< Della Nuova Istoria
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Zosimo - Della Nuova Istoria (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1850)
Libro IV
Libro III Libro V


DI ZOSIMO

CONTE ED AVVOCATO DEL FISCO


DELLA NUOVA ISTORIA


LIBRO QUARTO


Nel precedente libro raccolte abbiamo le geste infino alla morte di Gioviano ed all'inalzamento di Valentiniano al trono, e l'operato da lui nello accingersi al governo della Romana signoria. Infermatosi egli nel viaggio e spinto dal morbo, uom per natura inclinevole all'ira, a maggior crudeltà ed estrema demenza, falsamente sospettava derivare l'attuale suo stato da malie con frode apparecchiategli dagli amici di Giuliano. Il dì che promoveansi accuse contro illustri personaggi, le quali venivano dal prefetto del pretorio, esercitandone tuttora Sallustio gli ufficj, con iscaltrimento e prudenza dissipate. Al cessare della malattia partitosi da Nicea si recò in vicinanza di Costantinopoli, ove l'esercito ed i famigliari esortavanlo a scegliersi un collega cui ad ogni evento fidare la repubblica, liberandoli così dalle sofferenze tollerate alla morte di Giuliano1. Egli accetta il consiglio, e seco stesso pensando e ripensando, alla fine determinossi eleggere a compagno, intra tutti coloro presentatiglisi alla mente, il germano Valente, reputandolo più d’ogni altro affezionatissimo alla sua persona; mercè di che destinalo a partecipar seco l’impero. Or dunque mentre ambedue in Costantinopoli dimoravano, gli insidiatori di continuo tartassavano i benaffetti a Giuliano in presenza de’ sovrani per danneggiarli, ed eccitavan la rozza plebe a fare altrettanto. Laonde i monarchi, già di mal occhio vedendo coloro, vie più concepivanne aborrimento, immaginando anche lamentanze affatto prive di ragione. Valentiniano poi disdegnava al sommo il filosofo Massimo, ricordevole d’un’accusa da lui datagli ai tempi di Giuliano, colpandolo d’avere empiamente mancato ai sacri riti in favore della cristiana religione2; ma le militari e civili cure distornavanli per al presente da tali cose.

Laonde rivolgevano i loro pensieri alla distribuzione delle presetture ed a mettere idonei suggetti alla custodia dell’imperiale stanza. Levarono pertanto di carica tutti quelli che da Giuliano ricevuto aveano governo di popoli ed altre magistrature, compreso nel numero eziandio Sallustio, ed eccettuati unicamente Arinteo e Vittore, che proseguirono a ritenere come duci il militare comando. Gli altri uffizj poi furono a sorte conferiti a chi seguiane le parti, e si parea da retta considerazione addimandato questo spediente, acciocchè se avessevene alcuno convinto per giuste querele reo, subir dovesse il meritato gastigo senza fiducia di perdono.

Dopo i riferiti ordinamenti Valentiniano diviso col fratello l’impero deliberò cedergli l’orientale governo, sino all’Egitto, alla Bitinia ed alla Tracia, ritenendosi oltre il reggimento delle città Illiriche, passato in Italia, le costei città ad [uno colle nazioni di là dalle Alpi, colla Spagna, coll’isola britannica e l’Africa. Partito di questo modo l’impero egli principiò ad amministrarlo severissimamente, distribuendone con saggezza le magistrature, e richiedendo col massimo rigore i tributi e la militare annona provenienti da que’ luoghi. Risolutosi quindi alla promulgazione di nuove leggi cominciò le riforme dalla stessa reggia proibendovi le così dette notturne sacre funzioni, mirando a reprimere quelle che scelleratamente portavanne il nome3. Pretestato nondimeno, governatore della Grecia in qualità di proconsolo e specchio d’ogni virtù, esponendo che renderebbesi alle popolazioni fastidiosa e dispiacente la vita se avesse effetto il divieto de’ misteri santissimi introdotti a raffrenamento dell’uman genere, permise, cessando la forza della promulgata legge, lo eseguirli a norma de’riti, e non trascurando veruna delle patrie costumanze nella istituzione loro praticate. Tra questo mezzo que’ barbari oltre Reno, i quali durante la vita di Giuliano paventando il nome Romano teneansi paghi di non essere importunati nelle proprie sedi, all’annunzio della morte di lui, valicati a fretta i consini apparecchiavansi a guerreggiare l’impero. Ma Valentiniano conosciutene le disposizioni apprestava fanti, cavalli ed armati alla leggiera, com’era il bisogno, e guerniva delle necessarie truppe le città site alla riva del Reno, nè privo affatto di belliche discipline tanto operava.

Affollavansi in questa da ogni banda presso a Valente molti sturbi, poichè menato avendo in prima oziosa vita e d’improvviso partecipato l’impero trovavasi inetto a sostenerne il grave peso. I Persiani di più vedendo migliorata lor condizione per la tregua stabilita sotto il defunto imperatore e per essere addivenuti padroni di Nisibi, postisi a predare sfrenatamente e sconvolgere le orientali città provocarono contro di sè l’augusto, al cui uscir di Costantinopoli suscitassi una ribellione essendone Procopio autore. Giuliano, per legami di sangue consegnato avendogli parte delle truppe coll’ordine di avviarsi unitamente a Sebastiano nell’Adiabene e venire ad incontrarlo mentr’egli battendo altro sentiero iva a combattere il nemico, fregiavalo della imperiale veste senza che nessuno congetturarne potesse il motivo4. Ma poscia cangiatosi dal Nume il turno degli eventi, ed asceso, morto Giuliano, l’imperial soglio Gioviamo, Procopio tosto comparvegli innanzi, e deponendo in sue mani il prefato distintivo fecegli confessione del perchè ricevuto lo avesse. Pregavalo ad un’otta istantemente che lo sciogliesse dal giuro addimandato dalla milizia, bramoso di passare a tranquilla vita e dedicarsi allo studio dell’agricoltura ed alle domestiche faccende5. Graziato di quanto chiedea recossi, in compagnia della consorte e della prole, a Cesarea, città de’ Cappadoci, risoluto di farla sua stanza, possedendovi campi di molto prezzo6. Ora mentre colà dimorava, Valentiniano e Valente saliti in trono, avendolo anche da prima per sospetto, mandano di lancio messi ad arrestarlo. Egli senza opposizione si dà loro per essere tradotto ovunque abbiano divisato, implorando soltanto licenza di parlare alla moglie e vedere i figli. Riportatone il permesso invitali a banchettare, e non a pena avvinazzati, di corsa incamminasi con tutta la famiglia al Ponto Eussino, ove montato in nave mette alla vela dirigendosi verso la Taurica Cherroneso. Ma dopo qualche tempo conosciutine gli abitatori di nessuna fede, preso da timore non lo tradissero a coloro che giuntivi ne farebbon ricerca, al passar oltre un legno da carico, tra le notturne tenebre andatovi a bordo con tutti li suoi arriva a Costantinopoli. Quivi ospitato da un antico famigliare7, e datosi a considerare lo stato della città dopo l’imperiale partenza, forma il pensiero ’dì aspirare al trono, dandovi principio coll’impadronirsi di quelle mura.

Aveavi in Costantinopoli un eunuco di nome Eugenio, nè da gran pezza discacciato dalla reggia per segni di poca affezione ai monarchi. Procopio stretta seco amicizia sapendolo in ispecie doviziosissimo, gli appalesa chi egli sia, perchè trovisi in Costantinopoli, e come poter giugnere al divisato scopo. Promessagli da costui assistenza ed anche, all’uopo, danaro, studiaronsi innanzi tutto sedurre con larghi doni la guernigione della città, due corpi di truppe formandone il totale8. Armati inoltre di leggieri molti schiavi, e non pochi offerendo loro volontariamente sè stessi e le proprie facoltadi, a notte bene avanzata guidarono le raccolte forze in quelle mura, scompigliandovi tutti gli abitatori, i quali abbandonate le case miraron Procopio d’improvviso addivenuto re da scena. Surse allora nella città grandissimo tumulto, nè eravi uom di quelli che potuto avrebbero salvar la repubblica nella repentina congiuntura di questo tentativo. Procopio intanto ritenea immaturo il tempo di aprirsi a molti, e che vie meglio riuscito sarebbe a mettere stabil piede sul trono proseguendo a rimanere occulto il suo disegno. Impadronitosi poscia di Cesario, nominato dagli imperatori alla presettura della città, e di Nebridio, succeduto a Sallustio in quella del pretorio; costrinseli a scrivere ai loro suggetti quanto reputava di suo maggior profitto9. Oltre di che in separati luoghi custodivali ad evitar loro ogni comunicazione di configli. Fatte queste disposizioni calcò pomposamente la via del pretorio, e salita la ringhiera innanzi ad esso empì gli ascoltatori di speranze e magnifiche promesse; quindi entrovvi per soprantendere al resto.

Egli di più vedendo che le truppe, non ancora sommesse ad imperiale comando, essendosi Valentiniano e Valente partiti di fresco l’esercito, ivano alla rinfusa qua e là a zonzo stabilì mandar loro gente per trarne il maggior numero possibile al suo partito, agevole riuscita distribuendo così ai militi come ai duci molta pecunia10. Acquistata siffattamente non dispregevol quantità di armati allestivasi ad affrontare il nemico. Spedisce dunque Marcello con milizie in Bitinia ad arrestare Sereniano ed i cavalieri imperiali condotti seco, sperando abbatterli. Ma queglino ritirandosi, fuggendo, in Cizico, Marcello con battaglia navale e colla terrestre soldatesca riportatane vittoria conquistò la città11, donde partito giunse ad arrestare ed uccidere Sereniano campato in Lidia.

Procopio, elevatosi a grandi speranze pel felicissimo avvenimento e per la vittoria, accumulava a poco a poco truppe, e già da molti lo si contava tale cresciuto in forze da poter venire alle armi coll’imperatore, tanto le Romane legioni quanto le milizie de’ barbari correndo sotto le sue bandiere. Oltre di che lo splendore della parentela coll’imperatore Giuliano e lo averlo accompagnato in tutte le guerre da lui sostenute era di molto eccitamento a seguirne le parti. Mandata in oltre ambasceria al principe degli Sciti di là dall’Istro, aveane a confederati di guerra diecimila robusti combattenti, ed altre barbariche nazioni addimandavangli elleno pure di partecipare l’impresa. Escogitando poi che non converrebbegli portar le armi ad un tempo contro ambo gli imperanti, divisò affrontare da prima il più vicino. lasciando alla sua mente il pensiero delle susseguenti operazioni. Procopio queste fila ordiva.

Valente di stanza nella Frigia Galazia all’udire l’avvenuta sommossa impauritosi cadde in grave turbamento d’animo; se non che esortato da Arbizione a far cuore apprestava le milizie di cui poteva al momento disporre, onde accingersi alla guerra, annunziando in pari tempo al fratello Valentiniano i gravi tentativi da Procopio macchinati. Ma questi rifiutavasi al tutto di spedire aiuti ad uno che stato era incapace di vegliare alla difesa e custodia del fidatogli impero. Valente poi ordinandosi alla pugna conferito avea la capitananza dell’esercito ad Arbizione, il quale, non ancor venute le truppe all’armi,usando qualche imperatoria destrezza insidiava alla temerità del ribello12, aescando moltissimi di quelli seco lui militanti per antivederne, ponendoli ad esame, i concepiti disegni. Entrambi gli eserciti da ultimo venuti a battaglia presso Tiatira, nello scontro per poco i seguaci di Procopio, ottenuta vittoria, non portaronlo al trono, quantunque Ormisda figlio del Persiano avente l’egual nome paruto fosse nell’aringo vincitore. Volle non di meno fortuna che Gomario13, altro dei comandanti di Procopio e ad uno imperiale favoreggiatore, nella foga della pugna con alta voce proferisse il nome dell’augusto, al cui grido, come a predisposto segno, fecero eco tutti li suoi commilitoni, e quindi l’intero numero de’ Procopiani passò nelle file di Valente.

Questi dopo la vittoria entrato in Sardi e di là battuto il sentiero della Frigia conobbe esser campato il ribello in Nacolia, città, ove Aplone14 comandante il presidio, ma dall’imperatore tenendo, combinato avea le cose in modo acconcio a favorirlo. Valente di forza conquistatene le mura pervenne ad impossessarsi del rivale, nè trascorso lungo tempo ebbe in sue mani anche Marcello, condannando allora entrambi a morte15. Rinvenuta in seguito presso Marcello una veste imperiale da Procopio consegnatagli, montò in grandissima collera, ed aspramente inveiva contra tutti, non solo andando in traccia di quanti aiutato aveanlo coll’opera, ma di quelli ancora che parteciparonne i consigli e trascurarono appalesarne di lancio i macchinamenti. Nè ricorrendo affatto a legale giudizio incrudeliva verso ognuno, estendendo la sua indignazione tanto sopra i consapevoli de! misfatto, quanto sopra i legati di parentela o di amicizia col reo, avvegnachè non macchiati di colpa veruna.

Tale andando le bisogne delle provincie commesse a Valente, il fratello Valentiniano a dimora presso de’ popoli oltr’Alpi era pur egli esposto a gravissimi ed inopinati sinistri. Poichè i barbari rammentando il sofferto da Giuliano, dopo conferitogli il cesareo potere, non a pena udironne la morte, scossa ogni temenza dagli animi e tornati all’antica naturale audacia, mettevano a soqquadro senza eccezione i luoghi suggetti al Romano impero. Valentiniano adunque ito lor contro chiamolli a sanguinata battaglia, ed i barbari vincitori dell’aringo seguivanne colle armi in pugno le orme. Egli tuttavia determinossi a non evitare colla fuga il pericolo, e tollerato pazientemente lo scacco ricevuto, ne chiese gli autori, coloro intendomi che primi voltarono le spalle. Avutene esattissime notizie comprovanti della rotta in colpa la Batavica legione, comandò fosse ragunato in armi l’esercito, quasi profferir volendo alla truppa in ascolto parole, che dette pubblicamente riuscir potessero vantaggiose all’universale. Ma la sua favella diedesi ad imporre vergogna ed infamia per l’intera vita ai giudicati rei della sconfitta, comandando che spogliati delle armi locati fossero da banda, messi all’incanto come fuggitivi mancipj, e consegnati per essere tradotti, spettatrici le milizie, altrove, a chi ne offerisse prezzo. Alla quale sentenza tutti, prostratisi in terra, supplichevoli pregavanlo che liberasse l’esercito da tanta ignominia, promettendo insiememente di mostrarsi per l’avvenire meritevoli del nome Romano. Laonde ordinato dall’augusto che le dichiarazioni loro venissero dai fatti comprovate, eglino surti da terra ripigliarono, come d’uso, le armi, bramosi di rinnovare l’aringo. Usciti pertanto del vallo così animosamente presero a battagliare che della sterminata barbarica moltitudine ben pochi tornarono salvi alle proprie case. Non altramente giunse a termine questa guerra contro ai Germani.

L’imperatore Valente, dopo la morte di Procopio condannati a pena capitale altri non pochi, e di alto numero applicate al fisco le sustanze, era in imbarazzi ritardanti la Persiana guerra, un grosso corpo di Sciti a dimora oltre il fiume Istro mandando sossopra le Romane frontiere. Laonde inviate a combatterli sufficienti milizie li arrestò, e costrinseli a cedere le armi e ad abitare, fattone scompartimento, nelle sue città site presso quel fiume, comandando che venissero custoditi in carcere, ma liberi dai ferri. Erano costoro gli spediti dal principe della nazione a Procopio per essergli confederati in quella impresa. Lo Scita dunque dimandatane all’imperatore la restituzione, asserendo trasmessi, mediante ambasceria, a chi aveane allora pieno diritto, l’augusto non volle saperne, rispondendogli non essere mandati alla sua persona, ed imprigionati non come amici, bensì come ostili; ripulsa donde trasse origine la Scitica guerra. Valente in seguito udito avendo che il nemico apparecchiavasi a molestare le Romane frontiere ed all’uopo avea di già ragunate frettolosamente le sue truppe, collocò l’esercito presso la riva dell’Istro, e trattenendosi egli in Marcianopoli, principalissima città della Tracia 16, attendeavi del suo meglio alla istruzione de’ militi nelle armi, ed in ispecie a provvederli di tutti i bisogni della vita. Nomò inoltre a prefetto del pretorio Aussonio sollevatone in riguardo alla sua molta età Sallustio, comprendone per la seconda volta la magistratura. Ora il nuovo prefetto, avvegnachè fosse per iscoppiare la tremenda guerra, seguiva non di meno giustizia nella riscossione de’ tributi, non permettendo si aggravasse alcuno oltre il dovere e le somme di che tenuto era al pagamento, e procurando il trasporto della militare annona sopra grande copia di navi da carico alle bocche dell’Istro, e di là con barche fiumali alle città vicine ad esso, rinserrandovela, perchè non avessero le truppe a difettarne.

Durante ancora il verno provveduto in cotal modo ai bisogni della milizia, al cominciare di primavera l’imperatore fatta vela da Marcianopoli ed arrivato co’ presidiarj all’Istro assalì nel campo loro i barbari, che non osando cimentare un pedestre aringo prestamente occultaronsi ne’ paduli donde tramavano clandestine scorrerie. Egli allora comandò alle sue genti di non muoversi, e raccolta la turba de’ bagaglioni promise loro, unitamente ai difensori della salmeria, che premierebbe con determinata somma d’oro chiunque presentassegli la testa d’un barbaro. A tali parole animatisi tutti per la speranza del guadagno, penetrano in quelle selve e paludi uccidendo quanti imbroccar possono. ed al mostrare i capi degli spenti ricevono lo stabilito guiderdone. Morto così gran numero di nemici, il resto con prieghi addimandava pace, e riportatone il sovrano consentimento si passò ad accordi per nulla disonorevoli alla maestà romana17. Imperciocchè dall’una parte e dall’altra si convenne di lasciare agli imperiali affatto salvo da molestie il possesso d’ogni bene avuto in proprio per lo addietro, e di rimanere mai sempre vietato ai barbari il valico del Reno, e lo scorrazzare le romane frontiere.

L’imperatore fermata la pace prende la via di Costantinopoli, ove, passato di questa vita il prefetto del pretorio, sustituisce Modesto nella vacante magistratura, ed ordinatevi le altre faccende corre a guerreggiare i Persiani.

Ora mentr’egli volgea sue cure ai necessarj apprestamenti contro del nemico, l’imperatore Valentiniano, stabiliti in acconcia guisa gli affari de’ Germani, estimò di provvedere eziandio alla futura sicurezza delle Celtiche nazioni. Al qual uopo fatta leva di moltissima gioventù, così infra de’ barbari abitatori lungo il Reno come tra contadini de’ popoli sommessi al romano impero, e scrittala ne’ ruoli militari, addestrò i nuovi soldati per modo alle armi, che nessuna delle genti oltre Reno, paventandone il molto esercizio e la grande sperienza, osò per l’intero spazio di nove anni danneggiare le città soggette all’impero. Un Valentiniano18 trattanto bandito nell’isola Britannica sotto accusa di aspirare alla tirannide vi perdè con essa la vita. L’augusto poi assalito da morbo per poco non pose termine a suoi giorni. Al risanare, i cortigiani di alto grado raccoltisi in consiglio esortavanlo alla nomina d’un successore onde al sopraggiugnergli dell’estremo fato la repubblica non avesse a patire sinistri. Egli dalle costoro parole commosso dichiarò imperatore e collega nella signoria il figlio Graziano giovincello ancora, tocco non avendo compiutamente gli anni della pubertà19.

Intanto che nell’occidentale impero così andava la bisogna, l’imperatore Valente all’orto apparecchiavasi, giusta i suoi primi divisamenti, a guerreggiare i Persiani. A lento passo dunque procede oltre, ed al ricevere le ambascerie delle città soccorre, in quanto fa di mestieri, alle giuste loro dimande. Messo quindi piede in Antiochia attende con diligenza somma ai bellici apprestamenti, ed in quella reggia passato il verno, al giugnere di primavera calca la via di Gerapoli, donde nel guidare l’esercito contro al nemico approssimatosi novamente il verno ripara altra stata in Antiochia, venendo così ritardata la persiana guerra. Nel soggiorno fattovi accaddero non comuni vicende, che propongomi ora di esporre. Un Teodoro annoverato infra gli imperiali notaj, di nobile schiatta, accuratamente cresciuto, giovine tuttavia e quindi facile ad essere trascinato a disoneste azioni dagli adulatori, cadde negli inganni d’uomini perfidissimi, i quali protestandosi eccellenti-nelle lettere persuadongli di essere al tutto ammaestrati in una particolar foggia divinatoria, di maniera che al mezzo di essa congetturare poteano i futuri umani destini. Aggiugnevano di più che bramosi di conoscere il personaggio cui assegnerebbesi dopo Valente il trono istituito aveano un tripode, il quale accennasse loro con rito arcano le contingenze avvenire. Apparvero allora in esso scritte le lettere Θ Ε Ο e di più Δ, bastevoli ad indicare, quantunque non esprimenti la parola intera, la successione di Teodoro, morto Valente, all’impero20.

Il giovinetto imbaldanzito per tali ciance mettesi a frequentare con soverchia cupidigia i cerretani e prestigiatori, seco loro studiando come por mano a così arduo imprendimento. Se non che in questo mentre accusato delle sue trame all’imperatore soggiacque al meritato gastigo. Dopo la costui punigione ebbevi altro fatto di memoria degno. Fortunaziano, prefetto dell’imperial fisco, giudicando reo di sortilegio uno de’ suoi dipendenti, lo condanna alle verghe, e quegli stretto da tormenti appalesa nuovi complici, come a lui noti; il perchè vien trasferito il processo al tribunale di Modesto prefetto del pretorio, avendovi tra’ dinunziati alcuni esenti dalla giurisdizione del primo che proferito avea sentenza. Tornansi dunque a chiamare in giudizio tutti, ed il principe incitato eccessivamente all’ira, prende sospetto di quanti aveanvi celebri nelle filosofiche discipline21, o comunque scienziati, compresivi pur di quegli in onore presso la corte, e rappresentati ora insidiatori. A tale evento non udivansi da ogni banda che pianti e gemiti, essendo piene le carceri d’innocenti vittime, e qua e là vagando quantità di gente superiore alla rimasa nelle cittadi. Oltre di che i guardiani dei prigionieri al capitarne di nuovi protestavansi insufficienti a vegliare il numero de’ già rinchiusi, e paventare, aumentandolo ognor più, e’ non istudiassero nel rinvenire un varco alla fuga. Ai calunniatori per lo contrario, franchi da qualsivoglia pericolo, altro carico non era imposto salvo quello di accusare, e degli incolpati chi riportava mortale condanna senza legittime pruove, e chi veniva privo di sue facultadi, lasciando la consorte, la prole ed i congiunti al colmo della miseria, non mirandosi che ad arricchire grandemente con tali vituperi.

Primo degli illustri filosofi condotti a morte fu Massimo, cui tenne dietro Ilario dalla Frigia, per avere con maggior chiarezza interpretato un dubbio oracolo. Ad egual pena soggiacquero Simonide, Patrizio Lido, e Andronico originario della Caria, tutti pervenuti all’apice del sapere, ed anzi per invidia che per giuste ragioni sentenziati. Permetteasi inoltre, tanta era la generale confusione, ai delatori, accompagnati da chiunque offerivasi loro, l’entrata nelle case, l’arresto de’ primi cui avvenivansi, ed il farne consegna ai carnefici anche senza un precedente giudizio. Festo, a veruno secondo in cosiffatte ribalderie e pronto ad ogni maniera di crudeltà, spedito erasi dall’imperatore nell’Asia col titolo di proconsolo, acciò non rimanessevi scienziato veruno, e dispoticamente ne compiesse la distruzione. Laonde costui, itone in traccia, quanti ne riscontrava, non calendogli punto di sommetterli ad esame comunque, privava della vita, e forzava il resto a spontaneo bando.

A questo modo ebbero fine le sciagure che malmenarono a cagion di Teodoro le cittadi. Valentiniano, quantunque si paresse di aver governato con moderazione la Germanica guerra, addivenuto era increscevolissimo ai sudditi col porre eccessivo rigore nella riscossione de’ tributi, strappandoli con violenza mai più in addietro praticata, ed a colorirne le molestie adducea sì grave essere stato lo spendio per l’acquisto della militare annona. che stretto da necessità dovuto avea spogliare il sisco della pecunia tenutavi in serbo. Il dì che tiratosi addosso l’universale odio menava fierezza oltre il consueto, nè vegliava punto i magistrati onde non si dessero ad illeciti guadagni, giunto a guardare con cipiglio cui fosse derivata gloria da irreprensibile vita. A parlar schietto, ne vedevi i costumi ben diversi da quelli manifestati al principio del suo reggimento. Gli Africani poi mal comportando l’avarizia di Romano22, scelto all’ufficio di prefetto de’ militi presso i Mauritani, vestito della porpora Fermo proclamaronlo imperatore. Valentiniano all’annunzio turbatosi, nè fuor di proposito, comandò tosto a varj corpi della milizia che, abbandonate le guernigioni della Pannonia e della Misia superiore, navigassero alla volta dell’Africa. Dopo la costoro partita i Sarmati ed i Quadi, già per lo innanzi di mal animo verso il duce posto a guardare que’ luoghi (ed erane il nome Celestio), al solcare delle truppe le acque Africane assalgono i Pannonj ed i Misi. Poiché Celestio sorpreso con frode, mancando alla promessa avvalorata da giuramento, il principe loro, ucciso avealo non levatisi ancora dalla mensa i convitati. Laonde i Pannonj esposti furono alle barbariche scorrerie senza sperare aiuto dalle milizie che difendeano eziandio negligentemente i luoghi murati, e non meno dei Sarmati e de’ Quadi travagliavano la regione sita di qua dal fiume. La Misia per converso in tale scompiglio non ebbe a patir danno, resistendo Teodosio maestro delle milizie con grande animo al nemico, e forzandolo a cercare colla fuga salvezza; rendutosi per sì bella vittoria glorioso, potè nel tratto successivo conseguire l’impero; di ciò terremo a suo tempo discorso.

Valentiniano fremente ai ricevuti annunzj passa dai Celti nell’Illirico deliberando mover guerra ai Quadi e Sarmati; dà all’uopo la capitananza dell’esercito a Merobaude, riputato ad ogni altro superiore nell’arte delle armi. Durando più del consueto il verno, i Quadi col mezzo di legati rivolgongli contumeliosi discorsi, ed egli, udendone, corrucciatosi, e ridotto da soverchia ira quasi alla demenza, fu spento da sanguigno afflusso in bocca ostruendone le arterie vocali. Dimorò nell’Illirico mesi nove meno pochi giorni, e terminò la mortale carriera principiato l’anno dodicesimo del suo impero.

Lui morto un fulmine caduto dal cielo in Sirmio arse la reggia insiem col foro, prodigio ritenuto di cattivo augurio per la repubblica da coloro che interpretano sinistramente cosiffatte vicende. In parecchi luoghi tremuoti scossero il suolo, e Creta ed il Peloponneso colla rimanente Grecia ebbero vie più a patirne, ove molte città rovinarono23, la sola Atene e l’Attica regione ite immuni dal flagello, ed eccone il perchè. A quel tempo il pontefice Nestorio ebbe in sogno comandamento di tributare pubblici onori all’eroe Achille, ed in guiderdone la città per l’avvenire non soggiacerebbe a danni. Egli dunque partecipa ai magistrati la visione, ma costoro credendolo, per l’avanzata età sua, delirante, nulla curarono l’avviso. Il pontefice allora tutto dubitevole intorno al partito da prendere fu da consigli divini soccorso, obbedendo ai quali trasportò l’imagine dell’eroe, venerata in piccolo oratorio domestico, sotto il simulacro di Minerva locato nel virginale conclavio, ed ognora che sacrificava, giusta la consuetudine, alla Dea, pur vittime aggiugnea, come portate dai riti, all’eroe. Di questo modo per lui adempiutosi col fatto al avviso ricevuto dormendo, gli Ateniesi andarono esenti dal tremuoto che menò da per tutto rovine, godendo la sola Attica del favore d’Achille. Che poi ciò accadesse ne fa pruova l’inno scritto ad onore dell’eroe dal filosofo Siriano. Tanto a noi piacque aggiugnere, estimandolo non alieno dal nostro argomento.

Morto Valentiniano Merobaude ed Equizio, tribuni delle legioni, sapendo Valente e Graziano di stanza in lontanissimi luoghi, l’uno essendo nell’oriente e l’altro dal genitore lasciato presso gli occidentali Galli, per tema non i barbari di là dall’Istro al mirare i pubblici affari privi d’un capo tramassero scorrerie, chiamato il minor figlio di Valentiniano avuto dalla consorte24 in prime nozze unita a Magnenzio, nè lunge di là a dimora colla madre, introducono abbigliato di porpora nella reggia, contando a pena l’età sua un lustro. Dopo di che Graziano ed il piccolo Valentiniano partitosi l’impero, come opinarono i loro vicereggenti (addimandando così la tenera età d’entrambi), il primo ebbe le Celtiche nazioni con tutta la Spagna e l’isola Britannica, ed il secondo, l’Italia, l’Illiria e l’Africa.

All’Imperator Valente poi sovrastavano da molte bande guerreschi flutti. Gli Isauri (nomati dagli autori vuoi Pisidi, vuoi Solimi o Cilici montanari, serbandoci noi a fare qualche cenno di tali varianze allorquando la istoria presenterà migliore occasione di parlarne), guastavano le città della Licia e della Pamfilia, ed inetti ad impadronirsi di quelle murate, ponevanne a sacco le campagne; al che mandando l’imperatore, fermo in Antiochia, idonee milizie a combatterli, eglino con tutta la preda riparavano sopra alpestrissimi poggi, e le insingardissime truppe spedite lor contro rifiutavansi dall’incalciarli, o dal rimediare in guisa comunque alla trista condizione delle cittadi.

Tale operando gli Isauri una barbarica popolazione assalì le scitiche genti oltre il fiume Istro. Popolazione, ripeto, sin qui sconosciuta e d’improvviso comparsa. Il volgo appellavali Unni, se poi abbiansi a dire Sciti regii, o abitatori dell’Istro con Erodoto, descrivendoli camusi e non atti alla guerra, o che fossersi al postutto dall’Asia trasferiti in Europa, a noi poco monta. Riferirò solo di aver letto nelle istorie che dalla melma deposta dal Tanai il Bosforo Cimmerio, pigliata forma di terra, fornì loro mezzo di passare dall’Asia in Europa. Checchè ne sia, eglino partitisi colle donne, colla prole, co’ cavalli e con le suppellettili di proprio uso giunsero a sorprendere gli abitatori a confine dell’Istro. E’ per verità non potevano affatto nè sapeano pedestri guerreggiare il nemico (e come accingervisi inetti persino a stampare co’ piedi orme ferme sul terreno25, tutto il giorno tenendosi in arcione e dormendovi la notte?), ma gli uni cavalcando all’intorno, scorrazzando gli altri ed opportunamente ritirandosi menavano con assiduo trar d’arco immensa strage infra gli Sciti. Questi adunque per tali frequenti scaramugi ridotti furono, quanti ebbero mezzo di campare la vita, a cedere le proprie abitazioni al nemico, fuggendo sull’opposta riva dell’Istro, ove arrestatisi addimandavano supplichevoli all’imperatore che volesse ricettarli, promettendogli fedeltà e costante alleanza. I prefetti de’ presidj a guardia delle città presso il fiume tardarono rispondere alla proposta insinattantochè fosse nota loro la volontà del principe, il quale permise, spogliatili delle armi, di secondarne la inchiesta. I tribuni legionarj pertanto ed i comandanti delle truppe traghettarono il fiume per menare i barbari disarmati sopra le romane frontiere. Ma che eglino per lo contrario attesero unicamente a scegliere il sesso femminile di avvenentissimo aspetto; a far caccia de’ più avvistati fanciulli per nefando uso, ed a provvedersi di bagaglioni e di agricoltori; ponendo così ogni lor cura in simiglianti nequizie, mettevano compiutamente in abbandono gli ordini di comun vantaggio. Laonde molti barbari di ascoso nel trapasso dell’Istro portarono seco le armi, e calcata la Romana terra affollaronsi, dimentichi affatto delle precedenti suppliche e de’ giuri, in tutta la Tracia, nella Pannonia e nelle Macedoniche e Tessale regioni, predando quanto appariva agli sguardi loro.

Gravissimi perigli conseguentemente sovrastando a que’ luoghi, presentansi messi al principe coll’annunzio di siffatte bisogne, ed egli, combinate alla meglio le persiane brighe, parte da Antiochia, e pigliata la via di Costantinopoli, a gran giornate si fa nella Tracia per guerreggiare gli Sciti. L’esercito, postosi in cammino, seguito dal principe stesso, fu spettatore del portento che sono per narrare. Vide giacente in su la strada uman corpo all’intuito privo di moto e simile dal capo ai pie ad ucciso a colpi di bastone, avente bensì gli occhi aperti e rivolgendoli a quanti andavangli dappresso. Interrogato chi si fosse, di qual patria, e da cui in tanto mala guisa concio egli non rispondea verbo. Il perchè ritenutolo un vero prodigio vien mostrato, colà di passaggio, al principe. Questi eziandio ripeteagli le stesse domande, ma indarno; talchè non estimavasi più in vita osservandone adatto privo di moto il corpo, nè all’in tutto morto apparendone gli occhi nel pieno loro esercizio. Dileguossi finalmente a un tratto il prodigio. I circostanti adunque nella incertezza di consiglio, ebbero ricorso ad uomini maestrevoli nell’interpretare di tali eventi, i quali asserivanlo presagio di quanto accadrebbe alla repubblica: e che sarebbe per durare l’aspetto delle parti ammortite e logore dalle battiture e simili ad imminente morte insinattanto non rimanesse più segno veruno delle iniquità de’ magistrati e degli amministratori; nè a torto vera giudicheremo la spiegazione, mettendo per singulo ogni cosa ad esame.

L’imperatore Valente osservando tutta la Tracia oppressa dagli Scitici guasti risolvè mandare in prima contro alla cavalleria loro i condotti seco dall’oriente peritissimi delle pugne in sella. Questi pertanto avutone il comando, gli uni dopo gli altri ed in poco numero alla volta, uscirono delle porte di Costantinopoli e lanciottando il nemico allontanatosi da suoi commilitoni recavanne ogni dì molti capi. Gli Sciti allora estimando assai difficile impresa il superare la velocità dei Romani cavalli ed i colpi delle aste de’ guerrieri in sella risolverono tranellare la saracenica gente. Laonde, ascose insidie in bassi luoghi, tre di essi tentarono sorprendere un turco, ma la prestezza ed agilità de’ saraceni cavalli ed il sottrarsi de’ cavalieri a piacimento all’essere da maggior copia di avversarj assaliti renderonne vane le concepite speranze. I turchi allora a spron battuto scagliandosi contro de’ più lenti alla corsa feronne sì grande strage che ridottili alla disperazione e’ bramato avrebbero onde evitare un totale sterminio, valicato novamente il Reno, darsi agli Unni. Ritiratisi quindi per lungo tratto dal suolo presso Costantinopoli fornirono mezzo all’imperatore di spignere vie più innanzi le sue truppe. Mentre l’augusto, rivolta la mente a disporre il governo della guerra sovrastandogli cotanti nemici, annoiato era della nequizia de’ magistrati, nè osava nel correre sì gravi disturbi levarli di carica, dubbioso nella scelta di nuovi, non avendovi a parer suo alcuno adatto a compierne i doveri, ecco venirgli innanzi Sebastiano, il quale partitosi dall’occidente, vedendovi gli imperatori, colpa la tenerissima età d’entrambi, incapaci di comprendere da sè stessi le bisogne dello stato e mai sempre secondanti le calunnie degli eunuchi prefetti cubiculari, stabilì calcare la via di Costantinopoli.

Valente pigliata di tutto lingua e noti essendogli i lumi di questo personaggio così nelle belliche imprese come in ogni ramo della pubblica amministrazione, fidagli, nominatolo pretore delle truppe, la capitaneria, con piena autorità, di quella guerra. Sebastiano adunque considerata l’effeminatezza ed infingardaggine somma de’ Bizantini militi e duci, esperti gli uni e gli altri unicamente della fuga e de’ meschini donneschi amoreggiamenti, addimandò soli due mila guerrieri, ma da lui scelti infra le schiere. Imperciocchè difficile opinava il comandare a molta gente avvezza a trascurata disciplina, nè presentare cotanta malagevolezza il presiedere a pochi, e dalle morbide consuetudini disporli ad ornarsi di virili; tornare d’altronde a miglior conto il mettere a ripentaglio scarso numero di combattenti, che non l’intero esercito. Persuaso con tali parole Valente ed ottenuta la fattagli inchiesta non trasceglie i cresciuti nel timore, ed esercitati nella fuga, bensì gli scritti recentemente ne’ ruoli e dalla natura forniti di ottime corporali doti, aventi inoltre l’apparenza, ad un occhio perito nel conghietturare, di riuscire acconci a qualunque impresa venissero animati. Principia dunque tosto ad esaminarne per singulo i naturali doni e col frequente esercizio supplisce il di più. Loda e premia i docili ai comandi, e contro ai disobbedienti veste le sembianze di austero ed inesorabile duce; addestratili così ad ogni arte guerresca ripara in città murate, mirando innanzi tutto alla sicurezza loro. Di là con assidue insidie strignesi improvvisamente addosso ai barbari usciti per foraggio, e trovandone di quelli portanti preda li muore recando in poter suo il bottino; uccide gli avvinazzati, ed altri lavanti i loro corpi nel fiume.

Distrutta con tali rappresaglie quantità di Sciti e dalla tema represso il resto dal foraggiare destoglisi contro invidia, natone quindi astio, e non tardarongli querele appo il monarca, autori essendone i tolti di carica, incitando alla infame azione gli aulici eunuchi. Indotto di questa guisa malvagiamente qualche sospetto nell’imperatore, Sebastiano lo avvisa di non abbandonare la sua dimora, nè cimentarsi a proceder oltre, facile non essendo con tanta moltitudine di gente il venire a dichiarata guerra col nemico, ma far uopo con rigiri ed impreveduti assalimenti accattar tempo onde la diffalta di vittuaglia lo forzi, per disperazione, o alla resa, ovvero a retrocedere dal suolo Romano, e piuttosto sommettersi agli Unni che a miserande stragi solite compagne della fame. Se non se mentr’egli così ammonivalo i favoreggiatori d’un contrario partito eran tutti nell’eccitarlo ad uscire a campo alla testa dell’intero esercito26, come se fatto già cecidio della maggior parte de’ barbari, il principe fosse per riportarne compiuta vittoria. Seguitosi da Valente il consiglio peggiore, il destino anch’egli vi corrispose, ed alle universe truppe guidate senza ordine veruno alla pugna i barbari di colpo iti incontro e rimasi vincitori di gran lunga nell’aringo quasi pienamente giunsero ad annientarle. Ritiratosi poscia l’Augusto a corsa con piccola scorta de’ suoi in una borgata non cinta di muro, fu il luogo attorniato da combustibile materia, ed appicatole fuoco quanti aveanvi là entro militi e borghigiani caddero vittime delle fiamme, nè fuvvi chi rinvenire potesse l’imperial corpo27.

In questa pressochè disperata condizione delle imperiali faccende Vittore comandante de’ Romani cavalieri campato con altri pochi dal massacro avviossi nella Macedonia e Tessaglia e di là nella Misia e l’armonia, ove espose a Graziano, quivi di stanza, l’occorso, insiem colta morte di Valente e colla distruzione dell’esercito. Quegli non molto addolorò udendo la perdita del zio, surta fra loro essendo qualche ruggine, e poichè vedevasi non sufficiente al governo di così malconce popolazioni, occupata essendo la Tracia dai barbari, la Misia e la Pannonia travagliate anch’elleno dai confinanti Sciti, molti de’ quali a dimora presso Reno dati eransi, franchi da impedimento comunque, a turbare le genti, elesse a collega dell’impero Teodosio originario di Canea, città della Ispanica Callegia, guerriero non privo di cognizioni per sostenere un militare comando. Posti dunque sotto il costui reggimento gli affari della Tracia e dell’Oriente, egli incamminossi agli Occidentali Galati per assettare, potendo, le occorenze di que’ luoghi.

Durante il soggiorno dell’imperatore Teodosio in Tessalonica ebbevi grande concorso di forestieri ad esporre pubbliche e private distrette, ed impetrato quanto era conforme a giustizia ritrassero da quelle mura il piede. Trapassato poscia il fiume da immenso stuolo di Sciti abitatori oltre Istro, di Gotti, intendomi, di Taifali e di altre razze solite in prima a vivere insiem con essi, e però forzati a gravare la romana signoria, grande quantità di Unni occupate avendone le terre, l’imperatore Teodosio apparecchiavasi a guerreggiarli con tutte le truppe. Ora questi barbari sparpagliatisi per l’intera Tracia, le guernigioni di quelle città e castella non osavano uscire neppure a brevissima distanza dai luoghi forti e molto meno combatterli in campo. Modare tuttavia di stirpe regale presso gli Sciti, nè da lungo tempo disertato ai Romani e mostratosi fedele ai loro servigi conseguito avea la prefettura de’ militi, condotte sue genti in su d’un colle piano alla cima, quasi colto, ed assai esteso, ivi si tenea, il nemico affatto ignorandone l’operato. Inteso poscia dagli esploratori che tutti gli Sciti, fatto mal uso della vittuaglia, giaceansi in istato d’ebbrezza così nel piano sottoposto al colle ed altrove, come nelle borgate prive di munizioni, comanda a suoi che tacitamente impugnate le sole spade e gli scudi, nè curantisi di maggiori o più grevi armi e del condensamento, giusta l’usanza, degli scudi, assalganli mentre sono dall’eccessivo stravizzo indeboliti. Corso brevissimo tempo dall’ordine ricevuto i militi caduti sopra de’ barbari uccidonli dal primo all’ultimo, ferendone alcuni affatto involti nel sopore, chi tra la veglia ed il sonno, e chi in altre variate guise. Non avendovene più di viventi spogliano i cadaveri, ed impadronitisi delle donne e de’ fanciulli addivengono possessori di quattro mila carri, non volendovene meno pel trasporto di tanti prigioni. Menano a simile in servaggio coloro, i quali seguivano pedoni le carra ed a vicenda, giusta l’usanza di que’ luoghi, stanchi dal camminare e bisognevoli di riposo montavanli.

La Tracia, da prima in estremo pericolo di rovina, dopo tale avvenimento, andandone i Romani debitori alla buona fortuna, racquistò fuor d’ogni speranza colla nemica strage la sua quiete. L’imperiale dominio nell’Oriente, per tornare ad esso, in forza di eguali sinistri poco mancò non soggiacesse all’ultima delle sciagure, quando gli Unni preso a combattere gli Sciti di là dall’Istro, costoro, incapaci di respignerne gli attacchi, pregarono Valente a que’ dì seduto in trono che volesse accoglierli nella Tracia promettendogli vassallaggio e lega, come pure obbedienza a tutti li suoi comandamenti. L’imperatore persuaso delle udite proteste v’acconsente, e divisando avere idonea guerentigia della fedeltà loro crescendone la prole tuttora non giunta agli anni della pubertà sotto altro cielo, manda gran numero di que’ fanciulletti nell’Oriente, destinando a vegliarne la educazione e la custodia Giulio, la cui avvedutezza ed attitudine pareangli più che sufficienti a compiere entrambi gli ufsici. Costui diviseli per le città, ond’eglino trovandosi in molta copia riuniti non avessero mezzo di tramare novitadi, no lunge dai parenti, accordassersi all’uopo. Se non che i piccoli barbari pervenuti alla gioventù, udendo assai a malincorpo entro le città il racconto delle vicende sofferte nella Tracia dalla propria stirpe, infra loro abboccansi, quanti erano a dimora nello stesso luogo, e di celato annunziano ai soggiornanti altrove ch’e’ divisavano assalendo le romane città vendicare le offese tollerate dal proprio sangue e dalla nazione. Giulio conosciutene le mene e privo di consiglio per guastarle, temendone altresi i pronti conati ovunque diretti, risolvè tuttavia di non farne verbo all’imperatore sì per essere questi a dimora nel paese de’ Macedoni, e sì ancora per averne ricevuta la soprantendenza da Valente e non da Teodosio, inalzato di poi al supremo comando, il quale forse ignorava chi e’ si fosse. Fattone pertanto avvertito con lettera il senato Costantinopolitano ed avuta da esso facoltà di por mano a quelli provvedimenti che ritenesse più acconci, allontanò dalle cittadi il sovrastante periglio come prendo a narrare. Chiamati a sè i militari prefetti delle truppe e richiestili del giuramento partecipa loro le sue intenzioni. Eglino, portovi orecchio, spargono voce tra’ barbari di ciascheduna città che l’imperatore largheggiar volendo seco loro non solo di pecunia, ma ben anche di campi, onde amicarli alla sua persona ed al popolo Romano, invitavali a convenire in determinato giorno entro le metropoli. I giovani da sì belle speranze animati differiscono, reprimendo alcun poco lo sdegno, l’imprendere la rovina di que’ luoghi, ed al giugnere il dì stabilito corron tutti dove indicato avea il comando. I militi a simile non dimentichi degli ordini ricevuti, ascesi li tetti al di sopra de’ fori, a colpi di sassi e dardi percuotono la barbarica moltitudine ivi raccolta, proseguendone la strage infinattantochè pervennero a farne totale sterminio, liberando così le Orientali popolazioni dal minacciato disastro28.

Finite in tal guisa, mercè l’accorgimento dei militari prefetti, le calamitadi cui soggiacquero la Tracia e l’Oriente, l’imperatore Teodosio, fermo ancora in Tessalonica, mostravasi accessibile a quanti addimandavano udienza; ma principiato il suo governo dalla voluttà e trascurataggine perturbò gli uffici de’ magistrati messi alla direzione delle pubbliche faccende portando il numero de’ comandanti l’esercito al di là di quello per l’addietro statuito. Pruova ne sia che avendovi da prima un solo maestro della cavalleria ed un prefetto delle milizie pedestri, le stesse magistrature distribuite furono da lui a più di cinque personaggi, donde per la molta vittuaria ebbe aggravio il fisco. Imperciocchè non più a due soli duci ma a cinque ed anche ad un maggior numero veniva per intiero somministrato quel tanto che antecedentemente ricevea ognuno dei due. Espose di parità le truppe all’avarizia di così molteplici magistrati, volendo ciascheduno di essi non una parte, ma il totale, come se due unicamente fossero, ed esercitava altresì quasi la professione dell’oste, dalla militare annona ritraendo guadagno. Nè tuttavia pago aumentò sì grandemente il numero dei prefetti de le ale e dei comandanti le turme che lasciollo del doppio maggiore di quanto fosse per lo addietro, ed intrattanto i militi nulla prendeano delle somministrazioni fatte loro dal fisco. L’enorme avarizia dunque e la negligenza dell’imperatore a tale ridusse le cose. Egli a simile fu il primo a scialacquare copiosissimo danaro per la imperiale mensa, istituiti avendo a cagione della quantità de’ ciòi e della squisitezza nell’apprestarli numerosissimi cuochi e mescitori, che se ci accingessimo ad enumerarli dovremmo por mano a ben lunga narrazione. A che pro inoltre estendere i nostri detti nell’annoverare la immensa caterva degli eunuchi a servigio di lui, molti de’ quali, i più avvenenti soprattutto della persona, destinati erano ad introdurre i meritevoli del buon voler loro, padroneggiando eglino tutto l’impero, ed aventi il potere di volgere a norma dei proprj desiderj l’animo del monarca? Su di essi, ripeto, a che pro intrattenerci più a lungo per dimostrare derivata da sì cattivo reggimento la pubblica rovina? Mentre poi così alla spensierata consumava le sustanze del fisco a beneficio degli immeritevoli era in continuo bisogno di molto danaro, ed a provvederlo esponeva in vendita le prefetture delle provincie a chiunque presentavasi, non curando punto di esaminare la riputazione e la costumatezza de’ candidati, ma giudicandone acconcio chiunque offeriva maggior somma d’oro o di argento; il perchè vedevansi banchieri, cambiatori ed altri esercenti vilissime professioni passeggiare nel foro adorni delle insegne dei magistrati, e le provincie governate dai più danarosi.

Volta la repubblica al peggio da queste innovazioni, ben presto vennero anche meno le forze militari e quasi ridotte a nulla. Era nelle città mancante il danaro esauritane parte dalle eccessive gravezze e parte dall’avarizia de’ magistrati pronti ad opprimere con frodi chiunque non sapea ricorrere ad ogni maniera di sommessione per conciliarsi gli insaziabili animi loro, e rattenuti a pena dal serbare in proprio quel tanto di cui eran costretti a render conto per le occorrenze dello stato. Laonde gli abitatori delle città, afflitti dalla miseria e dalla indiscretezza de’ governatori, conducendo infelice e lamentabile vita dirizzavansi umilmente al Nume pregandolo che volesse liberarli da tante gravissime calamitadi. Imperciocchè vietato ancora non era il frequentare i tempj, e coi patrii riti placarvi le Divinità29.

L’imperatore Teodosio poi osservando molto scemati gli eserciti permise ai barbari oltre Istro di venire, chiunque bramasse, a lui, promettendo loro di scriverli ne’ ruoli militari, ed eglino, consentendovi, al passare in quel de’ Romani posti erano al soldo. Ma considerato in seguito che aumentandone di soverchio il numero potuto avrebbero a bell’agio assalire la repubblica e addivenirne padroni; anzi mirando già la costoro moltitudine superiore a quella delle sue genti, e ripensando che non avrebbevi mezzo, datisi a trasgredire i patti, di tenerli a freno, estimò più vantaggioso di unirne parte a’ suoi militi di stanza nell’Egitto, richiamando in cambio presso di sè qualche numero degli esistenti colà sotto i vessilli delle complete legioni. Venuti all’opera, viaggiavano, a norma dell’imperiale comando, così quelli di ritorno dall’Egitto come questi in cammino per surrogarli, se non che i primi traversando le città quietamente provvedeansi a giusto prezzo i bisogni della vita: gli altri al contrario, privi affatto di ritegno, nel passaggio loro dispoticamente carpivano le cose in vendita ne’ mercati. Concorsi ad un tempo entrambi in Filadelfia, città dei Lidii, gli Egizj di numero assai inferiori ai barbari obbedivano agli ordini de’ loro capitani, ma gli Sciti usurpavansi maggiori diritti. Ora tale dei venditori nel foro addimandato avendo a uno di essi il prezzo stabilito della consegnata merce, il barbaro ferivalo di spada, minacciando insiememente egual sorte a chi osasse farsi aiutatore dell’offeso. Gli Egiziani quivi presenti, compassionando il piagato, esortavano con placidezza gli Sciti a moderarsi da così turpi azioni, dicevoli non essendo a truppe che stabilito aveano di menar vita conforme alle Romane leggi. Queglino allora impugnate le spade gridavano altamente vendetta, ma gli altri, sfogato lo sdegno, appiccanvi zuffa uccidendone più che dugento; il resto allora costretto a fuggire nelle cloache mettevi fine alla propria esistenza. Gli Egiziani dopo la tremenda lezione data loro in Filadelfia onde moderassersi nell’avvenire, persuasi avendoli col fatto che non mancherebbe chi li tenesse in dovere, proseguivano l’intrapreso cammino, e gli altri dirizzavano il passo alla volta dell’Egitto, capitanati da Ormisda, originario della Persia e figlio dell’omonimo, il quale intervenne a quella guerra coll’imperatore Giuliano. Arrivati in vicinanza della Macedonia uniti furono alle prefate legioni, formando un campo ove non aveavi ordine al mondo, non distinzione tra Romani e Sciti, tutti promiscuamente vivendo, non differenza tampoco infra veterani ed i nuovi militi aggiunti ai ruoli. Concedevasi infine a costoro, la facoltà di ripatriare, mandando altri a supplirli, per rivenire quando che si fosse ai Romani vessilli.

Ora gli Sciti fatti sapevoli del gravissimo disordine tra quelle schiere, avendone dai fuggitivi esatte notizie per la molta libertà d’una scambievole comunicazione, estimarono propizio il tempo di cader sopra a popoli con tanta negligenza difesi. Valicato dunque liberamente il fiume e giunti infino ai Macedoni (franchi da ogni ostacolo, ed aiutati in ispecie dai militanti co’ Romani, solleciti ad agevolar loro il passo ovunque diretti) ebbero sentore che il principe con tutto l’esercito camminasse ad incontrarli. Poichè veduti a notte buia grandi fuochi, congetturaronli ardenti a servigio dell’imperatore e delle sue truppe. Avuta poscia conferma dei fatti pensamenti da militi disertori colà riparati, e’ di carriera insiem con essi avviaronsi al padiglione del monarca scorgendoli nella via il chiaror delle fiamme. I soli Romani uniti ai rimasi barbari nelle imperiali file studiaronsi respignerli, ma contro ad un numero assai maggiore non bastando il coraggio loro, poterono tuttavia fornire all’augusto sufficiente agio per volgersi in fuga, dopo la quale proseguirono a combattere infinattantochè, fatto sterminato eccidio de’ nemici, tutti rimasonvi spenti. Che se gli Sciti, tratto vantaggio dalla vittoria, posti si fossero ad incalciare i fuggenti coll’imperatore, di subito al primo grido sarebbonsi di essi impadroniti. Ma contenti de’ riportati vantaggi ed impossessatisi della Tessaglia e della Macedonia prive affatto di truppe, lasciarono libere le città senza recarvi danno alcuno, sperando poterne avere qualche tributo.

Teodosio alla nuova che il nemico partitosi da que’ luoghi camminato era verso la patria, guernì di milizia i castelli ed anche le città murate; di ritorno quindi in Costantinopoli partecipò, scrivendo a Graziano imperatore, l’avvenuto, e che trovandosi le cose agli estremi era mestieri colla massima prontezza ripararvi. Spediti li corrieri con tali annunzj, egli, quasi nulla di sinistro fosse accaduto ai Macedoni e Tessali, istituì severissimi collettori per la riscossione de’ pubblici tributi, e fu ben tristo spettacolo il vedere tutto il non tocco dalla barbarica umanità ingollato dal censo. Imperciocchè non il solo danaro, ma eziandio i femminili ornamenti, gli abiti, quella veste infine che serve, quasi dissi, a coprire il voluto occulto dal pudore, contribuivasi a soddisfacimento delle imposte gravezze, non udendosi per le città e ville che pianti e lamentanze, bramando ciascheduna di esse novamente la comparsa degli Sciti, ed implorandone l’aiuto.

Di questo modo nella Tessaglia e nella Macedonia venivano le popolazioni bistrattate, mentre Teodosio con grande pompa e, dir vorrei, trionfante della sua gloriosa vittoria, mette piede in Costantinopoli, ove nulla standogli a cuore le pubbliche faccende, pone ogni suo pensiero a rendere l’eccessivo uso dei piaceri e de’ sollazzi non inferiore alla grandezza di quelle mura30.

Graziano al ricevere la scritta di Teodosio non poco turbatosi, mandavi bastevoli truppe capitanate da Baudone avente Arbogaste a compagno. Entrambi Francesi di schiatta, amantissimi de’ Romani ed affatto abborrenti dall’avarizia e dal porgere la mano ai doni, erano di parità prudenti al sommo nelle belliche imprese e di grandissima robustezza. Giunti coll’esercito nella Macedonia e nella Tessaglia, i barbari quivi di stanza infin dal principio conosciutene le risoluzioni e l’ardimento ritiraronsi, abbandonati que’ luoghi, nella Tracia, e titubanti sul partito da prendere, hanno da ultimo ricorso ad una frode non diversa dall’antecedente, colle stesse arti studiandosi gabbare l’imperator Teodosio. Al qual uopo inviangli gente di abbiettissima condizione con promesse di amicizia, di confederamento ed obbedienza a quanto fosse loro comandato. Egli persuaso da così belle parole aeraglieli, non avendo ancora dal primo saggio compreso il nuovo inganno. Di seguito a questi altri presentanglisi, ed in pari guisa vengon da lui ricevuti. Così operando ogni cosa tornò, colpa l’imperiale stoltezza, in potere di que’ ribaldi, l’abuso de’ passatempi e delle voluttà alimentando in lui tanta demenza. E di vero, seduto egli in trono quanto havvi di più idoneo a corrompere i costumi e la vita, giunse tant’oltre che quasi l ’ intero popolo, datosi ad imitarlo, stabilito aveavi l’umana felicità. Imperciocchè eranvi mimi e saltatori, che i Numi perdanne la razza, come pure sua vita durante e poscia fu sempre in voga tutta la moltitudine delle oscenità di quella infame e dissoluta musica: donde la repubblica soggiacque a sì enorme corruttela che aveanvi insin emuli delle costoro turpi azioni. Assalivansi inoltre per le città e campagne gli stessi tempj e sacrati de’ Numi; laonde non avendovi alcuno esente da pericoli chi tenea per fede la esistenza degli Iddii, volgea soltanto lo sguardo al Cielo adorandone i sublimi prodigi.

Tale essendo il reggimento di Teodosio l’imperatore Graziano manda al governo delle truppe Illiriche il duce Vitaliano, personaggio non idoneo a riparare quelle malandate bisogne. Mentre costui eravi in carica due frotte delle Germaniche nazioni oltre Reno, capitanate l’una da Fritigerno e l’altra da Alloto31 e Safrace, coll’opprimere i Celti obbligarono l’imperatore Graziano, premurosissimo di liberarsi dalle continue barbariche scorrerie, ad accordar loro, purchè si ritirassero dalle occupate regioni, di passare, valicato l’Istro, nella Pannonia e Misia superiore. Eglino dunque avendo nell’animo, intrapresa la navigazione per detto fiume, di recarsi nella Pannonia, nell’Epiro e, traghettato l’Acheloo, di assalire la Grecia, estimavano da prima necessario il provvedere abbondante vittuaglia, e lo avere lontano Atanarico32, principale di tutta la regia scitica prosapia, onde rimovere ogni impedimento da tergo ai loro conati. Sorpresolo quindi armata mano di leggieri cacciaronlo da que’ luoghi. Egli allora incamminossi a Teodosio di corto risanato da malattia che rendevane dubbiosa la vita. L’augusto andatogli incontro a non breve intervallo da Costantinopoli affettuosamente lo accolse insiem colle genti che formavangli corteo, ed alla morte di lui poco dopo accaduta, ne ordinò i mortori con tanta pompa da farne i barbari stessi le maraviglie, Gli Sciti di più ammirandone l’umanità somma tornati alle proprie sedi rattennersi nel tempo seguente dal molestare i Romani, e coloro che accompagnato aveano il defunto principe, veglianti alla difesa della riva dell’Istro, liberarono per molti anni l’impero dalle nemiche scorrerie.

In pari tempo nuovi prosperi eventi allegrarono la vita di Teodosio, pervenuto essendo a respignere gli Sciti ed i Carpodachi uniti agli Unni, e vinti in battaglia costrinseli a tragittare l’Istro e retrocedere alle primitive stanze. Il perchè videsi tornato il coraggio alle truppe, mostrandosi quasi dimentiche de’ sinistri per l’addietro sofferti; e renduto franco da ogni pericolo agli agricoltori l’esercizio delle campestri fatiche, e’ poterono senza tema condurre al pascolo i giumenti ed il gregge; laonde si parve che Teodosio in tal modo riparasse alle precedenti sciagure. Oedoteo poscia eletto a duce delle pedestri milizie della Tracia raccolto avendo grossissimo esercito non solo infra gli abitatori dell’Istro, ma eziandio presso rimoti e sconosciuti popoli, giunto eravi, e trapassato il fiume colle pedestri milizie e con barche fiumali apportovvi tanta strage che le stesse acque soprabbondarono di cadaveri; nè si agevolmente poteronsi numerare quelli sopra il terreno.

Intanto che di questo passo correano gli affari della Tracia, avvenimenti non mediocri nè di facile soluzione circondavano Graziano, il quale porgendo orecchio a coloro che nelle reggie pervertir sogliono i costumi de’ monarchi, diede ricetto ad alcuni fuggitivi Alani e posti infra le proprie schiere ed onorati di sontuosi doni, reputavali meritevoli di fidar loro le più gravi cure senza riguardo veruno agli altri suoi duci33.

Or bene, così operando spargeva nelle rimanenti milizie semenze di odio, il quale a poco a poco cresciuto ed ito in fiamme, spinse a brame di novitadi così il resto delle truppe come in ispecie quelle a quartiere nelle isole Britanniche, essendo esse principalmente inchinevoli alla disobbedienza ed allo sdegno; venivano di più stimolate da Massimo originario della Spagna e stato commilitone dell’imperatore Teodosio nella Britannia. Egli comportando assai a malincorpo il vedere Teodosio inalzato al trono e sè stesso privo di qualche orrevole magistratura, sempre più stimolava le milizie ad astiarlo, e quelle, incitate di leggieri alla ribellione, acclamano imperatore Massimo consegnandogli ad uno col diadema la porpora, ed all’istante, in navi solcato l’Oceano, furono alle bocche del Reno. Gli eserciti allora di stanza nella Germania e gli altri lunghesso quel suolo approvando con benevolenza somma il ribello, Graziano lo contrariava minacciandolo di battaglia. avendo ancor seco molta parte dell’esercito. Accostatesi maggiormente le truppe, durante cinque giorni ebbonvi soli schermugi infra loro. Graziano quindi all’osservare che tutti i cavalieri Mauritani alla bella prima abbandonatolo acclamato aveano Massimo augusto, ed anche i rimanenti andavano a passo a passo unendosi al contrario partito, uscito d’ogni speranza fuggì a tutta carriera, scortato da trecento cavalli, prendendo la via delle Alpi. Se non che rinvenutele sguernite affatto di soldatesca camminò alla volta de’ Reti, de’ Norici, della Pannonia e dell’alta Misia. Massimo allora, tenendogli addosso gli occhi, mandonne sulle tracce Andragazio maestro della cavalleria, originario del Ponto Eussino, il quale pareagli suo intrinseco amico, ed avente cavalli tollerantissimi della fatica: questi perseguitando senza posa Graziano e raggiuntolo in Sigiduno, al valicar del ponte l’uccide, rendendo colla morte di lui più fermo nel ribellato l’impero.

Qui non dobbiamo passar con silenzio una storica notizia non disdicevole al nostro argomento. Ne’ collegi sacerdotali di Roma i pontefici godeansi della massima autorità, e la denominazione loro traslatata in greco equivarrebbe a Gefirei, come dire pontali34. Vennero poi così appellati dal fatto che prendo a narrare. Allorquando l’uomo ignorava tuttora che si fosse culto rappresentato da imagini, i primi simulacri de’ Numi comparvero nella Tessaglia, nè avendovi a que’ dì sacrati (sconosciuti pur essi) locaronsi le scolpite divine figure sul ponte del fiume Peneo, derivando a coloro i quali compierne doveano i sacri riti il nome di Gefirei, dal luogo ove tali raffiguramenti ebbero da principio sede. I Romani poscia dai Greci ricevuto avendo siffatta pratica nomarono anch’eglino pontefici i presidenti de’ collegi sacerdotali35, statuendo insieme di annoverarvi, in considerazione della sublime dignità, gli stessi loro monarchi; Numa Pompilio fu il primo a possederne la onoranza, che passò, lui morto, a tutti i regi successori, de’ quali terminata la serie pervenne eziandio ad Ottaviano ed agli altri che di seguito inalzati furono al Romano trono. Laonde non a pena elettosi il nuovo imperatore e’ ricevea dai pontefici la sacerdotale veste ed il titolo di pontefice massimo. Nè forse andremmo errati dicendo che tutti que’ principi accettarono con piacere sommo il religioso primato e si valsero dell’unitovi nome. Costantino pur egli, sebbene deviasse in materia di culto dalla retta via coll’abbracciare la fede cristiana, all’ascendere l’imperial soglio ne fu decorato, e di parità quanti per ordine gli succedettero nel supremo comando seguironne l’esempio infino a Valentìniano e Valente. Il solo Graziano all’essergli offerta dai pontefici, giusta la consuetudine, la sacerdotale veste non volle saperne, disdicevole reputando a un cristiano il farne uso; rendutala pertanto ai flamini è voce che il regolatore di quel collegio proferisse: Se il principe disdegna appellarsi pontefice, corso assai breve tempo addiverrà pontefice massimo36.

L’impero di Graziano giunto nel prefato modo alla fine, Massimo, opinandosi già in possesso del trono, inviò ambasceria all’imperatore Teodosio non per addimandargli perdono dell’operato contro a Graziano, ma per notificargli serie proposte. Capo della mandata era il prefetto degli augustali cubiculi, non eunuco (il ribello comportar non potendo che la custodia del pretorio si commettesse a castrati), ma uomo rispettabile per l’età sua, ed uno di quelli rimasi ognor seco infin dal principio di lor vita. Chiedeva poi il legato a Teodosio alleanza, concordia e società di guerra contro a qualunque nemico de’ Romani, e non consentendo alle inchieste denunziavagli nemicizia e guerra. Teodosio accordava a Massimo la imperiale dignità e reputavalo ad uno meritevole di partecipare seco lui le statue e l’imperial nome, intanto che di occulto preparavasi a guerreggiarlo, e con ogni guisa di adulazione e di riverenza studiava tendergli insidie; e così oltre proceduta erane la impostura che tra le altre cose ordinate a Cinegio prefetto del pretorio, spedendolo nell’Egitto a proibire generalmente il culto dei Numi ed a chiuderne i tempj, aveavi quella di mostrare agli Alessandrini l’imagine di Massimo locandola in pubblico sito, e concionando al popolo dichiararlo suo collega nell’impero. Cinegio in adempimento de’ ricevuti comandi serrò per l’Oriente, per tutto l’Egitto e nella stessa Alessandria le porte dei templi, e vietò i sagrifizj mai sempre coi patrii riti celebrati. Gli avvenimenti cui da quindi innanzi infino ad oggi il Romano impero soggiacque verranno a parte a parte esposti dalla intrapresa loro menzione.

Verso i medesimi tempi comparve oltre l’Istro scitica gente, sconosciuta per lo addietro da tutti gli abitatori di là e nomata da essi Protinghi37. Costoro presentatisi in molto numero, ben provveduti delle necessarie armi e d’una eccellente robustezza di corpo, senza fatica al mondo camminato il suolo degli interposti barbari. pervennero alla ripa stessa dell’Istro addimandando licenza di tragittarlo. Promoto comandante delle truppe ivi di stanza fatto inoltrare gli eserciti, tutto quel mai che potè, lunghesso la minacciata riva, impediva al nemico di valicare il fiume, e mentre così operava rinvenne all’uopo altro spediente che prendo a narrare. Chiamati a sè alcuni sapevoli di quell’idioma, e nei quali stabilito avea di porre tutta la sua sidanza in tale faccenda, inviali a tener discorso infra loro di tradimento. I messi adunque esibisconsi, mediante larghissimo premio, a renderli padroni del Romano duce insiem coll’esercito. Risposto dal nemico che la grandezza del guiderdone richiesto oltrepassava sue forze, eglino per vie meglio accreditare i proprj detti rigettavano ogni scemamento dell’addimandata somma. Accordatisi da ultimo gli uni e gli altri sul prezzo della tradigione combinano i mezzi onde riuscirvi, e di sborsare all’istante ai traditori una parte della pecunia, ed il resto dopo conseguita la vittoria. Convenuti i segnali ed il tempo di por mano all’opera, gli inviati, di ritorno, manifestano al duce il patteggiato con essi, e che a notte ferma queglino accingerebbonsi all’opera trapassando il fiume per opprimere d’improvviso le Romane truppe.

I barbari dunque locato in molti paliscalmi il nerbo dell’esercito, ordinarongli di principiare l’azione col sorprendere le imperiali milizie nel sonno già immerse; comandarono similmente ad altri, i quali per la vigoria dei corpi teneano il luogo di mezzo, che porgessero aiuto,cominciato l’attacco, ai primi. Quindi tutto il resto della età disutile terminato l’aringo, farebbesi innanzi. Il duce Promoto pienamente informato di queste arti dai finti suoi traditori, preparasi ad invanire i consigli del nemico disponendo le navi per modo che le prore delle une stessersi rimpetto alle altre. Compone quindi l’andamento dell’armata navale di tre legni in largo, ed avuto speciale riguardo alla estensione occupa per lo spazio di venti stadj la ripa dell’Istro, vietandone così allo Scita il tragetto, ed agevolando il mandare a fondo i paliscalmi che tenterebbero forzare il passo. Coloro traendo vantaggio da una notte priva di luna, e non sapevoli affatto del Romano apprestamento, pongonsi all’impresa entrando silenziosi nei preparati legni e certi che di tali insidie non abbiano sentore alcuno i difensori dell’opposta ripa. Fatti quindi i segnali, notificati appuntino dagli autori della tradigione al duce, questi appressatosi più da vicino al nemico apparecchio, ed andandogli contro con grandi navi da fortissimo remeggio spinte sommergevane i paliscalmi a cui avvenivasi, nessuno de’ barbari nel fiume rovesciati campar potendo la vita a motivo della pesante armatura. Oltre di che tutti i paliscalmi riusciti ad evitare gli imperiali in giro sopra le navi, abbattutisi in quelle disposte per lungo tratto presso alla riva, a qualunque di esse accostavansi ricevuti erano a colpi di dardi e ad uno colle genti in armi affondati, di maniera che, andato in vano tutto il cimento, nessuno pervenne a superare il broccato de’ Romani legni.

Tanta poi fu la strage da mancarne esempio in altra battaglia navale, mirandosi il fiume coperto di cadaveri e di quelle armi, le quali per la materia donde componevansi eranvi galleggianti. E sia pure che ad alcuno tornato fosse bene il valico notando, egli era certo accostandosi alle truppe di guardia sulla riva del fiume d’incontrarvi morte. Distrutto in questa guisa il fiore del barbarico esercito le truppe diedonsi al saccheggio, trascinando seco le donne ed i fanciulli unitamente agli ostili arredi. Quindi Promoto condottiero delle milizie presentossi all’imperatore Teodosio, non lontano di là, testimoniandogli col fatto il prospero evento del suo stratagemma con sì grande bravura condotto a fine. L’augusto ammira la moltitudine de’ prigionieri e l’immenso bottino; ordinato poscia si mettessero in libertà i primi, diede loro congedo aescandoli eziandio con doni, speranzoso di trarli spontaneamente, in virtù di tanta clemenza, a seguire le sue parti; opinava d’altronde valersene con profitto nel guerreggiare Massimo.

Promoto dunque conservando la prefettura della Tracia teneasi di celato pronto alla guerra da noi ricordata. Qui giova riferire nuovo caso avvenuto in quel tempo. Nella Scizia contigua ai Traci havvi città di nome Tomos, ove Geronzio, uomo robustissimo di membra ed atto ad ogni bellica fazione comandava il presidio; fuori dalle sue mura soggiornavano parecchi barbari collocativi dall’imperatore, fatta scelta dei valentissimi, e donde i corpi dalla natura conseguito aveano assai pregevoli doti e gli animi erano, senza pari, di gran coraggio forniti. Costoro, mercè dell’imperial favore vie meglio nutriti e guiderdonati della rimanente soldatesca, anzichè ricompensare le molte cortesie ricevute mostrandosi benivolenti, ivano dispregiando il prefetto e vilipendendo le Romane truppe. Laonde Geronzio conosciutone il mal animo e le pratiche formate entro quelle mura per isconvolgere lo stato della repubblica, determinossi a punirne l’insolenza e le villanie, palesando i fatti concepimenti ad alcuni prudentissimi suoi militi. Se non che al mirarli per lo timore titubanti, paventandone l’andatura stessa, egli impugna le armi ed apprestatosi con pochi seguaci a combatterli, spalancate le porte, esce di Tomos. Le truppe o assonnate ancora, o quasi da ceppi ai piedi strette, ovvero montate sulle mura aocchiavano l’esito dell’imprendimento; i barbari poi schernivano la pazzia di Geronzio, ed estimandolo bramoso di morte, inviano a combatterlo una mano d’uomini baliosissimi. Il duce venuto alle prese col primo inoltratosi a cominciar la mischia, destramente maneggiando lo scudo, regge con valor sommo all’aringo infinattantochè tale de’ suoi compagni, vedendo la terribile affrontata, percuote dì spada l’omero dello Scita, precipitandolo giù di sella. Sorpreso il nemico della fortezza e valentia del suo rivale, questi va ad incontrare nuovi cimenti. I militi allora spettatori di su le mura delle gloriose geste del proprio comandante, e rammentando il nome Romano corrono ad investire i barbari, che atterriti dai comparsi a guerreggiarli di leggieri vengono uccisi; i fuggitivi riparano entro un edificio in venerazione presso de’ cristiani e ritenuto asilo.

Geronzio liberata la Scizia dagli imminenti pericoli, vincendo con bravura somma e grandezza d’animo i barbari assalitori, attendea qualche premio dal monarca. Teodosio in cambio, forte sdegnatosi per la strage di que’ suoi prediletti da lui sì tanto onorati avvegnachè dannosi alla repubblica, di colpo ne lo riprende e chiedegli ragione dell’operato valorosamente a pro de’ Romani. Il duce accusali di ribellione contro all’impero, ed insieme rammentane i ladronecci e le molestie recate a quelli abitatori. Teodosio non consentendogli punto, ostinasi nel dire ch’e’ non mirando al pubblico vantaggio, ma preso dalla cupidigia di usurpare gli imperiali doni mandati loro, determinato erasi a privarli della vita onde più non avessevi mezzo di convincerlo del commesso delitto. Geronzio rispondagli di aver mandato eziandio que’ presenti (auree collane offerte loro dal principe), morti ch’e’ furono, al fisco. Distribuiti poscia i suoi averi agli eunuchi ebbe a pena tempo di sottrarsi dai sovrastanti mali; degno guiderdone, convien pure tale nomarlo, di sua fedeltà verso la Romana signoria!

Sotto l’impero di Teodosio ite così in rovina le pubbliche faccende, nè avendovi un che di bello, tendente a virtù e meritevole di lode, ma cotidianamenle vie più crescendo ogni maniera di sollazzi e di lusso, ì cittadini di quella grande Antiochia in Siria annoiati dalle tante accumulate gravezze, tutti li giorni escogitate da chi erane alla direzione, ribellaronsi, dandovi principio col gittare turpemente abbasso le statue degli augusti, ed a tramandar grida e motteggi convenevoli all’operato ed alla popolaresca galanteria loro. il principe aontatosi di questi procedimenti minacciavali di punire come ai volea tanta scelleratezza. L’ordine decurionale pertanto dottandone lo sdegno divisò inviare legati a scusare la colpa incorsa dalla plebe. Manda all’uopo Libanio d’una rinomanza bandita da’ suoi libri, ed Ilario di specchiai issi ma famiglia, ed assai valente in ogni genere di erudizione. Il primo, orando alla imperiale presenza e del senato intorno alla sedizione giunse a calmare l’astio del principe contro agli Antiocheni ed a riportarne, smenticata ogni nimicizia verso la città, l’incarico di proferire altre parole sul riconcilianiento38. Ilario, commendevole per virtù somma, ebbesi la prefettura di tutta la Palestina.

A tale ridotti gli affari dell’Oriente, della Tracia e dell’Illirico, Massimo reputando sconvenevole alla sua persona il comandare a que’ soli popoli da prima suggetti a Graziano, mulinava spogliare del regno Valentiniano, se dalla fortuna assistito, o almeno, deluse quanto alla totalità le concepite speranze, della parte maggiore che dato fossegli conquistare. Dominato da questo desiderio apparecchiasi al passaggio delle Alpi ed a metter piede in Italia; ma notando che necessariamente calcare doveansi angusti sentieri e disastrosissimi poggi confinanti con laghi e paduli, unicamente d’accesso a lenti e con grande agio viatori, non già ad eserciti, andava in traccia, sospendendo la partenza, di miglior consiglio. Valentiniano frattanto da Aquilea mandagli chiedendo maggior sicurezza d’una stabile pace. ed egli con dissimulazione accoglie d’ottimo grado la dimanda. Laonde il principe spedisce colà Donnino originario della Siria, di molta intrinsichezza e poter sommo presso di lui, ritenendolo per fedeltà e maneggio degli affari superiore ad ogni altro; il perché senz’aprirsi con persona, stabilito avea di fidare in ispecie a costui le fatte deliberazioni. Donnino, presentatosi a Massimo ed espostagli brevemente la sua mandata, riceve graziosissima accoglienza, prodigati venendogli sublimi onori e sì larghi presenti da persuaderlo non avesse l’imperatore Valentiniano amico eguale a Massimo; questi infine spinse tant’oltre l’inganno che cedettegli eziandio qualche numero delle sue truppe, onde l’imperatore vie meglio potesse combattere i barbari minaccianti la Pannonia all’impero suggetta. L’ambasciadore, terminata la sua missione, retrocedendo lietissimo per la copia ed il pregio dei ricevuti doni e pe’ soccorsi accordatigli, agevolò imprudentemente a Massimo la via di far ritorno dalle Alpi ne’ proprj Stati. Mercè di che il ribello, prevedendo quanto era per succedere, disposto l’occorrente, lo seguì coll’intero esercito preceduto da parecchie guardie in silenzio, ed aventi ordine di porre ogni cura nell’impedire che nessuno di corsa inoltratosi annunziassene ai compagni di lui la venuta in Italia; vigilanza di ben facile esecuzione, rimanere occulto non potendo chi dalle strettissime gole delle Alpi attenta proceder oltre. Inteso poscia che Donnino colle sue genti penetrato era in quelli rinserrati poggi ed inaccessibili passi, come pure nel contiguo palustre suolo di assai grave imbarazzo al transito di molta soldatesca, senza tema di ostilitadi mei tesi in cammino, ed entrato in Italia conduce le truppe ad Aquileia.

Valentiniano per così repentina sorpresa non avendo più nulla a sperare, anche i suoi famigliari cominciarono ad intimorirsi non Massimo, addivenuto padrone, lo morisse. Laonde montato in nave pigliò la via di Tessalonica, unitamente alla genitrice Giustina, consorte in prima di Magnenzio, come narrato abbiamo, e lui morto passata a seconde nozze, per le sue eleganti forme, con Valentiniano; ella menava seco la figlia Galla. Dopo così lunga navigazione afferrati a Tessalonica inviano ambasceria a Teodosio pregandolo che almeno ora punisca tanta insolenza verso tutta la famiglia di Valentiniano. Teodosio, all’udirne, da maraviglia sopprappreso, mette in obblio alcun poco il soverchio lusso ed il fosse correr dietro alle voluttadi. Tenuto quindi consiglio, fuvvi deliberato ch’egli con parecchi senatori battesse il sentiero di Tessalonica. Giuntovi, si consultò di nuovo intorno alle rimanenti operazioni, ed unanime fu il voto di punire Massimo delle reità commesse; male addicendosi il mirare tuttora vivente il carnesice di Graziano e l’usurpatore di quel regno, privato avendo il germano, quasi non pago ancora, di quanto gli competea. L’imperatore avverso a queste reminiscenze per quella sua naturale effeminatezza ed infingardaggine di vita in lui sin qui dominanti, mostrasi poco disposto a cimentarsi colle armi, adducendo i mali cagionati dalle civili guerre, e le mortali piaghe che necessariamente ne proverrebbero da ogni banda alla repubblica; divisava in cambio di far precedere un’ambasceria, e se il ribello consentisse restituire a Valentiniano i fraterni dominj ed ottenere la sua quiete si dividerebbe, non dipartendosi dalla primiera forma, infra tutti l’impero: ove poi dall’avidità si lasciasse vincere, e’ procederebbe di colpo a guerreggiarlo. Contro a siffatta proposta nessuno de’ consultori osava profferir suggerimenti in qualche modo più vantaggiosi all’universale.

Giustina allora, non priva di esperienza negli affari, nè mancante di lumi per dar loro migliore andamento, e conoscendo l’animo di Teodosio propenso ad amorose passioni, mettegli innanzi Galla sua prole, donzella di avvenentissime forme, ed abbracciandogli le ginocchia supplichevolmente lo esorta a non volere impunita la morte di Graziano cui dovea l’impero, ne a permetterne l’avvilimento della famiglia scaduta d’ogni speranza: e così favellando presentagli la fanciulla cospersa di lagrime e deplorante i suoi destini. Teodosio portole orecchio e preso insieme dalla bellezza della giovinetta, non potè a bastanza occultare i delineamenti del suo volto più che idonei a rendere palese la ferita da quella graziosissima sembianza ricevuta; differiva tuttavia il decidersi animandole intrattanto a non disperare. Se non che sentendosi di giorno in giorno vie più ardente d’amore per Galla, visitando Giustina addimandale in matrimonio la figlia, passata già di questa vita Placilla sua prima consorte. La genitrice rispondeagli che solo consentirebbe all’inchiesta quando e’, portata la guerra a Massimo, vendicato avesse la morte di Graziano e restituito a Valentiniano l’impero del genitore. A tali condizioni egli impetra le addimandate nozze e pone ogni suo pensiero nell’apparecchiarsi ad impugnare le armi. Eccitato inoltre da colei si conciglia l’affetto delle truppe coll’accrescerne l’annona ed ammenda, così volendo la congiuntura, le sue negligenze attendendo eziandio a tutti que’ provvedimenti che potrebbero occorrere dopo la sua partita. Il dì che morto in sulla strada, al tornar dall’Egitto, Cinegio, prefetto del pretorio, iva pensando al nuovo magistrato, ed a molti personaggi ravvolgendo più e più fiate la sua mente, rinvenne da ultimo l’idoneo a coprire il vacante posto. Mandato dunque in Aquileia per Taziano, il quale stato era in altre cariche sotto Valente, mostrandosi peritissimo in tutti gli affari, lo nomina, essendo in patria, all’antedetta prefettura, e speditegli le insegne di essa, inalzane il figlio Procolo alla urbana pretura. Nè v’è a ridire che operasse allora egregiamente fidando cotanto elevati ufficj a coloro dai quali ognuno potea ripromettersi, lontano il principe, ottimo governo delle pubbliche cose. Diede altresì a Promoto la capitananza delle truppe in sella ed a Timasio la condotta de’ pedoni.

Ritenendo ora il tutto all’ordine per mettersi in cammino, riceve annunzio che i barbari mescolati nelle Romane legioni erano da Massimo eccitati, colla promessa di grandi premj, alla ribellione. Ma costoro accortisi che andavane già intorno la voce, fuggiti verso i paduli e laghi della Macedonia, occultansi in quelle foreste, ove perseguitati e con ogni arte cerchi, nel maggior numero incontranti morte. L’imperatore dunque libero dalla barbarica tema si prepara con diligenza somma a guidare l’intero esercito contro al nemico. Messa pertanto Giustina con seco il figlio e Galla sopra navi e fattane consegna ad esperti e fedeli piloti, ordina loro di volgere le prore ai Romani lidi, persuaso che la popolazione di là accolti avrebbeli col massimo piacere sapendola al ribello avversa. Egli poi alla testa dell’esercito avea nell’animo di camminare per la Pannonia ed i monti Apennini ad Aquilea, bramoso di sorprendervi Massimo all’imprevista.

Intanto che Teodosio batteva quella via, Massimo, informato che la genitrice di Valentiniano colla prole stava per valicare il seno Ionico, raccolte veloci e pronte navi e dichiaratone condottiero Andragazio invialo quasi ad attorniarla con rete. Costui navigato dappertutto videsi fallita l’impresa, avendo già il convoglio di Giustina superato lo stretto. Ragunate quindi sufficienti milizie iva solcando le acque in que’ dintorni, speranzoso di costringere Teodosio ad una battaglia navale.

Ma questi intanto che Audragazio attendeva a compiere i suoi divisamente, proceduto oltre per la Pannonia e le gole degli Apennini, sorprende, allorchè meno se lo pensavano, i non guardinghi Massimiani. Al qual uopo l’esercito con impeto prontissimo accostatosi alle mura d’Aquilea e sforzatene le porte (il basso numero delle guardie non potendo opporvi resistenza) trae violentemente giù dal trono Massimo nell’atto di compartire lo stipendio ai militi, e spogliatolo delle vestimenta imperiali lo scorge innanzi a Teodosio. Questi, annoveratine a mo’ di rimproccio tutti i mancamenti a pregiudizio della repubblica, lo dà in mano al carnesice onde abbiane il meritato gastigo.

Cosi giunse alla fine la tirannide e la vita di Massimo, il quale vincendo con astuzie Valentiniano sognato avea d’impossessarsi a bell’agio e per intiero della Romana signoria. Teodosio di poi, sapevole che il ribello nel passaggio delle Alpi latto avea rimanere il figlio Vittore, inalzato alla cesarea dignità, presso de’ Transalpini mandovvi a fretta Arbogaste, maestro delle milizie, cui riuscì di torgli il comando e morirlo. Andragazio, per venire a lui, mentre guardava tuttora colle navi lo stretto Ionico, avvisato di tali eventi ed argomentando sovrastargli infiniti mali, non aspettato l’arrivo de’ nemici si fe’ esecutore del proprio supplizio pittandosi in mare, preferendo cedere il corpo anzi ad ad esso che non a fierissimi avversari.

Teodosio allora consegnò a Valentiniano tutto l’impero in addietro posseduto dal genitore, atto per verità di giustizia verso de’ suoi benemeriti. Il fior delle truppe inoltre che militato aveano col ribello scrisse ne’ proprj ruoli, ed accordò a Valentiniano il disporre degli affari spettanti all’Italia, ai Celti e ad altri del suo dominio. Il giovinetto assistito era dalla genitrice, la quale del suo meglio suppliva, donna essendo, il manco di prudenza nel figlio a motivo della tenera età sua.

Tornato in Tessalonica rinvenne, grande sconvolgimento nelle Macedoniche faccende, poichè i barbari ne’ paduli e nelle vicine selve rintanatisi, onde campare la vita, nel primo assalimento de’ Romani, al sentire Teodosio applicato alla guerra civile, non perduta l’occasione, ivano malmenando con piena libertà le fortune de’ Tessali e Macedoni. Quindi venuti in notizia della imperiale vittoria e del ritorno di Teodosio correano di nuovo là entro per novamente uscirne al primo spuntar dell’aurora e furare quanto si presentava ai loro sguardi, ritirandosi poscia ne’ consueti luoghi: per modo che destossi nell’augusto il sospetto non uomini fossersi que’ rubatori, ma spettri. Laonde nella incertezza e schivo di manifestare altrui li fatti divisamenti, pigliati seco non più di cinque cavalieri ordina loro di condurre, ciascheduno a mano, tre o quattro cavalli, acciocchè il milite, stancatosi quello sopra cui sedea, potesse un fresco montarne ed avere così destrieri atti ad ogni disagio cui esporrebbelo il tentativo dalla sua mente concepito. Di tal guisa, non destando al mirarlo ombra veruna, percorreva all’intorno i campi, e sentendosi colle sue genti in bisogno di cibo, ne andava in cerca presso de’ contadini. Avvenutosi finalmente ad assai piccolo ostello abitato da femmina di età senile dimandale permissione d’entrarvi e qualche bevanda. La donna, consentitovi graziosamente, offre loro vino e tutto quel poco di che era per caso in allora posseditrice, onde attutassero la fame, ed al calar delle tenebre il principe chiedele istantemente di passar quivi le ore notturne. Secondatone da colei il desiderio, egli, mentre stavasi là entro coricato nel luogo assegnatogli, vedevi taluno affatto silenzioso ed avente brama di tenersi occulto. Rimanendone attonito chiama la vecchierella per sapere chi si fosse colui e donde venuto. Ella rispondea nulla di ciò esserle noto; ma confessava che da quando si vulgo la voce del ritorno di Teodosio coll’esercito il forestiero trovavasi quivi di stanza, cotidianamente pagando i bisogni della vita, e quindi nel correre della giornata si raggirava fuori dell’abitazione a suo buon grado, nè prima di sera miravalo ricomparire, come da lavorio, per cibarsi e dormire nella guisa testè osservata. L’imperatore ascoltatala, ed opinando volersi chiarire gli avuti indizj, sorpreso l’ospite imponegli di appalesare chi egli siasi ma eccitatolo indarno ad aprir bocca, ripeteagli con le spade in pugno le stesse interrogazioni; se non che nulla ottenendo neppur colla forza, ordina ai cavalieri seco di pungergli colle spade il corpo ed annunziargli lui essere l’imperatore. Il ribaldo allora dichiarossi prezzolato dai barbari ascosi ne’ paduli a spiar loro i luoghi, le regioni e gli uomini da investire; sì detto ebbe incontanente mozzato il capo.

Dopo di che retroceduto all’esercito, non lunge di là a campo, menalo dov’erano i barbari, ed avventatosi lor contro, ne fa immensa strage, non perdonando all’età, parte cacciandone fuori dalle paludi e trucidandone parte in quelle acque. Il duce Timasio di poi, ammirato l’imperiale coraggio, pregalo che degnisi conceder tempo di cibarsi alle truppe ancora digiune, le quali mancherebbero altramente di lena per continuare in così gravi fatiche entro que’ luoghi. Aderitovi dall’augusto e chiamate a raccolta dalla tromba elle cessano dal travaglio e dal perseguitare il nemico. Ritiratesi prendon cibo a sazietà, e vinte dalla stanchezza e dal vino assonnano profondamente. In questo i barbari campati dall’eccidio osservatele briache e dormenti cadon lor sopra mettendone colle aste, colle spade, o con altro adatto strumento assai gran numero a morte; fato che per poco non colpì l’augusto ed il suo corteo, se alcuni di quelli ancora digiuni frettolosamente recati non fossersi al suo padiglione coll’annunzio dell’avvenuto; egli allora e quanti eran seco turbatisi risolvono di evitare colla fuga l’imminente sinistro. Promoto intanto (chiamato antecedentemente dal monarca) venuto loro innanzi esortali a provvedere alla propria salvezza, pigliando sopra di sè il gastigare condegnamente la nemica arroganza; così favellato parte ad affrontare i barbari, e trovatili diretti ad uccidere un Romano tuttora nel sonno immerso, ne mena cotanto eccidio che o nessun di essi o ben pochi, da capo acquattatisi in que’ pantani, giunsero a salvamento.

Tanto accadde all’imperatore Teodosio dopo la uccisione di Massimo. Tornato quindi a Costantinopoli piena la mente di grandi speranze per la nobile vittoria sopra il nemico riportata, ed in pari tempo recandogli cagione di mestizia gli imprendimenti eseguiti dai barbari ascosi nelle paludi, risolvè di più non pensare a battaglie e guerre39. Commesso dunque a Promoto siffatte cure, egli rammentando il suo primo tenor di vita, lautamente banchettava, iva con passione rintracciando piaceri e prendea gran diletto nel frequentare teatri e circhi. Laonde non posso a meno di ammirarne la vita pieghevole a due si disparate condizioni, poichè, dedito per natura alla poltroneria ed ai ricordati vizii, quando angustiato non era da triste e spaventevoli calamitadi allentava il freno alle inclinazioni portate seco nascendo: se poi urgenti casi dato avessero a temere lo sconvolgimento dei pubblici affari, metteva in tacere la pigrizia, e posti in obblio i sollazzi mostravasi d’animo virile, e tollerante delle fatiche e degli sconforti. Così appunto egli essendo, come venne dall’esperienza chiarito, liberatosi ora da ogni tedio secondava i cattivi abiti in retaggio avuti dalla natura40.

Infra il ceto de’ magistrati egli onorava sommamente Rufino di Celtica stirpe e maestro degli ordini palatini, avendo piena confidenza in lui senza fare gran conto degli altri. Procedere in verità che punse gli animi di Timasio e Promoto, mirandosi dopo cotante fatiche sostenute a pro dell’impero posti da sezzo. Rusino, compiacendosi di sua riputazione presso del monarca ed inorgoglitosene, parla arrogantemente in pubblica adunanza contro a Promoto, e questi montato in collera lasciagli andare un tempione. L’offeso presentatosi al principe e mostratogli il ricevuto oltraggio lo eccitò a sì forte sdegno che proruppe colle seguenti parole: S’eglino non deporranno il concepito astio verso Rufino vedranno tra poco chi mi sia. Rufino, a tutti avverso per la soverchia brama di primeggiare e per la sua ambizione, uditele, persuade all’imperatore di mandare Promoto a dimorare in luogo lontano dalla corte, ove ammaestrerebbe le truppe nell’arte guerresca. Approvatone il consiglio, mentre colui avviasi alla Tracia e’ colloca in agguato parecchi barbari, i quali giusta l’ordine avuto alla sprovvista uccidonlo; uomo per verità dispregiatore delle ricchezze e sempre mantenutosi fedele ai governanti e governati; nè altro guiderdone di certo attendersi doveano i suoi consigli ed il suo buon volere da chi presiedeva con tanta empietà e negligenza alle pubbliche faccende.

Corsa ovunque la fama di questa scelleraggine, tutti parlandone ed anche i più modesti comportando assai di mal animo tanta enormezza, Rufino vien dichiarato consolo, in premio, quasi diremmo, d’onesta azione. Quindi senza fondamento al mondo pigliati sono di mira Taziano ed il figlio Procolo, non avendo altra colpa verso il nemico loro salvo quella di mostrarsi (il primo nella prefettura del pretorio ed il secondo nella urbana) incorruttibilissimi dai doni ed esemplarissimi, come addimandava il dovere nelle sostenute magistrature. Oltre di che a compiere le trame contro ad essi è citato in giudizio Taziano, privatolo innanzi dell’uffizio e nomato in sua vece a prefetto dell’aula Rufino; sebbene poi altri in apparenza destinati fossero a giudicarlo, soltanto al rivale serbata era l’autorità di profferir sentenza. Procolo accortosi delle insidie e provveduto alla propria salvezza fuggendo, colla sua attitudine recavagli ombra e timore non isconvolgesse, macchinando novitadi, i fatti divisamente Laonde con frodi e giuri piglia di sorpresa il genitore Taziano, consenziente lo stesso monarca, destando grandissime speranze così nel padre come nel figlio. Trattolo di tal guisa da un reale sospetto a vani sogni lo anima da ultimo a richiamare con lettera Procolo, che al momento di sua comparsa viene arrestato e condotto in prigione, ordinando a Taziano di abitare in patria, ov’è di frequente costretto ad assistere alla causa del figlio. I giudici finalmente, a norma de’ fatti accordi col traditore, comandano che sia trasportato il prigioniero in Sica, nome di un borgo, ed ivi morto. Il principe, informatone, spedisce a salvargli la vita, se non che il messo, obbedendo al comandamento di Rufino, indugiata la partenza, giunsevi quando il capo era già dall’imbusto spiccato.

Infra tali vicende perviene l’annunzio della morte di Valentiniano ucciso a un dipresso come prendo a narrare. Arbogaste, nativo della regione de’Franchi ed aggiunto alla capitananza conferita al duce Baudone dall’imperatore Graziano, venuto questo a morte, confidando ne’ suoi artifizj e senza riportarne l’imperiale assentimento, occupò il magistero delle truppe, e da quelle sotto di lui ritenuto idoneo a tanto carico, esperimentato avendolo coraggioso, perito nell’arte bellica e dispregiatore del danaro, videsi in possesso d’un poter sommo; il perché usando col principe di molta libertà impedivane gli ordinamenti contro a giustizia, o meno all’uopo dicevoli. Valentiniano dunque comportando a malincorpo siffatto procedimento più e più volte lo contradiava, ma sempre indarno, rendendosi il duce forte colla benevolenza di tutta la soldatesca. Intollerante alla per fine di essere a lui soggetto, all’avvicinarglisi mentre sedeva in trono, lo guarda con minaccioso volto e porgegli lo scritto in cui dimettevalo dalla magistratura. Quegli attentamente lettolo indirizzagli queste parole: Tu non mi hai conferito il magistero, non riuscirai a tormelo; dopo di che straccia il foglio, gettalo in terra e parte. D’ora in poi non più di ascoso fomentavansi sospetti, addivenute essendo le nimicizie loro ad ognuno palesi. Valentiniano trattante con ispesse lettere indicava al suo collega Teodosio la costui alterigia verso la maestà imperiale, pregandolo insieme che volesse recargli assistenza, e dichiaravasi con giuro eziandio pronto, non ricevendone fossecito aiuto, ad aggiugnerlo di corsa.

Arbogaste mentre considerava qual si fosse il miglior partito da seguire concepì nella sua mente un consiglio di tal natura. Frequentava la corte un Eugenio di nome e così addottrinato che professava l’arte oratoria e tenea scuola. Ricomeri affezionatoglisi, trovandolo graziosissimo ed urbano, lo raccomanda all’amico Arbogaste chiedendogli di annoverarlo infra de’ suoi famigliari, certo che non addiverrebbegli disutile in qualche affare addimandante il servigio d’una vera amicizia. Allorchè dunque Ricomeri dimorava presso l’imperatore Teodosio, l’assiduo conversare insieme unì con legami di strettissima benivolenza Eugenio ad Arbogaste, il quale anche gli affari di maggior rilievo a lui partecipava. Ora nella presente congiuntura sovvenutosi di questo amico ed estimandolo per la molta sua dottrina e prudente condotta più che idoneo a compiere gli ufficj d’una elevata magistratura gli comunicò i suoi pensieri; e quantunque osservasselo offeso dalla proposta continuava a blandirlo ed esortare a non lasciarsi fuggire di mano i doni della fortuna. Riuscito da ultimo a persuaderlo opinò espediente il togliere di mezzo imprima Valentiniano per quindi innalzare Eugenio al supremo comando. All’impensata dunque affronta l’augusto dimorante in Vienna, città della Gallia, rinvenutolo presso le mura intento con alcuni soldati al giuoco, mortalmente lo ferisce ed uccide41. A tale azione rimanendosi tutti silenziosi in ossequio della dignità e del bellico valore di chi aveala commessa; e le truppe mostrandosi attaccatissime a duce nulla curante il danaro, egli nomina Eugenio imperatore, animatosi l’universale a concepirne buone speranze sondandole sopra gli eminenti pregi donde sapealo adorno.

Fatto contemporaneamente d’ogni cosa rapporto all’imperatore Teodosio, Galla sua consorte lamentando il germano conturbò l’intera corte. Anche lo stesso principe erane dolentissimo ed in travaglio, mirandosi privo d’un collega nel fior dell’età ed avente seco vincoli di parentela; non ignorava di più essere incappalo in personaggi suoi contrarj, e così per la bravura, mescolata con temerità di Arbogaste, come per le sublimi virtù, unite a dottrina, di Eugenio, malagevolissimi a vincere. Non di meno, avvegnachè siffattamente parlasse e le molte volte a quanto si passava dirizzasse il pensiero, determinatosi alla perfine ad arrischiare il tutto fece gli opportuni e generali apparecchj per movergli guerra. Laonde escogitava consegnare la milizia equestre a Ricomeri, esperimentatolo prode in molti aringhi, e ad altri duci la capitanane delle rimanenti legioni, ma infrattanto avvenuta la morte di Ricomeri, passò, non fuor di proposito, alla scelta di nuovi comandanti. Se non che mentre la fatta risoluzione era tuttavia nella sua mente, si annunzia l’arrivo di ambasciadori spediti da Eugenio per chiedergli se disposto fosse a riconoscerlo suo collega nell’impero, ovvero ne rigettasse, come affatto vana, la proposta; ed erane capo l’atteniese Rufino, il quale non portò seco lettera di Arbogaste, nè profferì verbo di lui.

Allorchè poi l’augusto intrattenevasi deliberando, e ritardava rispondere ai legati, fu scosso da altro avvenimento che vuolsi qui riferire. Teodosio non a pena salito in trono accordato avea ad alcuni barbari la sua amicizia ed alleanza in guerra, solleticandoli eziandio con isperanze e doni. Aveane parimente a suoi commensali, trattandoli con ogni distinzione, i duci, qualunque fossene la patria. Al nascere (Ottavia tra essi contesa penetrò la discordia negli animi loro; gli uni asserendo conveniente il reputare un vero nulla que’ giuri fatti assoggettandosi al Romano potere, gli altri per lo contrario sostenendo non doversi in conto veruno allontanare dall’osservanza delle sacramentate convenzioni. Priulfo era quegli che esortava i suoi nazionali a conculcare la data fede: Fraustio, in cambio, stavasi fermo nel difenderla da oltraggio comunque, e queste vicendevoli dispute rimasero lungo tempo ignote. Ma tal fiata ammessi all’imperiale mensa col prolungarsi molto il banchetto, datosi da entrambi sfogo al mutuo astio, ciascheduno svelò i proprj sentimenti. L’imperatore, conosciuto com’e’ la pensassero, pose tosto fine al convito e queglino usciti del pretorio portarono sì oltre il concepito odio, che Fraustio più non potendo moderarsi trafisse, nudata la spada, a morte Priulfo. A tale evento i militi dell’ucciso apparecchiavansi ad investire il feritore, ma le guardie imperiali, postesi di mezzo, non permetteano durasse maggiormente la rissa. Teodosio in cambio, comportando con indifferenza il fatto, lasciò che i discordanti si togliessero l’un l’altro col ferro la vita. Quindi accommiatò l’ambasceria schernendola con donativi e parole colme apparentemente di moderazione ed umanità, ma partita che fu tutto si volse a fare gli appresti delle armi. Estimando pertanto, nè a torto, doversi in ispecie attendere alla scelta de’ comandanti, diede la capitaneria del Romano esercito al duce Timasio, aggiuntogli secondariamente Stilicone consorte di Serena prole del germano di Teodosio. Volle a simile che i barbari confederati obbedissero a Gaine e Saul, dividenti l’autorità loro con Bacurio di stirpe Armena, d’onestissimi costumi ed anche sperto delle guerresche imprese.

Il principe, nominati di questa guisa i duci e mentre sollecitava la sua partenza, ebbe a perdere di parto la consorte Galla, sgravandosi a un tratto del fanciullo e della vita. In grazia di lei versate, omericamente, diurne lagrime, si pone coll’esercito in cammino per aggiugnere il nemico, lasciando in Costantinopoli Arcadio già dichiarato imperatore. Ma, giovane ancora essendo, a supplire, quasi dissi, la prudenza di cui manchevol era in forza dell’età sua, rimaner fecevi Rufino col doppio ufficio di presiedere alla reggia, e di esercitare autorevolmente un assoluto dominio in tutto il resto, di maniera che egli racchiudeva in sè quanto viene al monarca attribuito dall’eminente suo grado. Posto fine a tali ordinamenti passò di corsa, avendo seco il minor figlio Onorio, tra le nazioni di mezzo, ed occupato fuor di speranza il valico delle Alpi accostassi al ribello, spaventandolo col suo repentino arrivo. Fatto alto ed opinando convenirgli mandare innanzi ad «seguire i primi assalti le barbariche legioni, commise a Gaine di affrontare colle sue genti la contraria oste tenendogli dietro gli altri duci alla testa de’ barbari cavalieri, degli arcadori in sella, e de’ pedoni. Eugenio anch’egli ordinò a’ suoi di procedere oltre; venuti alle prese gli eserciti accadde nel bollor dell’aringo sì forte ecclisse del sole che detto sarebbesi durante il maggior tempo di esso non giorno, ma notte. Ambe le parti dunque esposte a quella foggia di notturno certame soggiacquero a tanta strage quanta erane mestieri per ispegnere grandissimo numero de’ confederati imperiali unitamente al duce Bacario, il quale, impavido ne’ pericoli, mostrossi nella mischia, combattendo innanzi a suoi, valentissimo capitano. Il resto inaspettatamente potè fuggendo salvarsi.

Al calar delle tenebre tornati gli eserciti ne’ loro campi, Eugenio, lietissimo per tanta vittoria, distribuiva premj a que’ militi rendutisi famosi nel cimento, ed accordava alle truppe licenza di prendere cibo, quasi dopo la terribile strage terminato si fosse il battagliare. Voltisi pertanto costoro ad attutare i bisogni dello stomaco, l’imperatore Teodosio al comparir dell’aurora va con tutte le truppe loro addosso, trovandoli per ancora sopra il terreno coricati, ed uccideli prima ch’e’ potessero di lor sorte avvedersi. Trascorso quindi al padiglione del ribello combatte le truppe ivi dappresso, a molte recando morte: altre, destatesi al romore, mentre tentan la fuga sono arrestate, avendovi nel numero Eugenio stesso. Imprigionatolo vien decapitato, e la sua testa infilzata sulla punta di lunghissimo palo è condotta all’intorno dell’accampamento per mostrare a coloro che seguivanne tuttora le parti essere omai tempo, se bramassero il nome di Romani, ed avendo innanzi agli occhi la fine del tiranno, di tornare sotto le imperiali bandiere42. Laonde quasi tutti que’ rimasi in vita dopo la vittoria corsi a fretta laddove Teodosio dimorava, acclamanlo augusto, addimandandogli contemporaneamente mercè dell’operato loro. Egli di buon grado li accoglie, ed il solo Arbogaste, disdegnandone la umanità, ripara sopra dirupatissimi poggi, ove osservandosi poscia circondato da chi mandati erano a rintracciarlo, di per sè mette fine alla propria esistenza, reputando per lo migliore anzi incontrare volontaria morte, clic abbandonarsi al nemico.

Teodosio dopo così prosperi eventi entrato in Roma innalza all’impero Onorio sua prole e crea Stilicone comandante delle milizie di stanza in que’ luoghi, dandogli insiem la tutela del figlio. Ragunato poscia il senato, seguace sin qui della paterna ed avita credenza, nè potendosi ancora indurre ad imitare coloro che impreso aveano a dispregiare i Numi, arringolli esortandoli a ritrarsi dall’errore (così appellando i paterni riti) issino ad ora professato, e ad abbracciare la cristiana fede, promettendo questa la remissione di tutte le commesse colpe e nefandezze. Ma nessuno consentendogli, risoluti di perseverare nelle patrie costumanze, adottate dai primordj stessi della città, senza abbracciarne irragionevolmente di nuove (dicendo che osservate le prime durante il correre di quasi mille e dugento anni abitato aveano l’invitta Roma, e col mutarle non sapeano quali ne sarebbero i destini 43). Teodosio allora soggiunse che riuscendo quelle di aggravio al fisco per le spese de’ sagrificj e delle vittime, intendea che si abolissero non approvando tampoco quanto vi si operava, e d’altronde la militare strettezza addimandando più copioso danaro44; rispondeagli il senato non potersi legalmente immolare vittime se le spese loro non vengano dal pubblico eseguite. In forza di che cessando per abolizione la legge de’ sagrifizj, e pur altre cose dai nostri maggiori a noi raccomandate poste in obbligo, mirammo ristrignersi a poco a poco l’impero e addivenire stanza de’ barbari45; o meglio ancora, a tale ridursi, disertatine affatto gli abitatori, da non avervi più traccia de’ luoghi ove sorgevano le cittadi. Che poi a si trista condizione tendessero le Romane faccende verrà da noi chiaramente a parte a parte dimostrato.

L’imperatore Teodosio del resto consegnati ad Onorio, sua prole, i popoli dell’Italia, della Spagna, della Celtica regione e di tutta l’Affrica, nel far ritorno a Costantinopoli, terminò di malattia sua mortale carriera. Imbalsamatone quindi il corpo e trasportatolo nella città regale diedongli sepoltura nelle imperiali tombe ivi esistenti.

  1. Egli interrogando gli ottimati per sapere chi scegliere dovesse a collega dell’impero, Dagalaifo coraggiosamente risposegli; Se ami i tuoi, ottimo imperatore, non dimenticare il fratello; se la repubblica eleggi quello, che ora cercando vai. T. S.
  2. Valentiniano fu privo del tribunato da Giuliano come favoreggiatore della cristiana religione. T. S.
  3. Traiano a simile proibito avrebbe queste ragunanze istituite con miglior fine dai cristiani, se Plinio, conoscendo la costoro innocenza, non avessevi frapposta la sua intercessione. T. S.
  4. Marcellino si fa a darne ragione dicendo: Che ai venir meno de’ soccorsi alle Romane faccende, egli procurasse tostamente di essere eletto imperatore. T. S.
  5. Costui, secondo Marcellino, per non soggiacere a morte senza condanna in forza del motivo precedentemente addotto, estimò sottrarsi dagli altrui sguardi. T. S.
  6. Ben altramente è riportato il fatto da Marcellino, il quale scrive che Procopio soggiornando in Calcedone recavasi tratto tratto di ascoso in Costantinopoli per darvi orecchio alle voci, onde cercare occasione, presentandosene alcuna, di macchinare novitadi.
  7. Nomato Strategio, e da palatino milite addivenuto senatore. T. S.
  8. I Divilesi ed i Tungritani, da Procopio sedotti colla speranza di larghissimi premj. Di Eugenio nulla si legge in Ammiano Marcellino. T. S.
  9. Mercè di che il conte Giulio chiamato in Costantinopoli, come per comando imperiale, da premurosa lettera di Nebridio, in carcere tuttora, per discorrere seco intorno ai commovimenti ai barbari, vi rimanea sotto rigorosa custodia. Marcell., lib. xxii.
  10. Imperciocchè, varie turme di soldatesca passando, altrove dirette, per la Tracia, con lusinghe e liberalmente accoltevi giurarono sotto imprecazioni orrende fedeltà a Procopio. T. S.
  11. Questa città fu presa mediante uno stratagemma del tribuno Alisone. Marcellino, lib. cit.
  12. Mentre Procopio andava attorno in lettiga colla figliuolina di Costanzo e colla madre, ponendo in questo divisamento la massima importanza della guerra, Arbizione più avanzato di età e grado, appalesando insieme una veneranda canizie, al vedere molti disposti alla fellonia, dava a Procopio il nome di pubblico assassino ed alle truppe sedotte dal costui errore quello di figli e di partecipi delle sue antecedenti fatiche, e pregavale seguissero anzi lui quasi padre e conosciuto per le sue felici geste, che uno scellerato impostore, prossimo ad essere sconsitto ed ucciso. Marcell., lib. XXVI.
  13. Gomoario, Marcell.
  14. Agilone. Venuti alle armi presso Nacolia, e dubbio essendo l'esito della battaglia, il duce Agilone con una repentina scorreria decise l’aringo. Marcell.
  15. Procopio soggiacque al supplizio, col quale in altri tempi Dario punì il traditore Besso. V. Zonara.
  16. Marcellino, lib. XXVII, nota che sei provincie costituivano la Tracia.
  17. Atanarico, duce supremo delle Scitiche genti, astretto asserendosi dai più esecrandi giuri e comandi paterni a non mettere piede unquemai sopra il Romano suolo, risolversi non potea ad un’azione vile e biasimevole col passare a quell’Imperatore. Il perchè osservando le navi spinte da remeggio nel mezzo del fiume ed aventi a bordo il sovrano e giudice di quel popolo, deliberò venire unitamente a suoi ad una pace seco lui ed alleanza. T. S.
  18. Valentino, tra queste cose, dimorando nella Britannia fu incolto da morte, prima di occupare la tirannide. Paolo Diac. lib. II.
  19. Intanto che Valentiniano era travagliato dal morbo altri addimandavano all’impero Rustico Giuliano, ed altri Severo. T. S.
  20. Questa foggia divinatoria è da Zonara chiamata Alectromantici. V. a simile Sozomeno, lib. VI, cap. 35; Marcell. lib. XXIX.
  21. Valente non a torto così operava, tale addivenuta essendo in allora la demenza de’ filosofi che reputavano dal voler loro dipendente il tor via un imperatore, ed il metterlo in trono. V. Sozomeno, cap. cit.
  22. Il quale confidando nella parentela di Remigio, maestro in quel tempo degli ufficj, adoperato erasi crudelmente in molte congiunture; ma Remigio travisando le sue riferte, come abbiamo da Marcellino, Valentiniano lungamente ignorò i lagrimosi Africani disperati.
  23. Marcellino alla fine del lib. XXVI narra che sotto il consolato di Valentiniano col fratello furonsi orrendi tremuoti per tutta la circonferenza dell’orbe.
  24. La cui bellezza venendo lodata dalla consorte di Valentiniano questi la sposò, come narra Paolo Diacono, ed in grazia di lei pubblicò legge accordando a quanti lo bramassero, di potere contrarre impunemente due matrimonj. T. S.
  25. I loro calzari, così Marcellino, lib. XXXI, non aventi forma veruna impediscono di stampare liberi passi. Il perchè riescono poco adatti alle pedestri battaglie, ma quasi attaccati ai cavalli e tal volta in arcione alla foggia delle donne eseguiscono i consueti ufficj. T.S.
  26. Adduco la principale cagione motrice di Valente: Da Melantiade, imperiale villa presso Costantinopoli, fatte partire le insegne affrettatasi di agguagliare con egregia impresa il giovin figlio del germano, gelosissimo addivenuto delle costui virtudi, il quale frenò per modo i feroci Alemanni che volontariamente addimandarono il permesso di retrocedere alle proprie case. Marcel., lib. XXXI.
  27. «L’imperatore al primo calar delle tenebre essendo infra militi, come supponeasi (poichè nessuno attesta di averlo veduto), cadde ferito gravemente di saetta, ed esalò quindi lo spirito, nè in alcun luogo fu più rinvenutoMarcel., il quale poco dopo aggiugne essere più verisimile che Valente uscisse di vita nel modo riferito dal Nostro. T. S.
  28. Questo fatto è riportato in compendio anche da Marcellino verso la fine della sua opera. T. S.
  29. Facoltà poco dopo tolta, come abbiamo da Sozomeno lib. VI, c. 20, e da Teod., lib. V. T. S.
  30. Vediamo ora il narrato in proposito da P. Diacono, Iib. XII. «Egli non di meno così detestava i difetti cui soggiacque la riputazione di Traiano, la violenza vo’ dire e la brama de’ trionfi, che non mosse giammai guerre, bensì trovolle, e proibì con legge ne’ banchetti i disonesti trastulli e le cantatrici.» Ma perdoniamo a Zosimo, siccome a colui che ritenea valere per tutte le scelleraggini l’essere stato cristiano. T. S.
  31. Da Marcellino appellato Alateo, il quale con Safrace comandava la cavalleria nell’ultima guerra contra Valente. Zosimo poi coll’asserire ch’eglino disastravano i Celti molto si allontana da Marcellino, in cui leggiamo che i Lenitesi Alemanni saccheggiatori del paese Celtico furonsi gli sbaragliati da Graziano, come rammentammo, prima della morte di Valente. T. S.
  32. V. Socrate, Ist. Eccl., lib. V, cap. 10.
  33. Tanta era la prelazione da lui accordata ai militi Alani, che talvolta viaggiava indossando abiti fatti secondo la costumanza loro, donde acquistossi l'odio delle sue truppe. Stato del rimanente sarebbe un ottimo principe se amministrato avesse con maggiore accuratezza la repubblica. T. S.
  34. Γέφυρα, ponte.
  35. Eglino da una delle opere loro, quella di ristaurare il ponte Sublicio nomansi pontefici, e gioiscono somma autorità. Dionigi d’Alicarnasso, lib. II. Imperciocchè questo ponte essendo tutto di legno, nè insiem commesso da bronzo o ferro, estimato era sacro, e però andandone a male qualche parte, a ripararla dovessi prima uccidere una vittima e compiere il sacrificio. Alex. ab Alex. genial. dierum, lib. II, cap. 8.
  36. Queste parole, secondo il Silburgio, hanno doppio significato, potendo così esprimere che Graziano dispregiatore del nome di pontefice massimo dopo breve tempo lo addiverrebbe, col proprio sangue imbrattando il ponte; come annunziare tra poco la morte di lui e l’inalzamento di Massimo all’impero ed al pontificato.
  37. Grutunghi, presso altri autori. Il qual nome trovasi parimente in Marcellino tra le varie barbariche denominazioni quivi da lui riportate. T. S.
  38. Zonara scrive che Teodosio perdonò agli Antiocheni ad intercessione del Crisostomo, T. S.
  39. Socrate narra diversamente il fatto. V. Stor. Eccl., lib. v, c. 14.
  40. Notato abbiamo più sopra, giusta la testimonianza di altri autori, essere egli stato commendevolissimo per la sua continenza. T. S.
  41. Zonara scrive: Al tramarsi da Eugenio scombugli Valentiniano, sopraffatto da timore, di laccio pose fine alla vita.
  42. E uopo ascrivere a manifesto divino aiuto de’ Numi la vittoria riportata da Teodosio. V. Socrate. Che poi ciò fosse ne abbiamo altresì testimonianza dai seguenti versi di Claudiano:

    O nimium dilecte Deo, cui militat Æter,
    Et conjurati veniunt ad Classica venti. T. S.

  43. A questo argomento, cui tributano grandissima sona ì gentili, fu risposto da Arnobio e da S. Ambrogio, coetaneo di Teodosio, nella sua apologia in favore de’ cristiani contra Simmaco. T. S.
  44. Richiamo sufficientemente giusto, gli stessi idolatri caduti poco avanti in timore non venissero a mancare i buoi pe’ sagrifizj, al tornare di Giustiniano dalla guerra Persiana. T. S.
  45. Qui accenna a’ Gotti non a’ cristiani, come egli suole. Di certo è da maravigliare che il Nume riducesse ad estrema barbarie il popolo Romano, da Macedonio, Eutichete e Nestorio stato essendo così malmenato, col propagare ovunque il contaggio di dottrine contrarissime a lui ed a’ suoi domini che le genti più non credeanne la esistenza. Convien pertanto ritenere derivassero le sciagure del Romano impero non dall’avere i cristiani monarchi tolto il culto delle antiche divinità, ma dall’essere quasi tutto il popolo addivenuto ingiurioso verso l’unico e vero Iddio. T. S.



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