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DI ZOSIMO
CONTE ED AVVOCATO DEL FISCO
DELLA NUOVA ISTORIA
Costanzo fatta eseguire la morte di Gallo, dalla Pannonia passò in Italia. Ove osservando tutte le provincie all'impero suggette infestate dalle scorrerie dei barbari; occupate dai Franchi, dagli Alemanni e dai Sassoni quaranta città presso al Reno, guastele affatto e condotta via sterminata moltitudine di abitatori con immenso bottino; i Quadi co' Sarmati gir scorrazzando per la Pannonia e la Misia superiore; i Persiani, avvegnachè da prima cheti per tema non Gallo cesare si facesse ad assalirli, addivenuti ora pertinaci nello scombuiare l'Oriente; pigliato dunque a considerare tutti questi sinistri e dubbiando intorno alle determinazioni per mettervi riparo, estimavasi da solo insufficiente a riordinare sì mal andate faccende; nè osava d'altronde scegliersi un compagno tanto per la sfrenata cupidigia di essere unico nell'imperare, quanto per avere tutti in sospetto, opinando vano il riposare onninamente sulla fedeltà di alcun de' suoi, motivo questo della sua incertezza. In tale congiuntura la consorte Eusebia, eruditissima donna e d’una prudenza superiore al femminile sesso, veduto il pericolo gravissimo del Romano impero lo sovvenne di consiglio esortandolo a fidare il governo delle genti oltre le Alpi a Giuliano cesare, fratello germano di Gallo e prole del figlio di quel Costanzo creato cesare da Diocleziano; e sapendo ella che il consorte non avea fidanza in veruno de’ cognati, lo sorprese nel seguente modo: È giovane, dicevagli, non fornito di molto ingegno, speso avendo tutta la sua vita nell’addottrinarsi, il di che inespertissimo essendo e privo d’ogni cognizione fa meglio d’ogni altro al nostro proposito. Laonde se nel maneggio degli affari verrà secondato da propizia stella tu ne avrai merito, se poi ci farà contro non eviterà la morte, nè saravvi più alcuno, quasi membro della imperiale famiglia, il quale possa chiamarsi al supremo governo della Romana signoria.
Costanzo approvatone il consiglio manda in Atene per Giuliano, colà vivendo alla domestica tra’ filosofanti, e superando in ogni maniera di dottrina i suoi maestri. Arrivato, giusta il comando, in Italia, riceve il titolo di cesare, sposa Elena imperiale sorella, ed ottiene il reggimento de’ popoli di là dalle Alpi. Ma il diffidente Costanzo per natura, non potendo in verun conto ritenerlo fedele suo benivolente, gli dà Marcello e Sallustio a compagni, loro commettendo, non al cesare, il governo di quella regione.
Disposte così le faccende in riguardo a Giuliano, Costanzo batte la via della Pannonia e della Misia, donde, sedatevi le ribellioni de' Quadi e Sarmati, va nell'Oriente, le persiane scorrerie trascinandolo con dispiacere alla guerra. Giuliano, valicate le Alpi, recasi infra le Galliche nazioni assegnategli; ove, perseverando i barbari a dare il guasto liberissimamente, Eusebia, tornando ai primi ragionari, induce il consorte ad accordargli l'amministrazione di que' luoghi. Ora, quanto Giuliano da tal epoca e successivamente in tutta la sua vita operasse, è narrato con prolissità nei libri degli istoriografi e de' poeti, quantunque nel numero di coloro che ne trasmisero ai posteri la memoria nessuno riuscito sia ad agguagliare la grandezza di quelle imprese. Il voglioso potrà eziandio conoscerle applicandosi alla lettura delle orazioni ed epistole, da lui medesimo scritte, e contenenti in ispecie il suo operato per l'orbe intero. Ma poichè a noi si conviene di non interrompere l'ordine della storia, verranno pur qui ad una ad una ed in compendio esposte, dando specialmente la preferenza alle ommesse dagli altri scrittori.
Costanzo, fidato avendo al cesare generale autorità sopra quanto la pratica suggerirebbegli profittevole alle nazioni da lui governate, si diresse all'Oriente per combattere i Persiani. Giuliano dunque rinvenuta ne' Celti la disciplina militare in gran parte corrotta e rovinata; i nemici, senza opposizione al mondo, valicato il Reno, spingere il saccheggiamento infin quasi alle città prossimane al mare; volto il guardo alle reliquie dell'esercito, osservate le truppe colà di stanza al solo nome de' barbari cadere in ispavento; i militi inoltre consegnatigli dall'imperatore, trecensessanta nè più di numero, non sapere, come egli stesso narra, che orare; scrisse ne' ruoli quanti potè rinvenire, aggiugnendovi ancora di molti prigioni. Standogli parimente a cuore le armi ne trovò di vecchie ascose in una città, e fattele racconciare ne supplì i bisogni della soldatesca. Riferitogli poscia dagli esploratori che presso la città Argentorato, sita alla riva del Reno, trapassato avea il fiume un immenso stuolo di nemici, egli, di subito raccolte all'avviluppata le milizie, mosse a quella volta e, battutolo, inalzò amplissimo trofeo, morti avendo nella pugna sessantamila barbari, ed altrettanti precipitati nel Reno vi giacquero sommersi. Laonde questo trionfo messo a paragone con quello di Alessandro contra Dario, non si riterrà nudamente inferiore.
Qui non è uopo tacere un che avvenuto dopo cotanta vittoria. Egli avea un corpo di secento cavalieri esercitatissimi nelle belliche imprese; il perché fidando nel coraggio e nella esperienza loro, nè piccola parte di d'un prospero successo fondatavi sopra, venivan da lui messi alla pruova. Cominciato l'aringo e mostratisi tutti prontissimi ad operare del miglior animo, gettansi con impeto sopra i nemici rimanendo al primo scontro superiore il Romano esercito; unicamente que' secento cavalieri, dandosi alla fuga, colla maggior turpezza abbandonano il campo, e sordi mostransi alle voci dello stesso cesare, il quale con pochi in sella correva lor dietro esortandoli a partecipare il merito della vittoria. Giuliano dunque a ragione preso da sdegno mirandoli pronti a tradire, per quanto stava ad essi, i proprj cittadini ai barbari, non li condannò al gastigo portato dalle leggi, ma volle si conducessero in femminili vesti pel campo, e quindi trasportati fossero altrove, pensando che valorosi militi reputato avrebbero tal pena e supplicio molto più grave della morte; ed in effetto quella correzione riuscì ili gran vantaggio così a lui come alle truppe. Imperciocchè nella seconda guerra contro de' Germani, soli eglino, son per dire, conservando memoria della sofferta ignominia, acquistaronsi lode, sopra tutti i commilitoni, di aver sostenuto con sommo valore gli aringhi. Terminata questa impresa egli disponevasi, in tempo di pace assoldando molte truppe, a guerreggiare l'intera Germanica nazione; sapendola quindi provveduta di numerose genti, non aspettatone l'attacco passò il Reno, estimando vie più vantaggioso il combattere anzi sopra nemica terra che sulla Romana, onde liberare le città da nuovi danni al comparirvi de' barbari. Pur quivi di fierissima battaglia vincitore con disterminata nemica strage, perseguito infino alle selve Ercinie1 il resto, e fatto prigione Vadomario, figlio del barbaro capitano, tornò a condurre l'esercito, lieto per le conseguite vittorie e celebrante le imperiali geste del cesare, alle sue stanze. Dopo di che spedì Vadomario a Costanzo colla nuova del suo felice operato. I barbari giunti agli estremi e solleciti di lor prole e donne, per tema non il cesare coll'inoltrare là dove elle dimoravano sterminassevi dal primo all'ultimo ogni vivente, inviangli legati con proposte di pace, le quali confermate promettevano di astenersi mai sempre d'ora innanzi dal guerreggiare i Romani. Giuliano rispose, che non verrebbe giammai seco loro agli accordi quando non fossero disposti alla restituzione di tutti i prigionieri condotti via negli anni precedenti dalle occupate città. Ed eglino obbligaronsi al rendimento dell'intero numero di quelli ancora in vita. Laonde il cesare all'uopo di prevenire le frodi nella consegna di essi, chiamati a sè tutti i fuggitivi di ciascheduna città e borgata ove dimoravano, si fa manifestare nominatamente le persone tolte da que' luoghi, e dichiaratisi da ognuno per singulo i conosciuti a motivo di parentela, di vicinanza, di amicizia, o in altro modo comunque, ordina agli imperiali scrivani di registrarli, e quindi impone all'ambasceria, nulla sapevole del fatto elenco, di ripassare il Reno, attendendola di ritorno co' prigioni. Queglino trascorso breve tempo novamente presentatisi coll'asserire di aver rimenati, in obbedienza del comando, tutti i mancipj, Giuliano siede in seggio, e postivi dietro gli scrivani si fa dai barbari condurre innanzi, giusta le convenzioni, i prigionieri. Costoro all'entrare ad uno ad uno appalesano i proprj nomi, e gli scrivani collocati vicino al cesare vanno cercandoli sopra i fatti registri, e confrontati insieme cogli scritti in essi, giusta le riferte de' cittadini e borghigiani, osservano mancarvene gran copia, del che danno avviso, accostandoglisi da tergo, al cesare. Questi allora minaccia guerra ai legati se non restituiscano pur quelli, suggerendone i nomi gli scrivani, dalle città e dai paesi tuttavia richiamati, ed i barbari, pensando che indicate venissergli per qualche segno divino eziandio le più occulte ed ignote cose dannogli parola, accompagnata da giuramento eseguito di conformità ai patrj riti, che renderebbono dal primo all'ultimo tutti i rimasti in vita.
Dopo di che fu da loro consegnata tanta copia di mancipj, quanta conghietturare poteasi tolta dalle quaranta città di l'orza occupate. Giuliano allora stettesi un momento pensieroso intorno alla maniera di ricettarli, essendo le città dalle fondamenta distrutte, restato il suolo assai tempo incolto, ed i tornati dalla schiavitù bisognevoli di non poca vittuaglia, che in vano addimandata sarebbesi alle prossimane genti, oppresse pur elleno dalle barbariche ruberie, nè provvedute di abbondante annona. Non sapendo pertanto come riparare alle costoro bisogne, prende il partilo seguente: Agli estremi confini della Germania, là dove hanno sede alcune Galliche popolazioni, il Reno depone le sue acque nell'Atlantico, e da quel littorale havvi non più di novanta stadj lontana l'isola de' Britanni. Raccolto dunque il legname dalle selve in vicinanza del fiume costruì ottocento navi maggiori delle barche, e mandatele nella Britannia ordina ai piloti di retrocedere portandole cariche di frumento; con tale naviglio da fiume rinvenuto avendo mezzo adatto a trasferirlo di qua dal Reno. Il qual tragitto più volte ripetuto, breve essendo la navigazione, fornì abbondevolmente di grano i ripatriati onde farne con parte seminagione, e col resto la propria vita sostentare infino alla maturanza delle biade; così egli, non tocco ancora il vigesimoquinto anno dell'età sua, governava le fidategli genti.
Acquistatosi quindi l'amor delle truppe mirandolo frugale nel vitto2, coraggioso negli aringhi, riserbato nell'ammassare danaro, e pieno finalmente d'ogni virtù, superando in esse, il dirò pure, tutti i mortali di quei tempi; Costanzo mosso da invidia per le chiarissime di lui geste, e pensando volersi attribuire ai talenti di Sallustio, uno dei consiglieri datigli, la gloria ottenuta in guerra e nel reggimento de' popoli, mandò chiamando costui sotto colore di promoverlo a governatore dell'Oriente. Giuliano di buon grado vi condiscese, propostosi di secondare in tutto gl'imperiali voleri; se non che dopo eziandio la partenza del duce niente meno prosperavano, di giorno in giorno quasi dissi, ognor più gli affari di colà, crescendo il numero de' militi e la cognizione tra essi dell'arte bellica; le cittadi a simile gioivano della pace e dei beni a lei dovuti.
In que' luoghi tutti i barbari usciti già erano d'ogni speranza, e riputavan i pochi avanzi loro non più che salvi da una totale distruzione. I Sassoni allora, estimati fortissimi sopra ogni altro abitatore di tali regioni così per coraggio come per robustezza di membra e tolleranza nelle guerresche fatiche, mandano ostilmente i Quadi, schiatta di lor nazione, contro alle Romane frontiere, ma rinvenutivi i confinanti Franchi disposti a combatterli, temendo porgere al cesare giusto motivo di assalirne le terre, e fabbricate molte navi e sopravi tragittati dal Reno nel paese de' Franchi, si diressero a molestare le Romane frontiere; apportati colle navi a Batavia, fatta isola dal bipartito Reno e maggiore d'ogni altra prodotta da fiumi, cacciaronne i Salii partitisi dal tenere de' Franchi, e dalle proprie sedi ributtati in quest'isola, che da prima interamente ligia ai Romani posseduta era a que' giorni dai Salii. Giuliano, uditone, camminò ad assalire i Quadi, ordinando in prima all'esercito di combatterli fieramente, e di non uccidere uom de' Salii, nè impedirli dal transito nel Romano suolo, poichè non entrerebbonvi come nemici, ma di forza spinti dai Quadi.
I Salii, osservata cotanta umanità nel cesare, calcavan, altri col proprio re la Romana terra, ed altri arresta vansi fuggitivi ai confini di essa; ma tutti supplichevoli fidavano di per sè stessi nelle sue mani lor vite e beni.
Giuliano mirando ora i barbari non più audaci e presti ad impugnare le armi, datisi in cambio alle occulte scorrerie ed ai ladroneggi con grave scapito della regione, stavasi nella incertezza sulla scelta d'un provvedimento, quando alla fine risolvè con giudizioso stratagemma vendicarsi delle arti loro. Aveavi taluno di vastissimo corpo senza pari, ed alle sue grandi membra un virile animo corrispondea. In costui, di nazione barbaro ed avvezzo colla sua gente alle ruberie, destossi il pensiero di passare dalla sua terra natale ai Celti sudditi dell'impero. Fatto pertanto qualche soggiorno in Treviri, metropoli nobilissima de' popoli di là dalle Alpi, al mirare i predatori che di stanza nell'opposta piaggia del Reno, tragittato il fiume, travagliavano con iscorrerie le città, abbottinando liberamente le generali fortune (Giuliano ottenuto ancora non avendo il potere annesso al titolo di cesare), iva escogitando la maniera di camparle da tanta sciagura. Ma guardingo dal venire ad intraprendimenti non autorizzatovi da legge veruna, principiò solo e celato entro foltissime selve ad attendere gli assalimenti de'barbari per uscire di nottetempo loro addosso mentre stavansi avvinazzati dormendo; spiccati allora a quanti potea i capi dagl'imbusti, e portandoli nella città faceane mostra alla popolazione. Il di che, proseguendo nella sua costumanza, metteva non poco indugio e timore ne' predoni, ignorando eglino come ciò avvenisse, ma ben conoscendone il danno all'osservare quasi ogni di scemate lor truppe. In seguito unitiglisi altri ladri e giunti a qualche numero, avvegnaché ad uno ad uno capitati, Cariettone (nome di colui che primo dato erasi a cosiffatte insidie contro ai predatori) venuto al cesare palesogli l'arcano per lo innanzi ignoto a molti. Giuliano pertanto, mal disposto a frenare coll'esercito i notturni ed occulti scorrazzamenti de' barbari (soliti in picciol numero ed in molti luoghi ad eseguire le ruberie, e sull'aggiornare ad ascondersi ne' boschi vicini alle campagne, ove i furti commessi fornivan loro i bisogni della vita), e rammentando quanto malagevol si fosse il domarli, trovossi dalla necessità costretto alla risoluzione di far perseguitare i ladri non solo dall'esercito, ma eziandio da gente ladra pur ella.
Accolto dunque infra suoi militi Cariettone e molti Salii insiememente, inviavali, addestrati essendo nei furti, a combattere i furatori Quadi, e di giorno tenea alla scoperta corpi di militi, i quali trucidavano tutti i sottrattisi dalle mani de' notturni persecutori. Nè desistette dall'impresa infinattantochè i nemici, ridotti nelle maggiori angustie e di molti addivenuti pochi, si arresero col duce loro alle armi Romane, le quali nei preceduti assalimenti raccolto aveano quantità di prigionieri, annoverandovisi lo stesso figlio del re, pigliato da Cariettone. Ordinato poscia loro, cambiatisi in luttuosissimi supplichevoli, di consegnargli alcuni ragguardevoli personaggi per istatichi, ed in ispecie lo stesso figlio del re, il quale di presenza dato sfogo a dirottissimo pianto giurava di avere anch'egli, insiem col resto, perduto il figlio. Giuliano allora mosso a compassione da tante lagrime fecegli vedere la prole salva e delicatamente nutrita, dichiarandogli in pari tempo che proseguirebbe a ritenerla come ostaggio, ed avutine parecchi altri di nobili famiglie, accordò pace alla gente a condizione di astenersi per l'avvenire dall'inquietare colle armi i Romani.
Stabilite queste faccende, il cesare scrisse ne' ruoli i Salii, parte de'Quadi e qualche abitatori dell'isola Batavia, le cui schiere anche a' dì nostri militano sotto ai Romani vessilli. L'imperatore Costanzo intanto dirigeva tutti i suoi pensieri alla guerra Persiana, imperciocchè bene governati erano i popoli di là dalle Alpi commessi alla prudenza di Giuliano, ed in Italia e nella Illiria tutti vivean sicuri dalle molestie de' barbari abitatori oltre l'Istro, i quali, temendo non il cesare, traversata la Gallia e valicato l'antedetto fiume, venisse a combatterli, teneansi ne' limiti della moderazione. Costanzo adunque piena la mente della guerra de' Persiani, che dal re loro Sapore comandati infestavano la Mesopotamia scorrazzandola, e manomesso in ogni sua parte il territorio di Nisibi, assediavano la città stessa coll'intero esercito, spedito aveavi Lucilliano, il quale attento a difenderne accuratamente le mura, valendosi ora delle occasioni offertegli dalla fortuna ed ora di acconci stratagemmi, salvolle da così imminente pericolo, quantunque ridotte agli estremi. Quali poi fossersi i mezzi praticati onde riuscirvi parmi superfluo di qui rammentare, lo stesso cesare fatto avendo argomento d' un particolare suo scritto le geste di quel tempo, e se havvi bramoso di leggerlo vi ammirerà la sublime eloquenza dell'autore.
Le bisogne orientali del resto parendo ora in quiete e levandosi ovunque a cielo i gloriosi imprendimenti del cesare, destossi in Costanzo forte invidia, il perchè, mordendogli l'animo tanta felicità delle cose da lui operate nel suolo Celtico ed Ispano, andava in traccia d' opportuna occasione per iscemarne a poco a poco e senza dare il menomo sospetto, le forze, e così attenuarne la buonissima fama. Laonde mandagli ordine d'inviare alla sua persona due legioni di Celti, quasi uopo avesse del costoro aiuto. Giuliano eseguì il comando, vuoi perchè ignorassene i divisamenti, vuoi per allontanare qualunque pretesto di collera; poneva tuttavia massima cura e diligenza nell'attendere ai Celtici affari, di giorno in giorno levando truppe, ed i barbari, spavento in prima degli abitatori confini, più non mostrandosi loro neppure in sogno. L'imperatore frattanto continuo addimandavagli altre genti, e ricevutele, molto non tardava l'ordine di far partire alla sua volta quattro compagnie, ed egli ratto ad esse imponea di prepararsi all'andata. Ora, essendo il cesare vicino a Parigi (cittadetta della Germania3) e le richieste compagnie, apparecchiate al viaggio, cenando a notte ferma presso il pretorio di quel luogo senza pensare affatto alle trame che ordivansi contro del capo loro, parecchi tribuni, scoperte veritiere le insidie per lo innanzi tesegli, vanno ascosamente gittando qua e là infra' seduti al desco libelli d'ignoti autori, ed annunziaci gravissimo pericolo sovrastare a quel Giuliano, il quale co' suoi stratagemmi, e non dissimile punto nel fervore delle battaglie ad un semplice fantaccino, renduti aveali trionfatori quasi di tutti i barbari, l'imperatore a poco a poco tentando involargli le truppe, quando elleno, levatesi a romore, non si opponessero alla partenza. Molti de' militi letto avendo gli sparsi libelli, ed istruiti i compagni del contenutovi, destarono generale indegnazione, e surti con grande strepito dal luogo ove sedeano, tenendo ancora nelle mani i calici, si diressero al pretorio, e rottene tumultuariamente le porte menan fuori in pubblico Giuliano; alzatolo quindi sopra uno scudo e cintogli, suo malgrado, il capo di diadema4, acclamanlo imperatore augusto.
Il cesare, sebbene mal volentieri comportasse l'avvenuto, pur non potealo con sicurezza stornare, quando, in cambio, di forza veruna erano per Costanzo e giuramenti e patti, od altra osservanza di fedeltà sacrosanta infra mortali. Speditagli impertanto ambasceria, informavalo di essere stato dai militi contra il voler suo dichiarato imperatore; ma protestavasi ad un'otta, se tale fosse il parere di lui, pronto a dimettere il diadema ritenendo la sola onoranza di cesare. Costanzo invece, lasciatosi trasportare da fortissimo sdegno, rispose con burbanza ai legati: Dover Giuliano, se portava amore alla sua vita, deporre unitamente alla imperiale dignità i cesarei distintivi, e tornato alla condizione privata addivenirgli in tutto obbediente, mercè di che non soggiacerebbe ad ulteriori molestie o punigioni meritevoli dell'attentato commesso. Giuliano, ricevuta dagli ambasciadori la tremenda risposta, disvela senz'ambage i sentimenti dell'animo suo, dicendo chiaro alla presenza dell'universale bramar egli fidare sua vita piuttosto ai Numi che alle parole di lui, e da questo momento nessuno più ignorò le intenzioni di Costanzo verso Giuliano. Il primo intanto preparavasi ad una civile guerra, dispiacevolissima, in considerazione delle passate vicende, al cesare, pensando che l'armarsi contro di chi innalzato avealo a sì grande autorità procaccerebbegli appo molti la riputazione d'ingrato.
Ora mentr'egli seco stesso va ripensandovi, e da quinci e da quindi volge sua mente in grande perplessità nel risolversi ad una guerra civile, apregli il Nume nel sonno i futuri avvenimenti, parendogli, durante il soggiorno fatto in Vienna, che il sole mostrasse le stelle pronunciando i seguenti versi:
Parte Jovem feret extrema profusor ut undae,
Parsque a Saturno fuerit vigesima quinta
Virginis ut jam tacta; Asiae Constantius onmis,
Vitam morte gravi mox finiet induperator.
Appoggiato a questo sogno nè dipartendosi dalla propria costumanza diligentemente badava agli affari, e poichè cessato non era il verno tenea l'occhio come si convenia alle barbariche mene perchè, ove distolto ne fosse da nuove imprese, non pericolassero in conto veruno quelle de' Celti: nè ad un tempo smenticava, Costanzo dimorando ancora nell'Oriente, di apparecchiarsi a prevenirne i tentativi. Giunta poscia la state alla metà del suo corso, e messo fine di là dal Reno alle cose dei barbari, costrettane parte colle armi a temperarsi, e fatto accorto il resto dall'esperienza dei preteriti avvenimenti essere di suo vantaggio meglio la pace che non la guerra, dispose tutto l'esercito quasi fosse in procinto d'intraprendere lungo cammino. Fidato da ultimo il governo delle città e frontiere a civili e militari duci, piglia la via delle Alpi. Arrivato presso de' Reti, donde nato il fiume Istro, traversa i Norici, l'intera Pannonia, i Daci, i Misi della Tracia e gli Sciti per metter foce nel Ponto Eussino, e costruite navi da fiume, egli, con tremila guerrieri, ne seguì per acqua la corrente, ordinando ad altri ventimila d'indirizzarsi per terra alla volta di Sirmio. E poichè ad un assiduo remeggio univasi lo scorrimento del fiume ed il soccorso de' venti nomati Etesii, nell'undecimo giorno approdò pur egli colà. Ove annunziatosi l'arrivo dell'imperatore tutti opinavano di vedere Costanzo, ed all'accogliere in cambio Giuliano ognuno, per la sorpresa attonito, ritenea quasi portento l'avvenuto.
Non guari tempo dopo arrivato anche l'esercito che seguivalo dai Celti spedì, come imperatore, lettere al senato del popolo Romano ed agli Italiani duci, imponendo loro che guernissero le città. Divulgatosi poi che il cesare tragittato avea le Alpi e messo piede nella Pannonia, i consoli di quell'anno, Tauro e Florenzio, partigiani di Costanzo, dati essendosi alla fuga da Roma, egli comandò si nomassero nello estendere i pubblici istrnmenti consoli fuggitivi. Piaggiava inoltre blandamente le città valicate a corsa, empiendole di buone speranze intorno al suo governo. Scrisse in fine agli Ateniesi, ai Lacedemoni ed ai Corintii, significando loro i motivi del suo viaggio, e nella dimora fatta in Sirmio ricevea ambascerie quasi dall'universa Grecia; alle quali risposto in dicevol modo e distribuite le consuete largizioni, continuò colle Celtiche milizie ed altre raccolte dalle coorti di presidio in Sirmio, nella Pannonia e ne' Misi l'interrotto cammino.
Pervenuto a Naiso iva cogli aruspici indagando le operazioni avvenire, e le viscere mostrandogli di non sollecitare la partenza, obbediva. Datosi intanto ad osservare il tempo indicatogli dal sogno, quando esso parve accordarsi coi movimenti degli astri ecco arrivare, mentre ancora soggiornava colà, una moltitudine di cavalieri venuti da Costantinopoli con la nuova della morte di Costanzo, e la volontà degli eserciti addimandanti Giuliano all'impero.
Laonde conosciuto il celeste dono ripiglia il sospeso viaggio, ed accostatosi a Bizanzio è da tutti con giulivi applausi accolto, chiamandolo cittadino ed allievo, perchè nato presso di loro e pur ivi educato. Rivolte quindi le sue cure all'esercito ed a ristaurare la città, permise a questa di avere un senato simigliante al Romano; fabbricovvi parimente un vastissimo porto a difesa delle navi battute dall'Austro, un portico, anzi della figura d'un greco sigma (Σ) che rettilineo, donde si arriva al porto; costruì eziandio in quello della reggia una biblioteca deponendovi tutti i libri portati seco; dopo di che fece gli apprestamenti necessari ad intraprendere la Persiana guerra. Trattenutosi dieci mesi in Bizanzio e creati comandanti Vittore ed Ormisda consegnando loro tribuni ed eserciti, calcò la via d'Antiochia. Ommetto di esporre la tranquillità ed il buon ordine osservato dalle truppe nell'andare da luogo in luogo, sapevoli che mal addicevasi a militanti sotto l'imperatore Giuliano il comportarsi arrogantemente e contra il proprio decoro.
All'entrare in Antiochia ebbevi dalla popolazione affabile accoglienza, ma essendo questa di sua natura appassionata pe’ giuochi e più dedita ai piaceri che non alle serie occupazioni, di mal animo, come avvenir suole, tollerava l’imperiale prudenza e modestia in ogni azione, tenendosi egli lontano dai teatri e rade volte, nè per tutto il dì, comparendo nel circo; il perchè la plebe ivalo pugnendo con misteriose voci. L’imperatore voglioso di ribeccarli, ne volendo ricorrere a gastigo veruno, proferì un urbanissimo discorso5 forte mordendovi i suoi biasimatori e la città. Discorso racchiudente, con ischerno sì grande asprezza che fu bastevole a divulgare ovunque i vituperj degli Antiocheni ed a farli ben presto pentire della garrulità loro. Soccorso non di meno alla città in quanto giustizia addimandava, e concedutole alto numero di decurioni succedentisi da padre in figlio nell’esercizio della magistratura, ed ammessivi pur quelli generati da prole femminile di decurioni, privilegio in vero, a nostra cognizione, di ben pochi municipj. Poste finalmente in vigore molte giuste ed ottime ordinanze accingevasi alla guerra Persiana.
Passato il verno, messo in punto l’esercito e con bell’ordine speditolo innanzi, egli uscì d’Antiochia senza poter da prima sacrificare agli Iddii6, ed il motivo, sebbene a mia cognizione, bramo tenerlo segreto. Nel quinto dì pervenuto a Gerapoli ove prescritto avea la riunione di tutte le navi, così le destinate al trasporto de’ militi come quelle da carico provenienti da Samosata e da altri luoghi di agevole navigazione per le acque dell’Eufrate, e conferitone il comando a Ierio, duce delle militari coorti, mandolle avanti. Egli fermatosi tre soli dì in Gerapoli procedette oltre a Batna, cittadetta della Osdroena7, ove tutto il popolo Edesseno recatosi ad incontrarlo presentavagli corona, e con fauste acclamazioni faceagli invito di venire nella sua città. L’imperatore accettato il dono, messo il piede entro quelle mura e decretatovi l’occorrente si diresse a Carra. Quivi proposte furongli da seguire due vie: l’una che pel fiume Tigri e Nisibi, città, mette nelle Diabeniche satrapie, e l’altra per l’Eufrate e Circesio (castello di tal nome, circondato dal fiume Abora, dall’Eufrate stesso e contiguo alle Assirie frontiere). L’imperatore intanto che stava deliberando a quale dare la preferenza, riceve notizia che i Persiani, ostilmente entrati nel Romano suolo, ponevanne a guasto ovunque i luoghi; al quale annunzio levossi qualche tumulto negli accampamenti. Ma Giuliano chiaritosi costoro esser ladri anzi che no, e dopo il saccheggio postisi in fuga, risolvè di lasciare assai forte presidio nelle campagne presso del fiume Tigri, onde i Persiani, mentre con tutto l’esercito battendo altro sentiero passava nel tener loro, non molestassero di celato Nisibi e l’attigua regione sprovveduta di truppe ed aiuti. Opinò dunque farvi rimanere diciottomila armati alla greve sotto la capitanarla di Sebastiano e Procopio. Egli poi con l’intero esercito inoltrando per l’Eufrate divise le truppe in due corpi, acciocchè al mirare del nemico lo rispingessero, onde impedirgli di travagliare con isfrenatezza somma il suolo ovunque s’avvenisse.
Compiuti questi provvedimenti presso i Carri, la cui città separa i Romani dagli Assirj, volle da elevato luogo, gittando lo sguardo sopra l’esercito, osservarne così le pedestri legioni come le turme dei cavalieri, ascendendo il numero di tutte le milizie a sessantamila. Partitosi a fretta dai Carri, passato per gl’interposti castelli infino a Callinico, e da quivi all’antedetto Circesio, donde, tragittato il fiume Abora, solcò in nave le acque dell’Eufrate. Seguivanlo i militi con seco la vittuaglia, imbarcatisi quanti di essi ricevuto aveanne il comando, pervenuta essendogli la flotta composta di navi secento di legno e cinquecento di cuoio. Eranvene di più cinquanta militari ed altre per formare ponti, occorrendo, acciò potessero le pedestri milizie valicare i fiumi. Bastimenti ancora tenean lor dietro in parte carichi di annona per l’esercito, in parte di legname idoneo alla costruzione di macchine, ed in parte di macchine bell’e fabbricate per assedj: ammiragli di tutte erano Luciano e Costanzo8. Ordinate non altramente le truppe Giuliano da elevato luogo arringolle come portava il suo ufsicio, e terminata la concione distribuiva a ciaschedun soldato trenta nummi d’argento; dopo di che inviossi contro ai Persiani, eletto a duce dei fanti Vittore, e guidati da Ormisda e Arinteo i cavalieri. Di Ormisda prima d’ora parlato abbiamo facendolo di Persiana schiatta e figlio del re; se non che dal germano oltraggiato diedesi alla fuga riparando presso l’imperatore Costantino, il quale avutene manifeste pruove di fedeltà e benivolezza lo inalzò alle maggiori onoranze ed alle più cospicue magistrature.
Giuliano adunque al valicare ostilmente le Persiane frontiere comandava il sinistro corno della cavalleria lunghesso la riva del fiume, e parte delle genti pedestri accompagnavalo a destra, tutto il rimanente poi in estesissima ordinanza seguivalo all’intervallo di settanta stadj, ove riuniti erano così li giumenti carichi della salmeria, ciò è delle più grevi armi e d’ogni altro bellico apprestamento, come il servidorame, onde allontanarlo dai pericoli, difeso in ogni lato dall’esercito. Nel proceder oltre di questo modo egli risolvè spedire innanzi mille e cinquecento militi sotto il duce Lucilliano ad esplorare se all’aperta od in aguato si avvenisse a qualche nemica schiera.
Fattosi innanzi sessanta stadj arrivò ad un luogo appellato Zaita9, quindi a Dura in altri tempi città ed ora deserta, solo del primiero suo stato rimanendo alcune vestigia, tra cui mostravasi il sepolcro dell’imperatore Gordiano. Quivi le truppe osservati numerosissimi cervi ed uccisili coi dardi mangiavanne le carni. Di là inoltratosi quattro stazioni pervenne ad un borgo Fatusa detto. Di contro, nel fiume, aveavi un’isola munita di castello con molti abitatori: speditovi Lucilliano con mille in armi ad assediarlo, durante la notte uom di là non ebbe punto ad accorgersi della costoro venuta; del mattino uno di essi uscitone ad attigner acqua osservolli, e contale riferta pose in grande scompiglio tutti li castellani, che, asceso immediatamente il muro, videro arrivare l’imperatore con le macchine ed il resto delle truppe, annunziando i futuri loro destini se, pronti ad arrendersi col castello, incontrar non bramassero manifesta ed indubitata morte. Accettatasi dagli assediati la proposta, egli mandò gli nomini, le donne e la prole entro i Romani consini sotto la vigilanza d’un militare presidio: creato quindi tribuno il duce loro Puseo e sperimentatolo fedele, giudicollo meritevole di occupare un posto tra’ suoi famigliari.
Dopo di che maggiormente inoltrando pervenne ad altra isola del fiume con assai forte castello; indarno assalitolo, da per tutto essendo inespugnabile, addimandavane agli abitatori la dedizione anzi che esporli ai pericoli d’una sconfitta, ed avutane da loro, animati dall’altrui esempio, promessa, continuò il cammino lasciandosi indietro, dopo ottenute eguali assicurazioni, varj castelli, opinando convenirgli, senza perder tempo in cose di poco momento, correre all’origine stessa della guerra. Trapassate adunque alcune stazioni mise piede in Dacira10, città sita alla destra dei naviganti per l’Eufrate, e le truppe, rinvenutala pressoché disabitata, predarono gran quantità di frumento ivi in serbo e pur molta copia di altre robe; trucidate poscia le femmine rimasevi, atterraronne per modo gli edifizj, che al dirigervi il guardo si parea non esservi unque mai stata città. Nella riva poi rimpetto a quella tenuta dall’esercito aveavi una polla sgorgante bitume. Giunto di là a Sita indi a Megia, accostassi in seguito a Zaragardia11, città, ov’era un magnifico tribunale di pietra, solito dagli abitatori appellarsi di Traiano. Le milizie, di leggieri postala a sacco ed a fuoco e fiamme, diedersi il resto di quel giorno ed il seguente a ristorare lor corpi.
Ora Giuliano considerando che l’esercito in così lungo viaggio non erasi avvenuto nè ad ostili insidie, nè a palesi nemiche schiere, invia Ormisda, peritissimo delle Persiane faccende, con truppe ad esplorar paese, e tanto il duce quanto sua gente per poco non caddero in estremo pericolo, debitori soltanto ad impreveduto caso di lor salvezza. Poichè Surena (vocabolo di magistrato persiano12) posti aguati attendenti co’ militi seco13, proponendosi combatterli all’imprevista passati ch’e’ fossero; nè avvenir potea altramente se un canale dell’Eufrate, di mezzo alle due fazioni, gonfiatosi, impedito non avesse a que’ di Ormisda il passo. Differito dunque il tragitto al dì seguente, questi veduto Surena con le genti locate da lui nelle insidie, risolverono attaccarli e parte messane a morte, parte costretta alla fuga, tornarono ad unirsi al proprio esercito. Di là giunsero ad un canale derivante dall’Eufrate, e tale lungo da bagnare l’Assiria e la Tigride regione. Quivi le truppe abbattutesi in tenace melma ed in palustre suolo, e vedendo singolarmente i cavalli travagliati da cotanta malagevolezza di via, nè capaci eglino, per la grande elevazione dell’acqua, in conto veruno passarlo in armi a nuoto, il fango colla sua umidità occultando loro ogni valico, ridotti furono a mancanza estrema di consiglio. Maggiore poi addiveniva il pericolo aocchiandosi all’opposta riva nemiche schiere pronte cogli archi e colle frombole a scagliar quadretta e pietre contro a chiunque ardisse cimentarne il tragitto. Laonde inetto ognuno a suggerir qualche spediente onde torsi d’impaccio, Giuliano valentissimo, per acume d’ingegno ed esperienza delle belliche faccende, nel vincere ogni impedimento, stabilì che ai mille e cinquecento mandati col duce Lucilliano a spiare i sentieri venisse annunziato d’investire il nemico da tergo per attirarne la foga sopra sè stessi, procurando così all’esercito di tragittare liberamente quelle acque, ed a tal uopo deputa il duce Vittore fornitolo di bastevol truppa. Laonde costui, ad occultare ai Persiani la sua partenza dall’esercito, di nottetempo incamminatosi, e corso tanto spazio quanto era mestieri perchè il nemico neppure col nuovo dì venisse in cognizione dello stratagemma, superato il fiume iva in traccia di Lucilliano. Allontanatosi vie più senza incontrare uom de’ Persiani con grida e suono di trombe chiamava que’ suoi commilitoni accennando loro di accostargli maggiormente. Osservato quindi che Lucilliano venivagli incontro, giusta il suo desiderio, lo fe’ sapevole con indubitati segni dell’occorrente, e questi, unite alle proprie le truppe di Vittore, va da tergo ad assalire i nemici, che non apparecchiati ad una sorpresa e quindi esposti ad essere di leggieri sconfitti, o caddero spenti, o come meglio ebbono il destro si fuggirono in rotta.
L’imperatore, udito il buon esito del suo stratagemma, trapassava senza timore il fiume, e fattolo valicare dalla cavalleria sopra un ponte formato di barche, e sopr’altro naviglio, raccolto lungo il canale, tra gittati i fanti, avvicinossi franco da ogni nemica offesa alla città nomata Bersabòra14 per esplorarne così la grandezza come la posizione ed il fortificamento. Ella avea doppio muro all’intorno con rocca nel centro parimente circondata di muro, in apparenza simile a segmento di circolo, e conduceavi un sentiero, di malagevole salita, dall’interna cinta della città. Oltre di che alla parte occidentale, verso il meriggio, eravi tortuosa ed obbliqua uscita. Da settentrione difendeala un largo canale tiratovi dal fiume, della cui acqua i cittadini valeva nei pei bisogni della vita. Un terrapieno infine con sovrappostovi palancato di forti stecconi tra loro incrocicchiati e prosonda fossa circuivanne la banda orientale. Vicino poi alla fossa aveanvi grandi torri dal mezzo infino al suolo costruite di cotti mattoncelli insiem rattenuti da bitume, e dalla metà alla cima di eguali mattoncelli e gesso.
Giuliano fermo nel proposito di conquistarla esortava i militi a por mano all’opera; se non che inoltrando costoro, prontissimi al ricevuto comando, il popolo addimandava la imperiale protezione, ed ora chiedea che inviato fossegli Ormisda per venire agli accordi, ora con villanie ed oltraggi denigravane la riputazione appellandolo fuggitivo, esule e traditore della patria. Il di che Giuliano ragionevolmente adiratosi ordinò all’esercito di procedere all’espugnazione e valorosamente darvi fine; questo, troncato ogni indugio, e memore delle istruzioni per singulo ricevute, si fa coraggioso innanzi. A tal vista i difensori della città, non credendosi a bastanza forti per salvarne le mura, ripararono entro la rocca. Giuliano allora mandò truppe ad occupare la deserta città, ove introdottesi, piantate sopra delle abbassate mura le macchine ed incendiati gli edificj, principiarono a trar dardi e sassi contro ai rinchiusi nel forte; ma il presidio con incessante lanciar di pietre e dardi rigettando gli assalitori mentre assoggettavali a gravissima strage ricambiato erane con egual misura.
L’imperatore adunque fattosi a considerarne la postura, vuoi per acume d’ingegno, vuoi per la molta sua esperienza in guerra, escogitò la macchina qui descritta. Legate con ferro altissime travi e formatavi una quadrangolare torre di contro al forte a poco a poco crebbela in convenevole altezza da agguagliarne le mura. Ordinato quindi ai frombolieri ed arcadori di ascenderla prescrisse loro di scagliare sassi e dardi. I Persiani da ogni lato battuti e dagli assediatoci e dai militi sopra la macchina, dopo qualche breve resistenza promettevano di cedere la rocca se moderate condizioni venissero offerte dall’imperatore. Si convenne pertanto dall’una e dall’altra parte che tutti i Persiani là entro franchi da ogni oltraggio passerebbero nel mezzo del Romano esercito, e ricevuto danaro e vestimenta in quantità determinata consegnerebbero il castello. Mercè di che uomini cinquemila col proprio duce Momosiro ebbon facoltà di partire, non compresivi molti, cui riuscito era sopra lunghe navi pel canale derivante dal fiume di là sottrarsi15. Occupata la rocca, le truppe andando in cerca del contenutovi trovarono abbondantissimo frumento, armi di tutte le fogge, macchine e magazzini colmi di suppellettili e di apprestamenti comunque. La quantità maggiore della granaglia, destinata ad alimentare l’esercito, fu messa entro navi, ed il resto diviso tra la soldatesca. Distribuite furono ai militi le armi solite dai Romani adoperarsi in guerra, e quelle soltanto di uso Persiano si diedero alle fiamme o gittaronsi nel fiume, onde rimanesservi sommerse, ovvero fossero dalla corrente portate altrove.
Tale conquista accrebbe non poca gloria al nome Romano, essendo Bersabòra, dopo Ctesifonte, la più grande e forte città di tutta l’Assiria. Il di che Giuliano piacevolmente fosseticando le truppe, lodavale con dicevole aringa, e guiderdonavane ogni milite con cento nummi d’argento16. Così passarono quelle faccende.
Surena di poi alla testa di molta gente sortito da non so che Assiria città assalì qualche esploratori del Romano esercito, precorsi imprudentemente i loro commilitoni, ed uccise uno dei tre tribuni con parecchi militi da lui comandati: messo di più in fuga il resto pigliò un vessillo con figura di drago, solita dai Romani portarsi in guerra. L’imperatore alla nuova non seppe frenare lo sdegno, ed ito presto, come trovavasi, ad incontrare quelle schiere, costrinsele, quanti in esse poterono campare la vita, a dare le spalle, e ricuperato lo stendale caduto in lor mani, accostossi alla città, ove il nemico, poste insidie, vinto avea gli esploratori, ed entratovi l’arse. Al duce poi che abbandonato avea il vessillo, anteponendo la propria salvezza alla magnanimità Romana, tolse il cinto, ed unitamente ai fuggitivi compagni notollo d’infamia.
Proseguito di là in barca il cammino giunse ad un castello non lontano dalla città nomata Fissenia. Vicino al suo muro aveavi grande fossa dai Persiani empita d’acqua coll’introdurvene abbondevolmente derivandola dal prossimo fiume nomato Naarmalca17. Trapassatala, non destando verun timore di moleste sorprese, avviossi per un sentiero fatto ad arte palude, credendo i Persiani col canale e col l’acqua mandata per la regione di aver posto insuperabile ritegno all’approcciare del nemico:, egli non di meno a corsa precedendo alle truppe, queste teneangli dietro coll’acqua infino alle ginocchia, il pudore non permettendo loro di mostrarsi renitenti a seguire l’imperiale esempio. Tramontato il sole Giuliano ordinò all’esercito quivi dimorante ed agli artifici di calcare sue orme, e tagliati alberi e travi formava ponti sopra de’ canali, gittava terra nel suolo palustre, empieva le alte fosse ed allargava tanto o quanto le anguste vie; tornato poscia comodamente indietro mosse oltre coll’esercito arrivando a Bitra città, ov’era la reggia con edificj sufficienti ad ospitare l’imperatore e le truppe.
Di là partito ed assiduo nelle cominciate fatiche andava innanzi all’esercito per agevolargli il passo. In questo modo condusselo ad altro luogo privo totalmente di fabbricati, ma ingombro d’un palmeto in cui nate eranvi di molte viti che ascendevano co’ tralci alle cime di quelli alberi, e facean mostra di lor uve mescolate di datteri. Quivi pernottato, riprese col nuovo giorno il cammino, ed avvicinatosi di soverchio ad un castello18 per poco non venne ferito da un Persiano, il quale a corsa uscito da quelle mura di già menavagli la spada contro al capo. Ma egli preveduto il colpo e riparato collo scudo invanivalo, ed i militi a lui d’intorno uccisero l’assalitore insiem cogli altri suoi commilitoni, ad eccezione de’ pochi datisi alla fuga in mezzo ai nemici, ed avventurosi tanto da poter riparare nel castello. Giuliano montato in collera per così audace imprendimento osservava quelle mura girandole intorno per trovarvi lato suscettivo di espugnazione. Or mentre diretti eranvi i suoi pensieri Surena di repente investi li militi rimasi nel palmeto, mirando impadronirsi de’ giumenti e della salmeria, ed impedire ad un tempo all’imperatore, uditone, l’attacco del castello; ma non corrisposero i fatti alle concepite speranze. Giuliano poi dava gran peso alla espugnazione di quel forte non lunge da una città nomata Besuchi, popolatissima ed avente all’intorno molti castelli, i cui abitatori disertatili perchè non bastevolmente idonei a procurar loro salvezza, riuniti eransi appunto nel luogo da lui assediato, o corsi a Ctesifonte, ovvero celatisi laddove foltissimo era il mentovato bosco di palme.
Tali motivi persuadevano l’augusto a spignerne gagliardamente l’assedio. Le truppe intanto distaccate dall’esercito per una generale esplorazione onde riferire come stessero le cose ai loro commilitoni, al presentarsi di qualche nemica forza non solo ributtaronla indietro, ma gli uni spenti ed incalciati gli altri in precipitosa fuga rendeano le intraprese operazioni affatto libere da temenza. E poichè taluni degli avversarj provvedendo a sè stessi acquattati eransi ne’ paduli sottoposti al palmeto, gli esploratori delle vie non lasciarono illesi neppur questi, morendone parte e conducendo il resto prigioniero. Quanto è agli assediati, eglino coll’avventar dardi e proiettili d’ogni foggia repulsavano gli ostili assalimenti, e venuti meno i sassi gittavan accese zolle di terra impastate con bitume, le quali in molto numero e da maggiore altezza scagliate di leggieri davan nel segno. I Romani militi avvegnachè superati fossero a cagione di lor più bassa postura, teneansi non di meno fermi rispingendoli con tutte le forze e le arti della bellica scienza, e faceanne vendetta gittando nel castello grosse pietre e dardi, con archi ed ingegni costruiti in guisa che ferir potessero co’ loro tiri non solo un corpo o due o tre, ma eziandio numero maggiore. Indecisa tuttavia la sorte delle armi locato essendo il castello in su d’un colle, difeso da doppio muro con sei torri, e circondato da profonda fossa, che tramandava là entro acqua potabile ai difensori, Giuliano impose alle truppe di agguagliarla al suolo con terra altronde condotta, e di costruire una bastite pari in elevazione alle torri. Ordinò similmente di scavar, terra in altra parte sotto le mura e verso la metà di quello interno, divisando per tali sotterranei cuniculi assalire il nemico. Se non che dal presidio con assiduo dardeggiamene molestati essendo nella esecuzione i militi, l’imperatore stabilì di venire ad aperto conflitto valendosi di varj mezzi a schermo degli ostili dardi e del fuoco. Prepose dunque Nevita e Dagalaifo allo scavo dei cuniculi ed alla costruzione de’ terrapieni19, e consegnate a Vittore le truppe di greve armatura e la cavalleria, prescrissegli di esplorare la regione infino alla stessa Ctesifonte, acciocchè spiando qualche nemica schiera capace, giusta il parer suo, di stornarlo dall’espugnazione, reprimessene colle truppe i conati, ed insieme rendesse con ponti meglio praticabile, tanto per sè stesso quanto per l’esercito, la via, lunga novanta stadj, che alla nominata città fa capo.
Distribuite in questo modo tra’ duci le fazioni, l’augusto approssimate le arieti ad una porta non solo scossela, ma eziandio sciolsene il serrame. Veduto poi eseguirsi con lentezza il lavoro dagli operaj del sotterraneo sentiero levolli di là, e vituperatane la negligenza diedene a nuovi il proseguimento. Condusse quindi un ariete ad altra porta, la quale a simile dovea cedere all’urto; ebbe intanto avviso che le genti ordinate di prolungare i cuniculi dalla fossa insino alla città, pervenuti al termine dell’opera, teneansi pronti ad una sortita, ed eran tre queste coorti, nomate i Mattiarj20, i Laccinarj ed i Vittoriani. Vietato impertanto loro di nulla imprendere pel momento, comandò si trasportasse di colpo la macchina con tutta l’oste ad una terza porta, volendo gabbare il nemico persuadendogli che nel giorno venturo con tal ingegno conquisterebbe la città; ed egli così operava per distorre i Persiani da qualunque sospetto della espugnazione divisata mediante la sotterranea via. Laonde mentre tutta la popolazione rivolgeva sue cure a fracassare l’ariete, que’ dei cunicoli, forata la terra infino alla supersicie, comparvero nel mezzo d’una casa abitata da non so che mugnaia, la quale, a notte ben avanzata levandosi, macinava il frumento. Il primo entratovi, senza accordarle agio di mandar grida, la uccise. Nomavasi costui Superanzio, milite non volgare della coorte de’ Vittoriani; seguito fu da Magno e questi da Gioviano21 tribuno dell’ordine de’ notai, cui altri in copia tennero dietro. Allargatasi a poco a poco l’uscita pervennero tutti nel mezzo della città, donde camminati al muro ivan addosso ai Persiani che fuor d’ogni aspettazione profferivano cantilene, giusta la consuetudine del natio paese, celebrando il valore del proprio re, e schernendo i vani conati del monarca Romano, col dire sarebbegli di minor pena lo impadronirsi della reggia di Giove che della città assediata. Coloro frattanto in quanti abbattevansi davan morte o di ferro o pittandoli abbasso dal muro, non perdonando tampoco nè a fanciulli, nè a donne, salvo un basso numero destinato alla prigionia. Ebbevi tra questi Anabdate22 comandante del presidio, il quale sorpreso mentre correa qua e là pel castello, e legategli le mani fu presentato ad uno con ottanta satelliti all’imperatore. Conquistata non altramente di forza la città, spentine tutti gli abitatori, non età, non sesso ottenendo mercede, e sol piccolo numero prodigiosamente sottrattosi dalla strage colla fuga, la truppa corse a far preda. Abbottinatosi ovunque si atterrò da sommo a imo colle macchine il muro, e distrutti gli edifizj così dai militi come dal fuoco, più non parea che quivi unque mai una città fossevi esistita.
Proceduti oltre giugneano, passando per alcune città di poca rinomanza, ad una chiusura detta Il Parco regale, e formata da muro intorno a vastissimo suolo con alberi di variata specie. Le asserragliatevi fiere provvedute erano di bastevol cibo portato loro dall’esterno, avendo così il re, a suo beneplacito, agio di cacciarle. Giuliano, miratala, comandò che si rompesse in più luoghi quel muro, ed al fuggir delle belve i soldati ferivanle di quadrella. Non lunge di là vide la reggia costruita magnificamente alla Romana usanza, e tale riconosciutane l’architettura sparagnolla, e vietò ai tribuni il farvi guasto veruno, mossovi da rispetto verso la fama che a Romani autori ascriveane la fabbrica.
L’esercito poscia oltrepassati varj castelli pervenne a Sabata, città dell’Armenia23, lontana stadj trenta dalla nomata in prima Zocasa24 ed ora Seleucia. L’augusto con seco la maggior parte delle truppe arrestatovisi da vicino spedisce là entro punta dì esploratori, i quali a forza rendonsene padroni. Il dì seguente egli girandone le mura aocchiò avanti delle porte corpi attaccati a patiboli, e narravano que’ paesani essere degli afsini d’uom che tradito avea all’imperatore Caro una città del Persiano regno. Qui Anabdate comandante dell’antedetto presidio comparve in giudizio per avere assai tempo ingannato il Romano esercito colla vana promessa d’aiuto nel guerreggiare i Persiani, e per ingiuriose parole proferite alla presenza di molti contro ad Ormisda, appellandolo traditore ed autore dell’intrapresa guerra co’ Persiani, e convinto di tali colpe soggiacque a pena capitale 25.
Spintosi vie più innanzi l’esercito, Arinteo frugando in quelle paludi rinvennevi e trascinò seco di molti prigioni. Ora per la prima volta gli esploratori precedenti all’esercito investiti furono da nemiche truppe, ma di colta messele in fuga, cupidamente corrono alla prossimana città. Se non che dall’opposta riva del fiume le reali truppe assaliti i saccardi, i guardiani degli armenti e gli altri tutti colà di permanenza, parte ne uccisero, e parte menaronli via prigionieri. Tale sinistro, il primo dai Romani tocco, produsse qualche smarrimento d’animo nella soldatesca.
Levato da quivi il campo eccoli ad un canale del fiume, costruito da Traiano, se vere le asserzioni di quella gente, nel portare in Persia le ostili sue armi, il quale fiume, ricevute le acque del Narmalache, va a sboccare nel Tigri. L’imperatore adunque comandò che purgato e scandagliato vi si fabbricassero ponti, avendovi in qualche luogo il destro, sopra cui traghettare il numero maggiore dell’esercito. Mentre da questa banda tale operavasi, nemici fanti e cavalieri in gran copia dalla riva di contro procacciavano tenere indietro con assalimenti chiunque osasse tentarne il trapasso. Giuliano, spettatore della nemica resistenza, sentendosi vie più animato a vincere esortava ad iroso i duci ad entrare nelle barche; ma costoro osservando la riva opposta più alta, e formatavi una maniera di siepe, in origine a difesa de’ regali giardini ed a valersene qual muro acconcia, dicevano paventare e dardi e suochi d’ivi lor contro scagliati. L’augusto impertanto perseverando nel far buon cuore all’impresa, due legni26 pieni di legionarj si accinsero al varco, i quali aocchiati non a pena dai Persiani arsi vennero col trarvi grande quantità di roventi dardi. Aumentatasi alla orribil vista nell’esercito la trepidazione, Giuliano ad emendare il commesso errore con iscaltra inventiva: Ecco, disse, è riuscito loro il tragitto, ed or son padroni della riva, avendone conferma dal fuoco nelle barche acceso, come eglino ebbero da me comando nello spedirli, onde annunziarmi il prospero successo del tentativo. Bastò la menzogna, perché tutti come trovavansi, chi montati nelle barche, e chi immergendosi nelle acque dove cimentar poteano il guado, andassero, valicato il fiume, ad appiccar battaglia da vicino co’ Persiani, ed uscitine vittoriosi non solo impossessaronsi della riva, ma ricuperarono ben anche i due semi-abbruciati legni salvandovi que’ legionarj che rinvennero tuttora in vita. Azzuffatisi poscia i due eserciti combatterono dalla mezzanotte infino al meriggio, quando i Persiani, cedendo, a precipizio fuggirono, datovi principio i duci stessi. Erano costoro Pigrasse27, di schiatta e d’onoranze soltanto al re secondo, Anareo28 e Surena medesimo. I Romani quindi unitamente ai Gotti pigliato ad incalciare i fuggitivi, molti ne spensero, oltre di che predarono quantità d’oro ed argento, guernimenti d’uomini e cavalli, letti, mense pur elle d’argento, dai capitani abbandonato il tutto e rinvenuto nella fossa. Caddero nella battaglia due mila e cinquecento Persiani, non più di settantacinque imperiali ebbonsi a lamentare. Venne tuttavia la gioia dell’esercito per così nobile vittoria in qualche modo scemata vedendo il duce Vittore offeso da una catapulta.
Il dì appresso l’augusto fece condurre in piena sicurezza l’esercito di là dal fiume Tigri, e correndo il terzo giorno dopo l’aringo pur egli passavalo in compagnia di tutta la sua guardia, ed arrivato ad un castello (Abuzata dai Persiani detto), vi dimorò cinque giorni. Ripensando poi alla maniera di proseguire il viaggio estimò conveniente che l’esercito, abbandonato il sentiero lungo la riva del fiume, conducesse il piede fra terra, non avendovi più motivo alcuno da supporre espediente l’uso delle navi. Presentataglisi alla mente questa varianza di consiglio e fattene partecipi le truppe ordinò di mettere fuoco ai legni, che subito andarono in fiamme, eccettuatine diciotto Romani e quattro nemici, i quali posti sopra carra accompagnar doveano l’esercito per valersene, come volea prudenza, ne’ futuri emergenti, essendo ora mestieri di terminare l’andata sopra del fiume. Arrivati ad un luogo appellato Noorda pigliarono ed uccisero molti Persiani quivi di stanza. Inoltratisi quindi al fiume Duro ed erettovi un ponte lo tragittarono osservarono poscia che il nemico arso avea tutti li pascoli di quel terreno per ridurre i giumenti Romani alla mancanza di pasciona, e stare egli stesso, ragunate assai genti, in attesa de’ loro avversarj, estimandone basso il numero; se non che miratili di già riuniti dirizzavasi alla riva del fiume. Gli esploratori adunque precedenti all’imperiale esercito impugnando le armi contro d’un Persiano drappello, Macameo, tale di nome e velite d’arma, cedendo a coraggioso impulso andatogli addosso quattro ne uccise, ma contemporaneamente, corsi molti ad investirlo cadde pur egli semispento. Il germano Mauro aocchiatone il quasi cadavere in mezzo de’ Persiani, va, lo toglie, muore colui che dato aveagli il primo colpo, ed avvegnachè nella lotta piagato intrepido tornò all’esercito col fratello ancora spirante.
Camminati a Barosta29, città, trovaronvi abbruciato dai barbari il foraggio. Comparve poscia una Persiana punta mista di Saracini, la quale non comportando tampoco da lontano l’aspetto dell’imperiale esercito dileguossi immediatamente dagli altrui sguardi. I primi quindi, gli uni dopo gli altri, raccoltisi in poco numero e formata una squadra presentaronsi quasi avessero ad affrontare giumenti. L’augusto allora vestendo a fretta l’usbergo a gran passo precorrea l’esercito, ma il nemico ad evitare la pugna divisò battere la ritirata in luoghi a lui noti. Giuliano poscia indirizzandosi al borgo Simbra posto in mezzo a due cittàdi nomate Nisbara e Niscanabe, alle quali divise dal Tigri un ponte forniva mezzo di esercitare insieme pronto e molto traffico. I Persiani lo incendiarono per togliere al nemico, venendogli in fantasia, ogni opportunità di molestarle. Quivi gli esploratori usciti a foraggiare ed avvenutisi ad alcune Persiane coorti fugaronle, e l’esercito fatto bottino d’annona bastevole a’ suoi bisogni, avendovene gran copia, ne sconciò tutto il resto30.
In seguito recatisi infra le città Danabe e Sinca ebbero a sostenere una zuffa coi presidiari del retroguardo Persiano, giuntandovi molti combattenti, ma pur egli il nemico sofferta grave perdita, nè cantando al certo vittoria, diede le spalle. Imperciocchè nella mischia cadde spento un illustre satrapo di nome Dace31, e mandato altre volte in ambasceria all’imperatore Costanzo per trattare seco lui di pace e metter fine alla guerra. Avvicinatisi in appresso i Romani ad Acceta, città, il nemico incendiava quanto era nelle campagne, ma i Romani scorrazzatovi ed estinto il fuoco guardarono ad uso proprio i salvati prodotti.
Continuato il viaggio arrivarono al borgo Maronsa32, ove Persiane truppe assalita la patte del retroguardo lasciatavi di presidio, uccisero unitamente ad altri militi Brettanione lor comandante, mentre pien di valore combatteva, ed impadronironsi a simile delle navi, che a molta distanza seguendo l’esercito sorprese furono da essi. Di là con celere passo corse molte borgate giunsero a Tummaro, ove tutti mostraronsi dispiacenti della combustione del naviglio non essendo bastevoli i giumenti, malandati per così lungo cammino e per le gravi fatiche durate nel percorrere il nemico suolo, a condurre la vittuaglia. Poichè i barbari mietuti ovunque i loro campestri prodotti e rinchiusili in luoghi assai forti impedivanne il godimento ai Romani, i quali, tra queste faccende, osservate le nemiche legioni, chiamate a battaglia e fattane molta strage, vincitori abbandonano il campo.
Il dì seguente, mentre aveavi gran concorso di popolo nel foro, il nemico raccoltosi va precipitoso ed all’imprevista addosso al retroguardo imperiale donde le truppe, avvegnachè disordinate e sorprese da timore al repentino attacco, non ricusan coraggiosamente l’aringo, girando il principe, sempre a sè stesso conforme, loro intorno per animarle a dar saggio del proprio valore. Cominciata la mischia Giuliano ora presentatasi ai capi delle tarme ed ai tribuni, ora locavasi promiscuamente infra le spesse file de’ combattenti, quando nel bollore della battaglia ferito di spada33 vien sopra uno scudo portato nell’augustale, ove giunta la notte a metà del suo corso mandava l’ultimo spiro, lasciando, sua mercè, il Persiano reame quasi agli estremi.
Ignota per anco essendo la morte di lui riuscì al Romano esercito di avvantaggiare per guisa nel conflitto gli avversarj che recò morte a cinquanta potentissimi satrapi e ad innumerevole gente. Addivenuto quindi palese il trapasso dell’augusto e raccoltesi già le truppe vicino alla tenda ove giacea il cadavere, proseguiva tuttavia in parte il conflitto, persistendo parecchi Romani a battagliare e vincere. Alcune Persiane coorti allora sortite dal castello assalito avendo i militi comandati da Ormisda, rinnovossi fiera battaglia, durante la quale uscì di questa vita Antonio34, duce delle palatine legioni, o sia, con Romana favella, maestro degli uffizj. Sallustio a simile caduto da cavallo e sovrastandogli i nemici correa gravissimo rischio di essere trucidato, se una delle sue guardie smontata d’arcione non avessegli porto mezzo di fuggire unitamente a due compagnie solite a circondare l’imperatore e nomate degli scutarj. Del resto non più di sessanta guerrieri, tra quelli che dato aveano le spalle in altra pugna, rammentando il proprio valore e la dignità del nome Romano, pervennero con grande risico al possesso di quel castello, donde il presidio fattosi ad investire gli imperiali si parea che battuti li avesse. Assediate in seguito prestamente quelle mura dal nemico, la nuova guernigione di esse dopo tre giorni di chiusura lanciatasi addosso in qualche numero agli assediatori, potè condursi a salvamento. Dopo di che venuti a consiglio tutti gli ottimati insiem coll’esercito, si consultò a chi fosse uopo conferire il supremo comando35; vano giudicando lo sperare salvezza e viver franchi da funeste sciagure, in mezzo ad ostile esercito, senza un monarca. Il di che ad unanime voto s’innalza all’impero Gioviano prole di Varroniano tribuno dei domestici36.
Gli avvenimenti occorsi infino alla morte di Giuliano passarono come si è qui riferito. Gioviano vestita la porpora e cintosi il capo di diadema camminava a tutto andare ver la patria. Giunto al castello Suma37 la cavalleria Persiana ben provveduta di elefanti pigliato ad investire i Romani travagliavane il destro corno, ove ordinati erano i Gioviani e gli Erculiani: nomi posti alle legioni da Diocleziano e Massimiano, i quali assuntisi l’uno il soprannome di Giove, e d’Ercole l’altro, vollero fregiarne anch’esse le truppe. Da principio per verità queste non teneansi ferme al gagliardo impeto di quelli animali, e molti, fuggendo, perivano; ma quando i Persiani spinsero ad un tempo elefanti e cavalleria, gli imperiali ascesero in erto suolo, ove per ventura trovarono i loro bagaglioni; quivi allora facendo tutti comune il periglio, e da elevato luogo avventando al nemico quadrella, pervennero a ferire alcuni elefanti, che oppressi dal dolore, nè obbliosi di loro usanza, postisi con forti barriti in fuga scompigliarono tutta la cavalleria; di maniera che non solo molti di essi fuggendo uccisi erano dai Romani, ma ben anche non pochi nel battagliare incontravan la medesima sorte. Perironvi a simile tre imperiali tribuni delle legioni valorosamente pugnando, e sono Giuliano, Massimiano e Macrobio. Nell’esaminare dappoi sul campo di battaglia i morti rinvenutovi il cadavere di Anatolio, diedongli onorata sepoltura come permetteva il tempo, avendovi da ogni banda nemici pronti a travagliarli.
Proceduti oltre quattro giorni e sempre bersaglio delle Persiane molestie, seguendone questi ben dappresso le orme nel camminare, ed investiti fuggendo a rotta, pervenuti infine a più largo suolo risolverono valicare il Tigri. Formate all’uopo quasi zatte con otri insieme avvinti, sopra di essi tragittaronlo, e non a pena impadronitisi i militi dell’opposta riva furono anche dai condottieri con tutto il resto, liberi da ogni temenza raggiunti. Ma neppure colà il nemico allontanandosi, anzi vie meglio con poderosa oste minacciandoli ovunque dirigevano il passo, e’ forte pericolavano stretti così da molestie all’intorno, come dalla mancanza di vittuaglia.
Or dunque sebbene tale fosse la condizione dell’imperiale esercito, il re tuttavia, facendogli proposte d’accordi, inviava Surena ed altri autorevolissimi personaggi della monarchia38. Gioviano consentitovi deputa Sallustio prefetto del pretorio ed Arinteo a stabilirne col nemico i patti. Dopo scambievoli parlari adunque si conchiuse una tregua d’anni trenta, gli uni e gli altri aderendovi, a condizione che i Romani cederebbero alla Persia i Babdiceni, i Cardueni, i Remeni ed i Zaleni; oltracciò i castelli, quindici di numero, spettanti alle nominate regioni, compresivi gli abitatori, i campi, i giumenti e tutte le suppellettili locate in essi. Consegnerebbero a simile Nisibi senza la popolazione, accordandosi a questa di trasferirsi ove piacesse all’imperatore. I Persiani occuperebbero eziandio gran parte dell’Armenia, solo brevissimo tratto lasciandone in possesso dell’impero. Approvati da ambe le parti gli articoli ed estesi per man di notaio, i Romani ebbero facoltà di ripatriare col patto di non importunare menomamente le Persiane frontiere, obbligandosi in pari modo le reali genti a rispettare quelle del Romano impero39.
Qui giunto, mi viene in pensiero di far ritorno alle precedenti cose per indagare se in alcun’epoca i Romani poterono a sè stessi imporre di consegnare altrui il proprio, o comportare la menoma cessione di quanto stati erano possessori. E di vero da quando Lucullo, cacciato dal regno Tigrane e Mitridate, primo fu ad acquistare all’impero le regioni tutte insino all’estremità dell’Armenia, ed anche Nisibi co’ suoi confinanti castelli; da quando Pompeo il Grande, mettendo fine a quelle nobilissime geste colla pace da lui dettata, ne rendè stabile ai Romani il possesso; avvegnaché poi, tornati alle armi i Persiani, Crasso, eletto a pretore con supremo potere, lasciato abbia insino al presente giorno turpe nota d’infamia alle armi Romane, fattosi imprigionare nella battaglia per essere poscia condotto in Persia ed ucciso40. Avvegnachè, ripeto, Antonio mandato in seguito a capitanare l’esercito ed invaghitosi di Cleopatra, per negligenza e pigrizia nel proseguire la guerra, e per azioni del nome di sua gente indegne, siasi veduto costretto ad abbandonarne il comando, i Romani tuttavia, sebbene da tali sinistri incolti non perdettero alcuna delle conquiste loro. Pervenuto di poi l’impero nelle mani del solo Augusto ed avendone egli fissato i limiti al Tigri ed all’Eufrate, neppure allora partironsi i Romani da quella regione. Trascorso in appresso lungo tempo, datosi l’imperatore Gordiano a guerreggiare novamente i Persiani ed uscito di vita in mezzo ai nemici41, questi nemmeno dopo così illustre vittoria svelsero dalla Romana giurisdizione un ette delle anteriori conquiste, e tanto pur dicasi di Filippo, il quale succeduto all’impero soscrisse una turpissima pace con essi. Dopo non guari tempo, il costoro incendio propagatosi nell’oriente e di forza occupata la grande Antiochia, penetratene le armi infino alte porte de’ Cilici, l’imperator Valeriano pigliato a combatterli cadde bensì in poter de’ nemici, ma non permise già che tornassero ad occupare que’ luoghi. Bastò la sola morte di Giuliano a perderli, e per modo che infino ad ora i Romani imperatori non poteronne ricuperare alcuno, vedendosi ben anche a poco a poco tolte via molte altre genti, chi di esse postesi di per sè in libertà, chi abbandonatesi ai barbari, e chi ridotte al massimo squallore; e che tale sia la verità lo dimostreremo nel progresso della istoria, addicendone a pruova i fatti stessi.
L’imperatore Gioviano stabilita la pace ai riferiti patti colla Persia nel retrocedere senza tema coll’esercito, avvenutosi ad alpestri e paludosi luoghi, e costretto nel trascorrere il nemico suolo a giuntarvi molti soldati, ordinò al tribuno Maurizio di portare da Nisibi la vittuaglia per le truppe, e con essa al più presto possibile verrebbe ad incontrarle. Spedì parimente in Italia ad annunziarvi la morte di Giuliano e la sua promozione al trono. Accostatosi di poi con grandi stenti e fatiche a Nisibi non volea mettervi piede, come luogo ceduto al nemico; ma pernottato a cielo scoperto in un campo avanti la porta, il di appresso riceveavi corone e suppliche, la cittadinanza pregandolo che non l’abbandonasse, nè assoggettasse a far pruova delle costumanze Persiane chi già da tanti secoli obbediva alle Romane leggi. Essere in vero turpe a rammentare, che Costanzo in tre guerre sostenute contro de’ Persiani, ed in tutte vinto, protesse impertanto mai sempre Nisibi, ed assediata e ridotta agli estremi ebbela premurosissimamente salvata, ed egli non costrettovi da neppur una di tali urgenze, cedendola, metta innanzi agli occhi de’ Romani un giorno prima d’ora mai più presentatosi alla vista loro, tale ridotti da porre sotto il nemico trono cotanta città e sì vasta regione.
L’imperatore, ascoltatili, adducea i fatti accordi, e Sabino, capo dell’ordine decurionale, alle parole in via di supplica proferite dal popolo rispondea: Non bisognare eglino di pecunia nè di esterni aiuti a proseguire la guerra Persiana, forniti di truppe e danaro per respignere chiunque osasse guerreggiarli. Quando poi uscissero della lotta vittoriosi tornerebbero novamente sudditi de’ Romani adempiendone i voleri nella stessa guisa di prima. Al soggiugnere quindi che non era lecito violare le stipulate convenzioni, ognor più i cittadini supplichevolmente insistevano, perché spogliato non venisse il Romano impero di questo baluardo; ma fermo l’imperatore nel rifiutarvisi ed iroso anzichè no abbandonolli. I Persiani accintisi ad occupare, giusta il trattato di pace, i castelli, i popoli e Nisibi, alcuni degli abitatori, privi di mezzi onde ascosamente fuggire, dichiararonsi pronti a farne i comandi. Que’ di Nisibi, impetrata grazia d’una tregua per mutare stanza, nel maggior numero si diressero ad Amida e pochi risolverono stabilirsi in altri castelli. Da per tutto in vero non udivansi che pianti ed urli, ogni città estimandosi colla cessione di Nisibi esposta alle Persiane ruberie. I Carreni provarono sì gran dolore alla nuova della morte di Giuliano, che giunsero a lapidarne il nuncio ammonticchiandogli sopra immenso cumulo di sassi. Cotanta varianza nella repubblica al morir d’un sol uomo venne prodotta.
Gioviano del resto trascorrendo a fretta le città oppresse da lutto e mestizia, i loro abitatori più non potendo, come soleano, mostrarsi lieti e giocondi, avviossi, da tutte le sue guardie scortato, ad Antiochia, e l’intero esercito accompagnando il cadavere di Giuliano condusselo nella Cilicia, ove fu sepolto in tal borgo di Tarso entro regale avello, sovrappostovi l’epigramma seguente:
42 Tigride Julianus jacet heic post fata relicto
Rex pariter bonus, et bellator acerrimus idem.
Gioviano datosi al reggimento dell’impero mandò, passando con silenzio molte altre disposizioni, all’esercito della Pannonia il suocero Lucilliano, Procopio e Valentiniano, eletto in seguito imperatore, partecipandogli la morte di Giuliano ed il suo innalzamento al trono. A questa riferta i Batavi lasciati di presidio in Sirmio di colpo morirono Lucilliano come ambasciadore di cotanto sinistro, a nulla valendogli l’affinità imperiale, e rimandarono sano e salvo Procopio, rispettandone la parentela col defunto. Valentiniano potè, fuggendo, sottrarsi da imminente morte.
L’Augusto partito da Antiochia per alla volta di Costantinopoli e sorpreso da repentino morbo ne’ Dadastani della Bitinia, dovè cedere all’estremo fato, dopo retto l’impero otto mesi43, nè avuto campo intorno alla pubblica amministrazione di stabilire cosa alcuna, come di usanza. Tenutosi dunque consiglio per eleggere il successore, varie furono le proposte così dell’esercito come degli stessi duci; tutti non di meno alla fine consentirono di nominare Sallustio, prefetto del pretorio, ed allegandosi da costui l’avanzata età44 e quindi la insufficienza sua a riparare le malandate bisogne, addimandavano salisse in trono il figlio; ma egli dissuadevali adducendone la giovinezza e l’incapacità di reggere così grave mole, avuto particolarmente riguardo al tempo, in cui se non elevassero all’impero il più eccellente uomo del secolo, forvierebbero. I voti dunque unironsi a favore di Valentiniano, originario di Cibali, città della Pannonia, e nulla sapevole di guerra nè di pace, ed affatto privo di coltura. Lo chiamavano tuttavia, essendo lontano, e così la repubblica non si rimase che pochi giorni priva di monarca. Venuto egli all’esercito di Nicea, città della Bitinia, e pigliate le redini dell’impero, seguitò l’intrapreso cammino.
- ↑ Selva di Boemia lunga sessanta giornate e larga nove.
- ↑ Giuliano maravigliosamente affettava queste inezie di frugalità, giunto essendo a licenziare il barbiere ed il cuoco perché troppo dispendiosi nell'abbigliarsi. V. Zonara. T. S.
- ↑ In questo nome comprende la Gallia Celtica. T. S.
- ↑ Nel parapiglia le truppe, non avendo in pronto un diadema da circondargli il capo, erano per supplirvi con femminile benda, ma egli nol permise ritenendolo cattivo augurio. T. S.
- ↑ Il cui titolo è Μισοπώγων, ἢ Αντιοχικός come dire L’Odiatore della barba, o l’Antiochense. Ammiano l’appella Discorso della riconciliazione. Eccone l’argomento: Gli Antiocheni vedendo partire della città i vivandieri tutti, perché Giuliano diminuito avea i prezzi delle mercatanzie in vendita, prendono tosto a mordere la sua barba, portandola molto lunga, ma egli ribeccane le villanie col divulgare uno scritto, in cui nota col marchio dell’infamia l’effeminatezza loro. T. S.
- ↑ Zosimo in questo luogo a sè stesso impone silenzio per non rendere disaggradevole servigio al paganesimo. Ecco dunque il perchè non fu da Giuliano sacrificato. Nel sobborgo di Antiochia nomato Dafne molti anni addietro Seleuco, padre di Antioco. donde nomossi la città, posto aveavi un simulacro d’Apollo, il quale consultato da Giuliano non potè dargli risposta, la vicinanza d’un busto del martire Babila vietando al Dimonio di profferire verbo. Sozom., lib. V, c. 8 della Storia ecclesiastica. T. S.
- ↑ La descrizione di questo guerresco viaggio merita di essere confrontata con quella che leggesi in Ammiano Marcellino. Lib. XIIII T. S.
- ↑ Mentre aringa costoro, cioè le truppe, alla foggia di quel potentissimo re Serse, arma la flotta capitanata dal tribuno Costanziano unitamente al conte Lucilliano. Ammiano Marcell., lib. cit. T. S.
- ↑ Ore ferì il nostro sguardo un elegantissimo tumulo dell’imperatore Gordiano; così Marcellino. Erroneamente dunque vien posto in Dura da Zosimo, il quale d’altronde in questa descrizione calcò le pedate del prefato autore. T. S.
- ↑ Diacira (Marcellino). T. S.
- ↑ Ozogardana (Marcellino). T. S.
- ↑ Dignità presso ai Persiani che rendea secondo al re, ed ottenuta in premio di grandissimi servigi. T. S.
- ↑ Aveavi tra essi Maleco, Podosace e Filarco rinomato ladrone. T. S.
- ↑ Pirisabora (Marcellino). T. S.
- ↑ Così Marcellino seguito a ritroso dal Nostro: Due mila e cinquecento furono gli arrendutisi, poiché il retto di quella moltitudine preveduto l’assedio erasi partito, sopra piccolo naviglio trapassando il fiume. Lib. cit.
- ↑ Giuliano accortosi che le truppe andavano a rumore per la pochezza di quel dono, aringandole ne biasimò fortemente le pretensioni. Marcellino. T. S.
- ↑ Tal nome di conio in ebraico signisica fiume regale. T. S.
- ↑ Città vien detto da Marcellino e nomata Majozamalca.
- ↑ Nevita e Dagalaifo attendevano alla costruzione dei cuniculi e delle gallerie tessute di vimini a difesa dei lavoratori, e l’Augusto presiedeva ai conflitti, e proteggea dagli incendj e dalle scorrerie le macchine. Marcell. T. S.
- ↑ Nè questo, nè il seguente nome leggonsi in Marcellino, rinvenendovi in cambio scritto: Aperte quelle latebre ne sfugge Essuperio, soldato del numero de’ Vittoriani, seguito poscia da Magno tribuno e Gioviniano notaio. T. S.
- ↑ Forse Giustiniano. V. nota precedente.
- ↑ Nabdate, maestro de’ presidii (Marcellino). T. S.
- ↑ Armenia, o Media. T. S.
- ↑ Coche, presso Marcell.
- ↑ Vivo fu gittato nel fuoco. T. S.
- ↑ Cinque, secondo Marcellino. T. S.
- ↑ Così il testo, ma parrebbe doversi leggere Tigrane. T. S.
- ↑ Leggasi Narsete. Con questi nomi ambo i duci riportati vengono da Marcellino. T. S.
- ↑ Non leggesi questo nome in Marcellino, quantunque abbiavi il fatto. T. S.
- ↑ Intorno all’esposto Zosimo segue Marcellino, avvegnachè riscontriamo infra loro disparità nell’indicare i luoghi, cagione forse la simiglianza de’ nomi – Arrivati ad Ecumbra, villa così appellata, dice Marcellino, e raccoltovi in due giorni tutto il bisognevole, rinvenutavi di più quantità di frumento superiore ad ogni nostra speranza, racconsolati ne partimmo, avendone in prima trasportato quel tanto permessoci dai tempo, e dato alle fiamme il resto. – (Lib. a5 princ). T. S.
- ↑ Adace, Marc. T. S.
- ↑ Maranga, Marcell. T. S.
- ↑ Da equestre lancia, che perforatagli la cute del braccio ed inoltratasi nelle coste, si tenne all’ima parte del segato. Marcellino.
- ↑ Mentre da per tutto non altramente vanno le cose, dopo la partenza del comandante lassatosi il corno destro dell’esercito, Tiene ucciso Anatolio, maestro in allora degli offizj. Marcellino, lib. XXV.
- ↑ Non volle Giuliano eleggere il successore al trono per tema di escludere qualcuno meritevole dell’impero, o di esporre all’invidia altrui il suo promosso. (V. l’oraz. di Giul. presso Marcell., lib. cit.).
- ↑ Non senza opposizione de’ partiti, Vittore ed Arinteo chiedendo uno dei loro, e gli ottimati de’ Galli addomandando persona seco in lega.
- ↑ Sumere. Marcell.
- ↑ Chiederà il re per la nostra liberazione il possedimento di cinque provincie, e sono la Trastigrana, l’Arzanena, la Moxoena colla Zabdicena, la Reimena e la Corduena, unitamente a quindici castelli, a Nisibi, a Singara ed alla rocca de’ Mauritani, opportunissimo forte. (Marcell.) T. S.
- ↑ I Persiani al contrario facevano un ponte per valersene, sottoscritta la pace unitamente alle stipulatevi condizioni, e sedato il turbinio della guerra, a scorrere le campagne e predarne l’affaticato bestiame, ma osservate lor trame scoperte desistettero dal nefando attentato. (Marcellino, lib. XXV). T. S.
- ↑ Il cui capo, dall’imbusto riciso presso de’ Carri, veniva dai nemici schernito. T. S.
- ↑ Marcellino più diffusamente ne parla: Imperocchè riandati gli annali, è mio divisamente non abbiavi altro fatto dall’origine di Roma per cui o dall imperatore o dai consoli si concedesse al nemico parte di suolo; ne mai certo per lo ricuperamento del tolto, ma per nuove conquiste all’Impero, si ottennero le glorie trionfali. V. anche Eutropio, lib. X. T. S.
- ↑ Questo epigramma vien riportato da Zonara in quattro versi. Ora vediamo qual si fosse Giuliano, attenendoci anche al giudizio de’ pagani, poiché Zosimo nulla tralascia così per disonorare il nome cristiano, come per estollere le azioni dell’idolatra ed apostata imperatore. Presso Marcellino vien detto uomo di ben poco ingegno, di copiose parole, e vie meglio superstizioso che non legittimo osservatore della religione. Lo stesso inoltre, sebbene dica Giuliano celebrato dalla fama per la sua giustizia, opina tuttavia disumano l’aver proibito ai maestri di rettorica e gramatica l’insegnare ai cristiani, per tema non abbandonassero il culto de’ Numi. Vedi Zonara, tomo III degli Annali, cap. di Giul.; e Sozomeno, lib. V, cap. 17. Ist. Eccl.
- ↑ Intorno alla morte di Gioviano non sono dell’egual parere gli autori. V. Eutrop., lib. X; Marcell., lib. XXV.
- ↑ Scusa da lui addotta anche dopo la morte di Giuliano.