a motivo dello sterminalo numero degli uomini ed animali. Nè piccola porzione del vicino mare dovè cedere il suo letto, ove, sopra pali conficcativi, sursero edifizj bastevoli disperse a formare una vasta città.

Spesse fiate di vero non ho potuto a meno di restar maravigliato come avvenisse cotanta dilatazione della città Bizantina, altra non avendovene cui agguagliarla vuoi per la prosperità sua, vuoi per ampiezza, senza che vaticinio alcuno predicessene ai nostri antenati l’aggrandimento e la miglior fortuna. Il qual pensiero, mentre da pezza occupava la mia mente, indussemi a svolgere molti storici libri e pur molte raccolte di Oracoli. Passato qualche tempo in questa dubbiezza, m’avvenni alla per fine ad una profezia ritenuta della Sibilla Eritrea, o della Epirotica Faellone (correndo fama che pur ella, inspirata dal Nume, proferisse Oracoli, ne’ quali confidatosi Nicomede, figlio di Prusia, interpretandoli a suo favore e seguendo i consigli di Attalo, mosse guerra al padre. Eccone la divinazione;

26 Accipies Thracum rex in balantibus urbem,
Unguibus atque uncis magnum, horribilemque leonem
Augebis, patriæ: quondam cimelia terræ,
Qui rapiet, terra potietur et absque labore.
Sed non aio diu te sceptris perfruiturum
(Quippe canes urgent utrimque), sed bis spoliandum.
Sopitumque lupum uncunguem dirumque ciebis.
Namque vel inviti cervices sub juga mittet.
Tunc quoque Bìthynos vexabit turba luporum,
Consilio Jovis; et mox regia sceptra tenebunt
Magna qui veteris habitant Byzantis in urbe.
Felix Hellesponte, et mœnia condita divis.
Imperio superum, .....

Quam lupus ille gravis tamen invitus trepidabit.
Norunt me, nostris habitant qui sedibus. Haud jam
Amplius ipse animum celabo parentis, aperte
Mortali generi divina oracula pandens.
Thressa malum tellus ingens partit et prope partus:
Usu nempe malam sobolem pariter feret illi.
Ad latera adjunctae ponto telluris et ulcus
Prætumidum crescet, cito ruptum sanguine manans.


Quest’oracolo certamente comprende, valgami il dirlo, tutto quanto si può bramare in proposito, con oscure voci indicando i mali sovrastanti ai Bitinj per la gravezza de’ tributi loro imposti ne’ consecutivi tempi, ed il trasferimento di quel dominio a coloro,

Magna qui veteris habitans Byzantis in urbe.

Dall’essere poi trascorsi non pochi secoli prima dell’avveramento delle antedette predizioni a torto fantasticheremmo volersi l’Oracolo ad altri eventi riferire. Poiché ogni tempo è breve pel Nume, il quale mai ebbe principio nè va soggetto e fine; ciò è quanto raziocinando ho potuto raccogliere. Ma se ad alcuno paia interpretare differentemente la sentenza racchiusa nelle parole dell’Oracolo, nulla ho da opporgli.

Costantino del resto compiute le antedette faccende incessantemente dava fondo alle rendite dello stato col dissiparle in largizioni agli indegni e disutili, non già ai meritevoli, rendutosi ai tributarj molesto di ricchezze colmando inutile gente, e colla prodigalità scambiando la munificenza27. Assoggettò parimente ad un balzello d’argento e d’oro28 gli impiegati in ogni maniera di traffico, ed i rivenduglioli della città, non eccettuatine que’ più vili, nè da esso andavan tampoco esenti le cenciose meretrici. Laonde all’avvicinarsi d’ogni quarto anno, epoca destinata al pagamento della imposta, l’intera Costantinopoli non presentava che lagrime e pianti; arrivato poi il tempo della riscossione con isferzate e tormenti cruciavansi le membra di coloro che, oppressi da estrema povertà, inetti erano a sostenere cotanto peso. Nè basta: le madri vendevano la prole maschile, ed i padri prostituivano lor pulzelle, costretti coll’oro e l’argento ricavatone a soddisfare gli esattori della gravezza. Annoiava infine i più doviziosi nominandoli pretori, e sotto coperta della conferita onoranza pretendevane moltissimo danaro. Ogni volta pertanto che i diputati a questo ufficio mettevan piede nella città, riparavan tutti presso straniere genti, ciascheduno paventando, essere inalzato ad onorevole magistratura con detrimento della propria sostanza. Egli notato avendo i patrimonj de’ più illustri personaggi, pose loro un tributo chiamato da lui φόλλιν29, e con tutte queste gravezze dispopulò le cittadi. Imperciocchè durate essendo lungamente ancor dopo sua morte, a poco a poco venutane meno la opulenza, molte abbandonate furono dagli abitatori.

Costantino dopo aver danneggiato la repubblica nelle antedette guise da malattia fu spento. I suoi figli succeduti all’impero, tre solamente di numero e non generati da Fausta30, prole di Massimiano Emilio, ma da altra, che d’avolterio incolpata fatto avea morire, ben poco attendevano, giusta la consuetudine giovenile, agli affari, anteponendo i piaceri del corpo ai pubblici vantaggi. Eglino a prima giunta si divisero le nazioni, e Costantino anzinato con Costante ultimo di essi ebbero in sorte i luoghi posti di là dalle Alpi, l’Italia e l’Illirico; di più quelli a confine del Ponto Eussino e quanto in Africa pertiene a Cartagine. I possedimenti poi nell’Oriente, nell’Egitto e nell’Asia toccarono a Costanzo. Erano a simile in qualche modo partecipi dell’impero Dalmazio, nomato cesare da Costantino, ed il fratello Costanzo ed Anaballiano, i quali vestivano purpurea veste con aurei lembi, dallo stesso imperatore stati essendo fregiati, in riguardo alla parentela, dell’onoranza detta Nobilissimato31.

Diviso in questo modo l’impero, Costante quasi a bello studio spiando tutte le occasioni per non mostrarsi inferiore al padre nella empietà, dalla propria famiglia cominciando lo spargimento del sangue render volle generale testimonianza dell’animo suo virile. Da prima coll’opera de’ soldati procurò la morte del paterno zio Costanzo; tese quindi eguali insidie a Dalmazio cesare, uccidendo unitamente a costui Ottato, promosso alla dignità di patrizio da Costantino, il quale introdotto aveala, promulgando legge che gli ornati del rispettabile titolo sedessero al dì sopra de’ prefetti del pretorio. In allora fu pur tolto di vita Ablabio prefetto del pretorio, giustissima vendetta per aver egli tramato la morte al filosofo Sopatro, invidiando la dimestichezza usatagli da Costantino; e come se trasportato fosse agli impeti dell’ira contro di tutto il suo parentado, aggiunse a costoro Anaballiano, sedotto avendo le truppe a gridare ch’elle comportar non potevano l’impero in altre mani salvo quelle de’ figli di Costantino. Tali furono le azioni di Costanzo.

Ebbevi quindi contesa infra Costantino e Costante per rispetto all’Italia ed all’Africa di Cartaginese pertinenza. Costante dunque opprimer volendo il malaccorto germano32 dissimula un intiero triennio la nimicizia attendendo ch’egli metta piede nella sua fedele e benivogliente provincia, e manda intanto milizie sotto fals’ombra di porgere aiuto a Costanzo nella Persiana guerra, ma realtà coll’ordine di morire Costantino, ed elle obbedendo ai comandamenti dannogli morte.

Costante libero dall’impaccio del fratello inveiva crudelissimamente contro ai sudditi, oltrepassando i limiti della più incomportabile tirannide. Imperciocchè ai compri barbari di avvenente aspetto ed agli altri seco in qualità di statichi, siccome persone dalle quali, mirandole, aescato veniva alla impudicizia, data facoltà di commettere qualunque eccesso a danuo de’ suoi popoli, precipitava le soggette provincie in estreme sciagure. Mercè di che i pretoriani, tollerandone a malincorpo le azioni e vedendolo dedito ai piaceri della caccia, ebbero ricorso ai duci Marcellino prefetto dell’erario ed a Magnenzio cui obbedivano i Gioviani e gli Erculiani {nomi di legioni), i quali insidiaronlo nel modo seguente. Marcellino sotto colore di solennizare il dì natale del figlio invitava a banchettar seco, unitamente a molti distinti personaggi dell’esercito, Magnenzio stesso. Protratta infino alla metà della notte la commessazione, Magnenzio levatosi dal desco, quasi a motivo di urgente bisogno, e brevissimo tempo assentatosi dai convitati comparve loro novamente addobbato, come in iscena, di regale stola. I commensali salutato avendolo re, anche tutta la cittadinanza d’Augustoduno (ove operaronsi di tali cose) fece eco alle acclamazioni loro; vulgatasi poi maggiormente la faccenda eziandio la rusticana plebe a dimora fuori della città in folla accorreavi entro. In pari tempo alcuni Illirici cavalieri, spediti aiutatori delle Celtiche truppe, posersi a parteggiare co’ sollevati. A parlar chiaro, tutti i comandanti delle milizie all’udire le grida mandate dai capi della congiura alzarono concordemente la voce attribuendo a Magnenzio il titolo d’Augusto. Costante vedutosi mal parato cercò salvezza volgendo il passo ad una città, presso del monte Pireneo, nomata Elena; se non che arrestato, privo d’ogni soccorso, da Gaisone speditovi con iscelta gente, fu tosto ucciso.

L’impero unitamente alle nazioni di là dalle Alpi ed all’Italia venuto in poter di Magnenzio, Vetranio condottiero dei Pannonici eserciti conosciutone l’innalzamento al trono fu mosso da egual desiderio, e preconizzato col voto delle sue legioni imperatore stettesi di piè fermo presso Mursia città della Pannonia. In mezzo poi a tali sconvolgimenti i Persiani malmenavano con iscorrerie le Orientali città ed in particolare quelle poste nella Mesopotamia. Costanzo, avvegnachè men forte per guerreggiarli, risolvè tuttavia opporsi alle fazioni di Magnenzio e Vetranio.

Ora mentr’egli rimestava nel suo capo il concepito pensiero, dimorando sin qui Magnenzio nella Celtica, Neperiano, prole d’Eutropia sorella di Costanzo, accozzata quantità di gente datasi ai ladroneggi ed agli eccessi d’una scioperata vita, si accostò a Roma presentandosi agli sguardi altrui con imperiali vestimenta. Laonde Anicezio, elevato alla prefettura del pretorio da Magnenzio, armati parecchi plebei e mandatili fuori della città per combattere Nepoziano, vennero da lui chiamati a sanguinosa pugna, ma costoro non sapevoli di guerra ed inetti a mantenere alcun ordine, senza grande fatica costretti furono a voltare le spalle; il prefetto del pretorio allora, osservatane la fuga e temendo non pericolasse la città serrò le porte, ed i militi di Nepoziano mirati i nemici fuggenti e manchevoli d’ogni mezzo di salvezza dal primo all’ultimo trucidaronli. Trascorsi non molti giorni Magnenzio spedito avendo contro al ribelle un esercito capitanato da Marcellino, cui erano suggette le palatine truppe (il cui duce, nomato è dai Romani maestro degli uffici) fu da esso raggiunto ed ucciso.

Costanzo partito dall’Oriente per mover guerra a Magnenzio pensò convenirgli da prima lo amicarsi Vetranio combattere non volendo insiememente due ribelli, ma uno. Magnenzio a simile con tutto il suo potere procacciavasi la costui amicizia, onde averlo a compagno d’armi nel venire alle prese col nemico. Amenduni pertanto inviarono ambasciadori a Vetranio, il quale preferì di aiutare il primo. Fattisi indietro, perduta l’acconciatura, i legati di Magnenzio, Costanzo addimandava che, di tutte le truppe formato un sol corpo, si tenesse pubblico consiglio intorno alla maniera di condurre la guerra. Vetranio illuso dalle udite parole seco lui ascese una ringhiera a bella posta preparata. Costanzo, in riguardo alla nobiltà del sangue avuta la preminenza nell’aringo, non fece in tutto e per tutto che rammentare alle milizie i paterni larghi lavori e que’ giuri ond’elleno costantemente promesso aveangli di portare affezione alla sua prole, e ad un’otta addimandava loro di non lasciare impunito Magnenzio uccisore del figlio di Costantino, col quale terminato aveano molte guerre e da lui ricevuti amplissimi guiderdoni. A queste rimembranze le truppe, guadagnate da prima con molto danaro, sclamarono doversi toglier di mezzo i bastardi imperatori. Spogliato dunque all’istante della porpora Vetranio e cacciatolo dalla ringhiera lo obbligano a riprendere la sua privata condizione. Costanzo opinando poi non sommetterlo a più gravi pene assegnogli durante la sua dimora in Bitinia l’occorrente ai bisogni della vita. Ove prolungata qualche tempo la propria esistenza libero da cure e brighe abbandonò questo mondo.

Costanzo, riuscitogli, come narrato abbiamo, l’inganno teso a Vetranio, prima di guidare le truppe a combattere Magnenzio nomina cesare Gallo figlio del zio e fratello di quel Giuliano addivenuto poscia imperatore, e disposagli la sorella Costanza o per indurlo ad opporsi ai Persiani, o (pretta verità) per tramargli la morte. Imperciocchè della propria stirpe sol questi col germano rimanea, gli altri tutti, conforme all’esposto, già da lui uccisi. Ornatolo pertanto de’ contrassegni di cesare e commessa a Lucilliano la guerra Persiana, egli muove a combattere Magnenzio colle sue truppe e quelle di Vetranio. Magnenzio a simile, divisando presentargli con maggiore apprestamento guerresco, crea cesare il parente Decenzio incaricandolo di proteggere i popoli di là dalle Alpi. Ragunatisi gli eserciti nella Pannonia e vie meglio avvicinata la città di Mursa, Magnenzio, poste insidie nelle gole prossime alle Adrane, manda spie ai duci di Costanzo, per ritardarne il cammino, annunziando loro che i nemici giugnerebbono a Siscia, nel qual luogo, diceano, Magnenzio proponevasi di venire alle armi avendovi aperta pianura. Costanzo portovi orecchio ed allegratosi non mediocremente della notizia, sapendo che dovea battagliare in luoghi acconci alla cavalleria, avendone copia maggiore del nemico, diressevi l’esercito. I militi allora posti in aguato per quelle strette assalendone con impeto le truppe, che procedevan oltre inermi e senza ordine veruno (non temendo onninamente insidie) e quasi tutte lapidatele, impedirono loro di venire avanti.

Magnenzio fatta di esse strage, vanaglorioso al sommo d’impresa tanto bene condotta, e pigliato seco l’esercito camminava alla volta della Pannonia: arrivato ai campi altre volte siti innanzi a Cio, e divisi nel mezzo dal fiume Drao, il quale, trascorrendo i Norici ed Pannonj mette foce nell’Istro, guidava presso questi ultimi l’esercito divisando chiamare a battaglia il nemico in vicinanza di Sirmio. Corre poi voce che Magnenzio non desse alla madre ascolto, la quale dissuadevalo dal battere quel sentiero e dal metter piede nell’Illiria, sebbene per le molte predizioni de’ tempi andati ritenessela indovina. Ora, mentr’egli stavasi deliberando33 se, gettato un ponte sopra il fiume Sao, valicarlo dovesse, o con barche insieme unite procurarne il transito alle milizie, Costanzo mandagli Filippo duce prudentissimo ed uno de’ più elevati in grado, onde sotto finta di pacifici colloquj ed accordi osservassene accuratamente le truppe, indagasse i divisamenti di lui intorno al governo della guerra, e quali strade e’ pensasse calcare. Filippo, non dilungatosi ancor molto dal campo, s’avviene a Marcellino, personaggio autorevolissimo appo il rivale, ed avviansi di compagnia ad eseguire la mandata. Magnenzio, ragunato l’esercito, ordina a Filippo di manifestare il motivo di sua venuta, e questi allora voltosi alle truppe: Non convenire, disse, a Romani sudditi l’imprender guerra contro de’ Romani stessi, e vie meno imperatore essendo il figlio di Costantino, sotto il cui reggimento cretto aveano molti trofei per vittorie sopra de’ barbari conseguite; quindi a Magnenzio dirizzando la parola, aggiugneva: Voler giustizia ch’ei veneri la memoria dì Costantino, e rammenti i beneficj da lui così alla sua persona come ai parenti derivati, il possesso di quell’amicizia stato essendogli sorgente di grandissime onoranze. Dopo tali osservazioni esortavalo a partire dall’Italia ritenendo i popoli di là dalle Alpi, ed avendo sopr’essi tutta la imperiale giurisdizione.

Il costui ragionamento per poco non turbò l’intero esercito. Laonde Magnenzio intimoritosi e durando molta fatica ad ottenere che la commossa truppa consentissegli dare qualche risposta, dichiarò essere pur egli amante della pace, e, tosto comandò che si ritirasse l’adunanza, volendo intrattanto ponderare le avute proposte, riserbandosi a far palese nel seguente giorno la sua determinazione. Separatisi tutti, Marcellino accoglieva Filippo siccome quegli che albergarlo dovea. Fra questo mezzo Magnenzio iva nel suo capo ravvolgendo se convenissegli accommiatare il legato senza decidersi a nulla, o pure, violando il diritto de’ nunzj, ritenerlo. Estimò dunque invitare a cena i prefetti delle coorti, i decurioni e quanti altri aveano comando sopra le milizie, e seduti al desco renderebbeli partecipi della sua intenzione. Eseguilo il fatto divisamento Magnenzio col nuovo giorno tornato a ragunare l’esercito ricordògli tutte le vessazioni sofferte da Costante nello stato d’ebbrezza. Di più aggiugnea che le stesse truppe mal comportando le indegnità colle quali per iscelleraggine ed oltraggio molestava la repubblica, venute erano ad un parere spediente all’universale, quello, intendendomi, di liberare le città dalla crudele belva, ed offrire a lui, sebbene renitente, l’impero.

A tali parole fu unanime lo schiamazzo di proseguire la guerra, ed impugnate subito le armi dì recarsi a tragittare il Sao. Ma gli esploratori nemici annunziato avendone la venuta, l’intera guernigione della città di Siscia, occupata la ripa del fiume, avventava quadrella a chi tentasse approssimarmi o valicare il punte: di maniera che molli giuntaronvi la vita, o di per sè o dal nemico spinti, precipitando in quelle acque. Dopo gravissima strage tali cadendo, nel fuggire, dal ponte, e tali venendo con assai forte impelo dall’avversario perseguitati; Magnenzio ridotto ad un male estremo, col seguente artifizio evitò il gravissimo pericolo. Conficcata l’asta nel suolo ed accennando colla destra ai nemici quasi la intenzione di fare pacifiche proposte, allorché vide pronte le orecchie ad ascoltarlo, narra di essersi accinto, coll’imperiale consenso, a trapassare il poule, avvisato da Filippo che, abbandonata l’Italia ed i Norici, trasferirsi dovea nell’Illirico, e colà trattare degli accordi. Costanzo allora, chiamati indietro i suoi dall’incalciarne le truppe, accordò a Magnenzio di condurre l’esercito ne’ campi tra il Norico, la Paulonia, la Misia e la Dacia, pensando liberarsi dagli ingombri luoghi ed espugnarlo sopra terreno più adatto alla cavalleria, possedendone egli copia maggiore. Per mandare poi ad effetto questo suo samento ritenne opportunissima Cibali, dove anch’egli Costantino, venuto a battaglia con tutto l’esercito, vinse Licinnio. Poiché la città situata essendo come nel raccontare gli eventi di quel tempo ho esposto, racchiudeva nelle sue mura parte delle truppe, e formata una circonvallazione tra il colle sopra cui ella è sita e la pianura infino al Sao, tutto lo spazio non cinto dal fiume munito lo avea di profonda fossa e di fitto palancato: nell’intervallo inoltre circondato dal Sao formò, con navi insieme unite, un ponte, da guastarsi all’uopo e ricomporre senza fatica veruna. Quivi da per tutto eresse le militari tende, e propriamente nel mezzo inalzovvi l’augustale; campo nulla inferiore a grandi città ed assai elegante. Quando l’imperatore invitava alle cene i condottieri degli ordini e delle coorti, i soli Latino e Talasso34 non partecipavano la imbandigione, per Filippo dolenti, il quale inviato a Magnenzio sotto pretesto d’ambasceria, era presso di lui ritenuto.

Mentre costoro intrattengonsi a deliberare, giunto in Roma Tiziano, dell’ordine senatorio, prorompe in superbe voci, così da Magnenzio comandato, offendendo Costantino e la prole di lui con mille vituperj, ed attribuendo la rovina delle città alla infingardaggine cui egli abbandonossi nel suo reggimento; ordinava quindi a Costanzo di cedere l’impero a Magnenzio chiamandosi per contento se questi permettessegli di menare vita tranquilla. Costanzo rispondea che, invocato il Nume e la Vendetta, onde punissero gli autori della morte di Costante, con siffatti aiuti intraprenderebbe la guerra; così parlato accordò a Tiziano la facoltà di partire, sebbene Filippo ritenuto fosse tutt’ora dal nemico. Magnenzio dunque uscito a campo col l’esercito, e col primo assalimento impossessatosi di Siscia la distrusse. Scorrazzata di poi tutta la regione prossima al Sao, e raccoltovi immenso bottino calcò la via di Sirmio, estimando occuparla senza versamento di sangue. Ma fallitogli il colpo e ributtato da quelle mura (difese dagli abitatori, numerosissimi, e dal presidio) incamminossi colle truppe a Mursa. Pur quivi i cittadini chiusegli le porte e rinserratisi nelle bastie, Magnenzio non sapea risolversi alla scelta del mezzo per conquistarla. Imperciocchè mancante affatto di macchine, non potea in altro modo vie più avvicinarne le mura, il nemico dall’alto scagliandogli contro dardi e sassi. Pervenuta intanto a Costanzo la nuova di quell’assedio v’accorrea coll’intero esercito, premoroso di recar soccorso alla pericolante città, oltrepassato già avendo Cibali e tutto il suolo bagnato dal fiume Drao.

Magnenzio frattanto appressatosi maggiormente coll’esercito a Mursa ne incendiava le porte, sperando, consumato il ferro sovrapposto al legno, aprirvisi un’entrata, ma pur troppo indarno; i difensori delle mura col gittarvi acqua in grande abbondanza estinguendone le fiamme. Allorchè poi riseppe essere Costanzo ben poco lunge di là inventa nuovo stratagemma, che prendo a narrare. Avanti ad essa eravi uno stadio fatto in ogni sua parte ombroso da boscaglia e destinato altre volte agli esercizj de’ combattimenti in armi. Egli, ascosevi entro quattro schiere di Celti, comandò loro che, arrivata l’oste nemica e datosi principio all’aringo innanzi alle mura, improvvisamente l’attaccassero, e, toltala in mezzo, ne menassero grandissima strage. Costanzo avutone cenno dagli assediati vi mandò tosto i duci Scolidoa e Manado, i quali, dall’intera milizia sotto i loro ordini scelti ì più coraggiosi infra gli armati alla greve e gli arcadori, chiusero tutte le porte dello stadio, ed ascesine i gradi superiori cominciarono a balestrare co’ dardi quanti stavatisi in aguato là entro. Taluni dei rinserrati allora, cogli scudi riparate le teste, furzavansi di romperne le porte, ma investiti anch’eglino da incessanti quadrella e spade, tutti giuntaronvi la vita. Mandate a nulla, con sì opposto artifizio, le insidie di Magnenzio, e venuti gli eserciti a tiro d’armi nella pianura sita ai avanti Mursa le due fazioni battagliarono con tale accanimento da non averne prima di questa guerra altro esempio, molti da ambe le parti cadendovi spenti35.

Costanzo dunque considerando trattarsi d’una guerra civile, dalla quale non potea con propria soddisfazione riportar vittoria, e vedendo ridotto l’esercito, per la gradissima strage sofferta, alla condizione di non essere più idoneo a raffrenare i violenti assalti de’ barbari accolse il pensiero di metter fine alla guerra con pacifiche proposte. Mentre poi v’applicava sua mente gli eserciti proseguivano la battaglia, quello di Magnenzio, trasportato da maggior furore, non volendo far tregua neppure sopraggiunta la notte, postisi gli stessi duci a compiere le funzioni del soldato, ed animare i loro subalterni a vincere di forza il nemico. I comandanti a simile delle truppe di Costanzo rammentavano ad esse l’antico valore e la gloria Romana. Era già notte ben avanzata, ed impertanto non cessavano dal ferirsi a vicenda con aste, spade o arma comunque presentatasi loro alla mano: nè le tenebre, od altro che solito a produrre quasi un riposo dalla pugna, riuscivano ad impedire che le truppe scambievolmente infierissero sterminandosi, e ritenendo felicità somma l’essere per intiero distrutte. Molti degli stessi duci, dopo chiarissime geste caddero, ed infra questi Arcadio, comandante degli Abulchi, e Menelao, condottiero degli Armeni arcadori in sella.

Qui è uopo non passar con silenzio quanto vien detto intorno a Menelao. Egli, così il pubblico grido, caricava ad un tempo il suo arco di tre strali, e con solo un tiro non già unicamente un corpo, ma tre ne colpiva; e di tal modo non basso numero de’ nemici ebbe morte, e son per dire a lui soltanto doversi la fuga del resto. Romolo eziandio vi periva, il quale sebbene da Menelao trafitto di dardo non si rimase con tutta la piaga dal combattere infinattanto che giunse ad uccidere il suo feritore.

Dichiaratasi la vittoria per Costanzo, al dare l’esercito nemico le spalle ebbevi grande sterminio d’uomini, cavalli ed altri giumenti. Magnenzio, privo affatto dì speranza e temendo essere dalle reliquie de’ suoi consegnato al rivale, stabilì, abbandonati que’ luoghi della Pannonia, correre in Italia, ed ivi raccolte nuove truppe ritentare la sorte delle armi. Se non che avuta notizia del Romano parteggiare a pro di Costanzo, o per odio verso alla sua persona, o perchè vulgato si fosse l’evento della battaglia, risolvè passare le Alpi e procurarsi qualche soccorso tra quelle nazioni. Ma poscia inteso che l’avversario mediante splendidissimi dono renduti aveagli nemici i barbari vicini al Reno, ed eragli inoltre chiuso l’accesso alle Galliche genti da parecchi duci bramosi di meritare presso Costanzo, impossibile addivenutogli similmente il passaggio dagli Ispani ai Mauri, cercando pur eglino, federati de’ Romani, guadagnarsi l’imperiale favore, preferì, come il miglior de’ partiti, una volontaria morte ad una turpe salvezza, anzi di propria mano36 levandosi di vita che dal nemico attendere la sua fine.

Magoenzio così terminò la mortale carriera dopo un regno di tre anni e sei mesi La sua prosapia originava dai barbari e soggiornato avea presso Leti, gallica nazione. Applicossi alle latine lettere, fu audace irridendogli la fortuna, timido nella contraria, ed artefice maraviglioso nel celare per modo la sua connaturale malizia che semplice e buono appariva ignorandone l’indole ed i costumi. Tali notizie intorno a Magnenzio sì opinò conveniente di qui riferire, paruta essendo altrui la durata del suo impero alla repubblica vantaggiosa, onde sappiasi non aver egli fatto di proposito bene alcuno.

Decenzio, chiamato in aiuto da Magnenzio e già in cammino alla volta d’Italia, non a pena uditine i sinistri, all’incontrare compagnie e turme di militari uscito d’ogni speranza di salvezza, attortosi un laccio al collo si fe’ cadavere.

Costanzo per queste vicende giunto al possesso di tutto l’impero, nè potendo moderatamente usare di cosi prospera fortuna, crebbe in arroganza. Laonde aumentavansi le officine de’ calunniatori37, i quali mai sempre circondando tali personaggi tendono insidie specialmente a coloro che sembrano vie più dalla sorte favoriti, onde, cacciatili dal possesso della goduta felicità, riportarne le onoranze col rivolgersi a macchinare lor contro imposture38. Eglino dunque legatisi con altri malfacenti aulici eunuchi, ponendo mano ad assalire Gallo persuadono a Costanzo che suo zio dal paterno lato, cesare di onoranza e non contento del suo grado cercava mezzo di ascendere il trono. Del che assicurando l’augusto, come di pretta verità, spingonlo ad insidiargli la vita. Gli autori di questo tradimento furono Dinamio e Picenzio, uomini di bassa coudizione, i quali sforzatosi non altramente di sorgere ad uno stato migliore. Parteggiava con essi in tali mene anche Lampadio prefetto del pretorio, sempre desideroso di ottenere presso l’imperatore autorità e potenza superiore a magistrato qualunque. Costanzo, reputata verità l’inganno, manda per Gallo39 ignaro affatto di quanto vorrebbesi da lui, ed al presentarglisi spoglialo dell’onoranza di Cesare; quindi ridotto a menare vita privata lo consegna ai carnefici perchè abbia morte; non primo delitto commesso verso il sangue de’ suoi, ma da aggiugnersi alla serie di altri non pochi.

  1. Perdutesi alcune pagine di quest’opera, a riparare alla mancanza loro (non trovandovisi parola di Caro e della sua prole), onde il filo della istoria non rimanga interrotto, supplirò compendiosamente il difetto riportando quanto leggiamo in altri autori. — A Probo successe Caro, il quale postosi in cammino per guerreggiare i Persiani, ed arrivato insino a Ctesifonte venne impaurito dallo stesso nome di quel monarca. Per malattia in seguito, o, come alcuni pretendono, colpito dalla folgore, passò di questa vita. Ebbe due figli, Numeriano (giovine di ottima indole e dal cui reggimento la repubblica potuto avrebbe sperare grandissima prosperità se Apro non avesselo morto), e Carino (bruttatosi dell’infamia di adulterj, di libidini, di lussuria e d’ogni altra maniera di vizj). Spento fu da Diocleziano dichiarato precedentemente Augusto. T. S.
  2. Intorno al tempo destinato alla celebrazione de’ giuochi secolari fu da noi esposto quanto si può desiderare nella vita di Severo trasmessaci da Erodiano. L’accennato qui da Zosimo parmi indicare che l’intervallo dall’una, all’altra ricorrenza de’ medesimi comprendesse la più longa età dell’uomo, vale a dire come se unicamente scritto avesse: darsi tali giuochi ogni cento anni, o in quel torno. È uopo inoltre qui avvertire che il nostro Autore non tralascia occasione di far comparire il culto Gentile, opposto al Cristiano, quale causa del celeste favore accordato alle Romane imprese, e coll’averlo posto in non cale essere andato l’impero di male in peggio; il che vedremo più oltre. T. S.
  3. Se ci atteniamo ai Fasti Capitolini, che il Silburgio diedesi la pena di preporre ai minori Greci istoriografi delle cose Romane, questi giuochi non vennero celebrati sotto consolato veruno, rammentandosi in quell’anno i tribuni militari L. Valerio Potilo e L. Giulio, o Giulo, ornati della potestà consolare.
  4. Anteate e Livio narrando che i giuochi secolari eseguiti furono per la seconda volta l’anno quattrocensei dalla fondazione di Roma sotto i consoli M. Popillio per la quarta volta e M. Valerio, può congetturarsi errato il numero che leggiamo in Zosimo e cambiato il nome Popillio con Potito.
    Il nostro ommise la terza celebrazione di tali giuochi nell’anno dalla fondazione di Roma cinquecentocinque, secondo Anteate e Livio, e sotto i consolati di L. Censorino e M. Manilio, di maniera che sembrerebbe avere scrìtto Zosimo Marco Manlio in cambia di Manio Manilio. Non si comprende poi che abbiavi da fare il Puelio, essendo a pena nome di Romana derivazione, se pur usurpato non abbia il posto di Petilio, sotto il consolato del quale, come vedremo in seguito, celebrati furono i secondi giuochi. T. L.
    Consoli essendo, giusta Dione, C. Fornio e C. Giunio Silano, l’anno di Roma settecentrentasette, poichè ai consolali di Censorino o Sabino viene assegnalo l’anno settecenquindici. Con queste annotazioni, che il Silburgio più diffusamente raccolse dai Fasti Panviniani, abbiamo in compendio tutto l’occorrente per intendere Zosimo, e soddisfare al nostro proponimento.
  5. Acciocchè il lettore abbia presente lo scritto da varj autori intorno ai giuochi secolari poniamo qui l’ordine tenuto dai Fasti Panviniani, ne’ quali i primi giuochi rapportaci all’anno dugennovantotto, consoli essendo M. Valerio Massimo Lattucino e Sp. Virgilio Tricosto Celimontano. I secondi all’anno quattrocentotto, sotto i consoli M. V. Corvo II. e C. Petelio Libone Visolo. I terzi all’anno cinquecendiciotto sotto i consoli P. Cornelio Lentulo Caudino e C. Lic. Varo; i quarti all’anno seicenventotto, consoli Emiliano Lepido e Lucio Aurelio Oreste; i quinti sotto l’impero d’Augusto, consoli Lucio Censorino e Manio Manilio.
  6. Abbandonò la porpora in Nicomedia e visse poscia da privato in Solona recandogli diletto l’amenità di quelli orti.
  7. Discese dal trono in Milano; se non che, inetto di emulare nella costanza Diocleziano, presto ebbene pentimento.
  8. Mori in Eborace con fama di principe moderato.
  9. Zosimo confonde Massimiano Emilio con Massimiano o, più correttamente, Massimino, dichiarato cesare ad uno con Severo da Gallerio, poichè ad Erculio toccò la morte di laccio in Marsiglia, come abbiamo da Aur. Vittore. T. S.
  10. Rileggasi il narrato precedentemente intorno a Massimiano Erculio, ov’è riportata da Zosimo con errore la morte di lui. T. S.
  11. Presto si addurranno fatti idonei a purgar Costantino dall’apportagli macchia di misleanza. T. S.
  12. Leonclavio opina essere questo fiume il Tenoro, che depone, a non dubitarne, le sue acque nell’Ebro. T. S,
  13. Il Silburgio, sospettando errato il numero, è di parere doversi scrivere ὀκτακόσιους (ottocento) in vece di ὀγδοήκοντα (ottanta).
  14. S’egli è vero il narrato da altri autori intorno a Costantino, Zosimo a torto gli oppone il delitto di spergiuro, poiché si pare non così da lui violato il sacramento come da Licinnio stesso, il quale, per le continue sofferte disfatte andate di male in peggio le proprie cose, non tralasciò congiuntura di occupare tutta l’impero, sebbene toltogli dal giustissimo diritto delle vittorie, V. Eusebio, Vita di Costantino, lib. I, c. 43; Teod.; lib. I., c. 7. Arroge inoltre essere stato Licinnio contrarissimo ai cristiani, Costantino in cambio proteggendoli sommamente, comportar non potea il vederli, quantunque in possesso del suo favore, esposti alle ingiurie altrui. Nè dicansi immeritevoli di fede questi autori per amore di parte, non andando lo stesso Zosimo esente da tale censura, dichiaratoti nemico implacabile del nome cristiana ed affezionatissimo alle superstizioni de’ gentili. T. S.
  15. Sebbene allora non avesse per anche abolito i paterni riti, con qualche probabilità lo riterremmo assai più favoreggiatore de’ cristiani, accordata avendo loro Una libertà di cui stati erano privi sotto quali tutti gli antecedenti capi dell’impero. T. S.
  16. Tedor., lib. I, c. 5, riferisce Crispo mancato ai vivi nell’anno vigesimo dell’impero dopo aver fatto insieme col padre molte leggi in favore della cristiana libertà, adducendo la testimonianza de’ tempi, ne’ quali venivano sottoscritte, per togliere alle sue parole ogni sospetto d’inganno. T. S.
  17. Così operando il cristiano imperatore seguì l’esempio di Cesare, il quale perfino un sospetto d’adulterio volle rimosso dalla consorte. T. S.
  18. Riferisce Teodoro nel precedente luogo che venne da Costantino consultato Sopatro. T. S.
  19. Qui Zosimo loda a malincorpo Costantino asserendolo di tenero sentimento ad ogni sospizione di male. Riferisce inoltre Zonara (Tom. II, lib. 13, ediz. Parig. de’ Biz. St.) che Silvestro, romano vescovo, da lui addimandato non gli propose la sacra piscina del Battesimo ad espiazione de’ commessi falli, ma per mondarlo della lebbra, che bruttato aveagli il corpo. T. S.
  20. Cominciò a porre le fondamenta d’una città in Sardica, quindi nel Sigeo, da ultimo in Calcedone. Ma le aquile, quasi pronostico d’un futuro impero, pigliate le funicelle (σπάρτα) degli artefici ed oltrepassato il mare gittaronle presso Bisanzio. Il che avvenuto più volte, l’imperatore fattone sapevale e ritenendolo meritamente divino presagio, recasi a Bizanzio, osserva il luogo ed approvatolo muta consiglio, e trasferitivi da Calcedone gli artefici vi costruisce la città nomandola Costantinopoli, e dichiarandone protettrice la Madre divina. (Zonara, tom. II, lib. 13, ediz. Parig.).
  21. Qui si rammenta la descrizione fattane da Dione in Severo, ove, oltre la posizione della città, leggonsi molte notizie meriteroli di considerazione.
  22. Zonara noma il foro Πλακωτὸν, lastricato avendo il suolo di pietre.
  23. Castore e Pollnce.
  24. Zosimo qui parla acconciamente, il cristiano imperatore inalzato avendo questi trofei solo per dimostrare abbattuto il gentilesimo. Volle impertanto si conservassero altre statue di maraviglioso lavoro intendendo non renderle oggetto di culto, ma concedere qualche onoranza alla sublime loro esecuzione. V. Solom., lib. II, cap. 4. T. S.
  25. Il nostro attribuisce a Costantino l’odiosaggine prodotta dalla decadenza a passo a passo del Romano impero. Con riguardo maggiore non di meno addossato arrebbegli tal colpa ripensando quanto sia l’uomo inchinevole, ottenuto il più ampio potere dopo quello imperiale, a cercare in tutti li modi possibili di conciliarsi gli animi della soldatesca, per quindi mettere io iscompiglio, eccitato dalla speranza dell’impero, ogni cosa. E di vero giunto una volta a presiedere così alla militare disciplina, come alla dispensagione degli stipendj, corresi pericolo non egli, colta l’opportunità, valgasene ad ascendere il trono, di nulla manchevole per conseguire l’intento, costringendo le milizie o col timore de’ gastighi, o coll’allettamento de’ premj a secondarlo. Egli dunque riparovvi col solenne proverbio de’ politici: Dividi e comanda. T. S.
  26. Alcuni riferiscono quell’Oracolo ai Turchi, la cui prima sede imperiale fu in Asia occupandovi Prusa città della Bitinia. Di là passata nell’Europa fu stabilita in Adrianopoli città della Tracia, e finalmente venne tradotta a Costantinopoli, ove ancora esiste. T, S.
  27. Non può negarsi lo scialacquamento nello spendere fatto da Costantino, dond’ebbe origine l’arguto motto di Giuliano nel libro intitolato I Cesari, dove nella scena lo presenta interrogato da Mercurio; Ma tu che reputi onesto? Il possedere molla pecunia, rispondi, per largamente donare. T. S.
  28. Evagrio, lib. III, c. 39 della St. Eccl. loda a ciclo Anastasio perchè, lui imperante, fu tolto l’infame balzello. Inveisce poi contro a Zosimo per averne attribuito l’invenzione a Costantino: Ma chi si farà maraviglia di queste iugiurìe, dirò, nelle prime fasce della cristiana religione, mentre il santissimo papa èvvi esposto, fallasi di già adulta e provetta. T. S.
  29. Φόλλις (Follis) è borsa o sacchetto di danaro, onde noto il proverbio: In folle aliquid offerre, cioè, senza spiegazione, confusamente. Questa voce significa altresì una specie di moneta d’oro avente il valore della dodicesima parte della siliqua (altra sorta di moneta, Vita de’ SS. PP. II, 212. Ogni giorno faceva dare al maschio una certa moneta che si chiamava siliqua, ed alla femmina due. La significazione dell’una e dell’altra moneta. V. nelle ff. e C. TU. de auri lustralis collat.
  30. Era certo quella Fausta condannata a morte da Costantino per sospetto di adulterio, poichè dalla concubina Minervina ebbe il figlio Crispo. T. S.
  31. Aveanvi al tempo d’Augusto due titoli di onoranza. Illustris e Clarissimus. Regnando Costantino vi fu aggiunto il terzo: Spectabilis. V. Speculum juridicum. T. S.
  32. Nella foggia medesima è narrato il fatto dal Metafr. d'Eutropio più vicino di Zosimo ai tempi di Costanzo. Ma nel Breviarium Eutropii corrispondente al testo Greco nella edizione del Silburgio havvi qualche mitigazione : Fu oppresso da una fazione militare,. Costanzo piuttosto permettendone che ordinandone la uccisione. T. S.
  33. Poco mancò che non venisse fatto a pezzi dalle truppe. Vedi Zonara, tomo II, edizione parigina. — Vita di Costanzo.
  34. Uomo di maravigliosa libertà, per non dire petulanza, nel favellare. V. Marcell. lib. VI, in principio, tomo 5.
  35. La perdita di Costanzo ascese a trenta mila guerrieri, e quella di Magnenzio a ventiquattro. Pugna sanguinosissima dall’una e dall’altra parte. T. S.
  36. Non volle morir solo ma, facendo segno della vendetta contro al nemico i suoi, ferì il fratello Desiderio, quantunque non mortalmente. V. Zonara, l. c. T. S.
  37. Infra de’ quali Eusebio occupava senza dubbio il primo luogo. Zonara T. S.
  38. Colpevoli di questo vizio meglio i cortigiani che non l’imperatore, come ab antico ebbe a profferire Diocleziano. Ragunansi in quattro o cinque mirando solo ad ingannare il principe coll’esporgli quanto egli debba approvare. Questi, chiuso nella propria reggia e pienamente all’oscuro della verità, non può a meno di attenersi alle false riferte loro. (Vopisco) T. S.
  39. Mandatogli Sereniano (Marcell. lib. XIV), Pentadio, notajo, ed Apodemio, lo condannò a morte. T. S.


Note

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