< Della coltivazione
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Libro IV. Lavori d'inverno
Libro III Libro V


 
Santo Vecchio divin, di Giove padre,
Che dell’antica Italia in tanta pace
Tenesti il regno, e ne mostrasti il primo
Dell’inculto terren la miglior ésca;
5Vieni, o sommo Signor, e teco adduci
Il tuo amico Bifronte che ti porse
Al tuo primo arrivar, cortese e largo,
Di quel che possedea la maggior parte:
Vien; ché in onor di voi cantar intendo
10Dell’algente stagion, ch’a voi sagrata
Fu per celeste dono, e notte e giorno
Gli incensi, i sacrifici, i lieti canti
Spende in nome di voi, Saturno e Iano.

Già l’acceso Scorpion dai raggi oppressa
15Non sente più la venenata coda:
Già il famoso Chiron vicino invita
Che nell’albergo suo discenda il Sole:
Già si veggion tuffar nel fosco Occaso,
Pria che

ritorni il dì, coll’altre cinque
20Taïgete e Meròpe, e ’n fronte al Toro
Di tempesta e di giel ci fanno segno.
Or nuove arti ritrovi, or nuovi schermi
Contro all’armi del verno il buon villano,
Che lo torna a ferir con nuovi assalti.
25Nel suo primo apparir, pensiero avaro
Non ti muova ad oprar l’aratro e ’l bue
Per la terra impiagar; ché troppo f"ra
Il folle affaticar dannoso e grave.
Pur poiché dopo lui, veloce e snella
30Ha seguito un viaggio in ciel la Luna,
E ch’ei dell’età sua già compie il terzo,
E sia il tempo seren; ben puote allora
L’asciutto campicello, il colle, il monte
Cominciarse a toccar; ma il grasso e molle,
35A più lieta stagion si serve intero.
Colla vanga maggior rivolga appresso
Il più caro terren; ch’ivi entro possa,
Quando il tempo sarà, versare i semi
Dei ventosi legumi, e d’altre assai
40Biade miglior che ’l vomero hanno a schivo.
Poi volga il passo alla seconda cura
Dei morti prati; e sopra quelli sparga
Quel sottil seme che negletto resta
Sotto il tetto talor ove il fien giacque.
45Già quel ch’ogni altro di tardezza avanza,

Il buon frutto di Palla, il verde manto
Volge in oscuro, e ti dimostra aperta
La sua maturità che giunge a riva:
Muovansi adunque allor la sposa e i figli
50A dispogliar l’uliva; e ponga cura
Che si coglin con man, senza altra offesa;
Pur quando forza sia, battendo in alto
Farle a terra cader; men fia dannosa
Del robusto baston, la debil canna;
55Ma dolcemente percotendo in guisa,
Che ’l picciol ramuscel con lei non vegna;
Perché vedresti poi qualch’anno appresso
Steril la pianta: ed è credenza in molti,
Che ciò sia la cagion ch’il più del tempo
60Il secondo anno sol ci apporte il frutto.
Chi il dolce, più che l’abbondanza, stima
In quel santo liquor, le coglia acerbe:
E chi il contrario vuol, quanto più indugia,
Tanto più colmerà d’olio i suoi vasi.
65Dênsi l’ulive poi comporre insieme
In brevi monticei, ristrette alquanto;
Perché il caldo tra loro affina in tutto
Quella maturità, qual pensa alcuno
Che sopra l’arbor suo per tempo mai
70Non potrebbe acquistar: così crescendo
Si va dentro l’umor: ma guardi pure
Di non troppo aspettar, che prenda poi
E ’l

sapor e l’odor ch’offende altrui:
S’è pur forza indugiar, sovente il giorno
75L’apra e rinfreschi ventilando in alto.
Cerchi a premerle poi la grave mole,
Aspra quanto esser può, rigida e dura;
E ben purgate pria da foglie e rami,
Al pesante suo incarco le commetta:
80Discioglial tosto, ché dannaggio avrebbe
Dalla vil compagnia dell’atra amurca,
La qual non dee però gettarse indarno
Dal discreto villan che sa per pruova
Quanto agli arbori suoi giovò talora,
85E quante erbe nocenti ha spente e morte;
E ch’ungendone i seggi, l’arche e i letti,
I vermi ancise che lor fanno oltraggio.
Quinci dentro forbiti e saldi vasi
L’umor ch’è giunto al suo perfetto stato
90Dispensi e cuopra, e gli procacci albergo
Tepido e dolce, ove trapasse il lume
Del Mezzogiorno, che dell’Orse ha tema.

Or la tagliente scure il buon villano
Prenda, e felice i folti boschi assaglia,
95E le valli palustri, e i monti eccelsi:
Or il frassin selvaggio, or l’alto pino,
E quegli arbor miglior ch’ivi entro vede,
Tronchi e ricida; e nol ritenga orrore
Che si cruccino in ciel Tirintio e Giove:
100

Ch’egli han sommo piacer che ’l buon cultore,
Che sovente lor poi gli altari incende,
Fermi e sostegna l’innocente albergo;
E l’aratro e ’l marron, cogli altri arnesi
Che tragghin dal terren più largo il frutto,
105De’ famosi arbor suoi componga ed armi:
Ché questa è la stagion che ’l freddo e ’l ghiaccio
Han cacciato il vigor, constretto il caldo
Sotterra addentro all’ultime radici
Che d’ogni infermità dan lor cagione:
110E tanto più se della Luna il lume
Vedrà indietro tornarse, il cui valore
Toglie a Teti l’umor, non pur ai boschi.
Poiché tagliati avrà, sospenda al fumo
Quei che si denno armar di acuti ferri
115Da impiagar le campagne a miglior giorni.
Gli altri ch’a fabbricar capanne e tetti
Furo in terra abbattuti, alquanto tempo
Seccar gli lasce, e poi gli ponga in opra.
Ove non vegna umor, né scenda pioggia,
120Perché dolce e leggier, l’abeto è il meglio:
Posti dentro al terren, la quercia e ’l cerro
Più d’altri han vita; il popolo e l’ontano,
Sott’acqua, o presso al rio: coperto, il faggio
Molto incarco sostien: frassini ed olmi,
125Se lor togli il piegar, son duri e forti:
Ma il robusto castagno ogni altro avanza

In durar, e portar gravezza estrema;
Da vestir forma in sé, per dotta mano
D’onorato scultor, d’uomini e Dei,
130Più di tutti è richiesto il salcio e ’l tiglio,
E ’l colorato busso; il mirto e ’l cornio,
A far l’aste miglior possenti a guerra:
Più rendevole all’arco e il crudo nasso:
Sovra l’onde correnti il leggiero alno
135Volentier nata: e ben sovente danno
Nella scorza dell’elce al regno loro
L’api il gran seggio, e nel suo tronco ancora
Già per soverchio umor corrotto e cavo;
L’odorato cipresso in più leggiadri
140Delicati lavor si mette in uso;
Da servar gli ornamenti e i dolci pegni
D’amorosa donzella che tacendo
Cela in seno il desio del nuovo sposo.
Né si dee non saver come ciascuno
145Arbor che in quella parte i rami stese
Che guarda al Mezzodì, miglior si truova:
L’altro a Settentrion, più dritto e bello
Si dimostra e maggior; ma il tempo in breve
Scuopre difetto in lui, che ’l tutto appaga.
150Questo è il tempo a tagliar la canna e ’l palo,
E i vincigli sottil dal lento salcio,
Che sien secchi dappoi quando conviene
La vite accompagnar nel nuovo incarco.

Or si deggion purgar le siepi intorno,
155Che sien soverchie; e riportarne a casa
Per l’ingordo camin l’esca novella:
Quinci, senza indugiar, zappar a dentro
L’util canneto, che ti porti allegro
Nell’altro anno avvenir l’usata aita.
160Già il più vecchio letame, ch’a quest’uso,
Ove la pioggia e ’l sol lo bagni e scaldi,
Riponesti a finar gran tempo innanzi,
Sopra i ghiacciati monti e i freddi colli
Con la treggia e col bue portar si deve.

165Ora è l’ora miglior (chi non si sturba
Da qualche opra maggior) che ’l buon bifolco
In questa parte e ’n quella attorno vada
Là ’ve il popol s’aduna ai giorni eletti
Pronto al guadagno, con armenti e gregge.
170Ivi l’infermo bue cangi in più forte,
Giungendo il prezzo; e quell’antico e tardo,
Già del giogo impotente, ingrassi, e quivi
Lo venda quei che ne fanno esca altrui:
Dappoi qualche vitel, qualche giovenco
175Quasi selvaggio ancor, procacci allora
Per nutrirse e domarse; acciò che in breve
Quanto perdeva in quei, ristore in questo.
Non si lasce invecchiar sotto l’albergo
Il suo pigro asinel: guardi alle gregge,
180E rinnuovi tra lor chi troppo visse;

Poi, per liti schifar dal mal vicino,
Manifesto segnal di ferro e foco
Lor faccia tal, che non vi vaglian frode.
Or perché le campagne e i nudi colli
185Non han più da nodrir gli erranti buoi;
Sotto il tetto di quei, di nuovi cibi
La mensa ingombri: e perché spesso il fieno
Manca in più luoghi, e per sé stesso ancora
Non gli basta a tener le forze intere;
190Le cicerchie e i lupin, fra l’onde posti
Gran tempo a macerar, con trita paglia
Mischiar si deve: e se non hai legumi,
Puoi la vinaccia tor, che dà vigore
Non men che quelli; e vie miglior si truova
195La men pressa e lavata, che di vino
E di vivanda in un forza ritiene;
Onde lieti si fan, lucenti e grassi.
Non rifiutan talor la secca fronde
Della vite, dell’elce e dell’alloro,
200E del ginepro umil che punga meno,
Colla dodonea ghianda; avvegna pure,
Che scabbiosi alla fin gli può far questa.
L’altre gregge minor l’istessa cura
Quasi han, che quelli, alla stagion nevosa.
205Ma perch’oltra il cibar, conviensi ancora,
Che ’l bifolco e ’l pastor pio veggia innanti,
Che nulla infermità lor faccia offesa,

Ma che ’l natio valor rimanga intero,
Ed or più che giammai, che l’acqua e ’l gielo,
210E sovente il digiun, più danno reca,
Che del luglio il calor; prendasi adunque
Cipresso e ’ncenso ch’una notte sola
Tenne sotto al terren nell’acqua immerso;
E per tre giorni poi lo doni a bere
215Al mansueto bue: ma questo fasse
Anco ai tempi miglior, non pur al verno.
Chi gli spinge talor dentro alla gola
Intero e crudo a viva forza un uovo;
Poi l’odorato vin dove sia misto
220Dell’aglio il sugo, nelle nari infonde;
La tristezza gli ammorza, e ’l gusto accende.
Altri metton nel vino olio e marrobbio,
Altri mirra, altri porri, altri savina,
Altri della vite alba, altri scalogni,
225Chi il minuto serpillo, e chi la squilla,
E chi d’orrida serpe il trito scoglio,
Che scaccian tutto il mal, purgan le membra,
E le fanno al lavor robuste e ferme.
Ma sopra ogni altra alfin la negra amurca
230Per ingrassar gli armenti ha più virtude;
E felice il villan che a poco a poco
Gli può tanto avvezzar, che d’essa, al pari
Delle biade e del fien, gli renda ingordi!
Poi guardi ben, ch’al suo presepio intorno
235L’

importuna gallina o ’l porco infame
Non si possa appressar, che d’essi scenda
Penna o lordura, che n’ancise spesso:
Né il tuo picciol figliuol per colli e prati
L’affanni al corso; ché soverchia noia
240Così grave animal ne sente e danno.
Or che già scorge alla grassezza estrema
Tra la quercia e ’l castagno il porco ingordo,
Tempo è di far della sua morte lieta
L’alma Inventrice delle bionde spighe;
245E quando gira il ciel più asciutto e freddo,
Seppellirlo nel sal per qualche giorno;
Trarlo indi poscia, e lo tener sospeso
Ov’è più caldo e più fumoso il loco,
Esca e ristoro all’affannata gente
250Che dai campi a posar la notte torna.

Tempo è di visitar le regie soglie
Dell’api al più gran giel, che dentro stanno,
Né s’ardiscon mostrar la fronte al cielo;
E bene esaminar se i lor tesori
255Sien ripieni abbastanza: ché sovente
O l’avaro villan troppo ne tolse,
O qualch’altro animal n’ha fatto preda;
Ond’a ’l freddo e ’l digiun restano inferme.
Qui non gravi al cultor di propria mano
260Portar nuova esca: delle arenti rose,
Del cotto mosto, delle più dolci uve

Che seccò nel settembre, i verdi rami
Di timo e rosmarin, dell’aspra galla,
Del dolce mellifil, della cerinta,
265Della centaurea, del fiore aurato
Che gli antichi chiamâr nei prati amello,
La radice di cui bollendo in vino,
Vien medicina e cibo in tale stato.

Or che l’opre maggior n’han dato loco,
270Esca il saggio cultor nei campi suoi
Cogli strumenti in man, donando loro
Quanto possa miglior forma e misura:
Perché possa dappoi, contando seco,
La sementa saper, l’opere e i giorni
275Ch’ivi entro ingombra; e che sicura faccia
Dispensar e segnar le biade e ’l tempo.
Il quadrato più val: ché non è solo
Più vago a riguardar, ma ben partito
In ogni suo canton, può meglio in breve
280Per le fosse sfogar l’onda soverchia;
Purché non molto di grandezza avanzi
Quel che rompe in un dì solo un bifolco:
Perché il dannoso umor che troppo lunge
Aggia il varco maggior, nel campo assiede.
285Nella piaggia e nel colle ove egli scorre
Più licenzioso assai, più spazio puote
Cinger d’un fosso sol: ma ponga cura
Ch’ei non rovini in giù rapido e dritto;

Ma traversando il dorso umile e piano
290Con soave dolcezza in basso scenda.
Guardi poi tutto quel ch’egli ave in cura:
Pensi al bisogno ben; ch’al maggior uopo
Non s’avveggia il villan, che i buoi son meno
Di quel ch’esser devrieno al suo lavoro.
295Là dove il campo sia vestito e culto
Del sempre verde ulivo o d’altra pianta,
Solo a tanto terren ne basta un paro,
Quanto in ottanta dì solca un aratro:
Ma nell’ignudo pian non gli è soverchio
300Lo spazio aver, che cento giorni ingombra.
Pur si deve avvertir che non son tutti
Simiglianti i terren: quello è pietroso;
Quello è trito e leggier; quello è tenace,
Che ritrar se ne può il vomero appena:
305Onde spesso l’oprar s’affretta o tarda;
Ma la pruova e ’l vicin ti faccian saggio.

Già perché spesso pur bisogno avviene
O d’albergo cangiar non bene assiso,
O d’un nuovo compor, che sia ricetto
310Del maggior tuo figliuol che già più volte
Veduto ha partorir la sua consorte;
E la famiglia è tal, che fa mestiero
D’altra nuova colonia addurre altrove;
Ora è il tempo miglior di porre insieme
315E la calce e le pietre e i secchi legni,

Colla coperta lor, che i tetti ingombre;
Così tutto condur nel luogo eletto,
Perch’al bisogno poi null’altra cosa
Ti convegna trovar, che l’arte e i mastri.
320Ma innanzi a questo far, consiglio e senno
Molto convien per disegnar il sito,
Che come utile e bel non truove infermo.
Quel felice è da dir, che i campi suoi
Di qualch’alma città non ha lontani,
325Che più volte raddoppia ai frutti il pregio:
Poi quello ancor, che sentir puote appresso
Franger Nettuno, e che serrato il vede
Tra colli e scogli ove di Borea e d’Ostro
Non pavente il nocchier, né tema il legno;
330O ch’ha fiume vicin, che il greve incarco,
E scendendo e montando, in pace porte.
Ma perché a questo aver, talor contende
La nuda povertà dei pigri amica,
Talor fortuna, che tra monti e sassi
335Diede il natio terren, come si vede
L’industre fiorentin, che lunge ascose
Intra l’alpi e i torrenti all’onde salse;
Or, poiché contro al fato andar non vale,
Cerchisi aver almen salubre il cielo,
340E fertile il terren, che sia diviso
Parte in campestre pian, e parte in colli
Ch’a l’Euro e ’l Mezzodì voltin la fronte:

Quel, per più larga aver la sua sementa,
E dar caro ricetto ai verdi prati,
345E la canna nutrirne, il salcio e l’olmo;
Questi, per rivestir di vari frutti,
E lieti consacrargli a Bacco e Palla:
Altri alle gregge pur per cibo e mensa
Lassarne ignudi; e per frumenti ancora,
350Quando piove soverchio, usar si ponno.
Picciole selve poi, pungenti dumi
Si den bramar, e le fontane vive
Per trar la sete il luglio a gli orti e ’l fieno.

E sopra tutto ben si guarde intorno
355Chi sia seco confin: ché minor danno
Alle biade fiorite a mezzo il maggio
Porta il secco aquilon, o in sullo agosto
L’impia grandine a Bacco, o ’l marzo il ghiaccio,
Che ’l malvagio vicino al pio cultore.
360Non pòn sicure andar armenti o gregge;
Ch’a difender non val pastore o cane:
Non può il ramo servar al tempo i frutti,
Né lunghi giorni star la pianta verde;
Ch’invidioso e rapace aspra procella
365Si può dir al terren cui presso giace.
Molti han pensato già che miglior fusse
Il nulla posseder, che averse accanto
Chi pur la notte e ’l dì con forza e ’nganno
Dell’altrui faticar si pasca e vesta.
370

Quanti han lassate già le patrie case
Per fuggir i vicin, portando seco
In paese lontan gli Dei penati!
Or, non si vider già sì lieti campi
E l’Albano e l’Iber lasciar, fuggendo
375Del Nomade vicin l’inculta rabbia?
Il Siculo e l’Acheo cangiaro albergo
Per l’istessa cagion: quelli altri appresso,
Ch’ebber in Lazio poi sì larga sede,
Gli Aborigeni, gli Arcadi e i Pelasgi,
380Qual altra occasïon condusse allora
Di lasciar il terren che tanto amâro,
E trapassar del mar gli ampli sentieri,
Se non l’impio furor, gli aspri costumi
Dei rapaci tiranni intorno posti?
385Ma non pur quei che fuor d’umana legge
Popoli ingiusti e rei ch’a schiera vanno,
Rendon di abitator le terre scarche;
Ma quei privati ancor, che pochi han seco
Compagni intorno, fan non meno oltraggio
390A chi del suo sudor, tranquillo e queto,
Cresce il paterno ben; siccome vide
Già il famoso Parnasso e l’Aventino,
L’Aütolico quel, questo altro Cacco;
E quanti oggi ne tien l’Italia in seno,
395Dalle rapaci man di cui, sicuri
Non pur armenti e biade, arbori e vigne

Possan lì presso star; ma la consorte,
Le pargolette figlie e le sorelle
L’invitto animo lor, le caste voglie
400Ben p"n monde servar, ma non le membra!
E ’l misero villan, piangendo (ahi lasso!)
E di questo e di quel l’albergo in preda
Di Vulcan vede; e poi si sente alfine
Dal suo crudo vicin lo spirto sciorre.
405Or questa è la cagion, che i larghi piani
Ch’Adda irriga e Tesin, che i culti monti
Sopra l’Arno e ’l Mugnon, che i verdi colli
Di Tebro e d’Allia, e le campagne e valli
Del famoso Vulturno e di Galeso
410(Che già furo il giardin di quanto abbraccia
Serrato da tre mar la fredda Tana)
Nudi di abitator, son fatti selve;
E che il gallo terren, l’Ibero, e ’l Reno
Dell’italica gente ha maggior parte,
415Che l’infelice nido ov’ella nacque.

Guardi adunque ciascun (che tutto vale)
Quando vuol fabbricar, mutando albergo,
E terren rinnovar, ch’ei prenda seggio
Ove il frutto e l’oprar non sia d’altrui:
420Guardi poscia tra sé, ch’ei non si estenda
Vie più là del poter coll’ampie voglie:
Chi vuol troppo abbracciar, nïente stringe.
Lode i gran campi, e nei minor s’appiglie

Chi cerca d’avanzar; sicché il terreno,
425Contrastando talor, non possa mai
Lui sopraffar, ma dal lavor sia vinto:
Ch’assai frutto maggior riporta il poco
Quando ben culto sia, che ’l molto inculto
Or poich’a cominciar la casa viene,
430S’elegga il sito che nel mezzo sieda,
Quanto esser può, delle sue terre intorno,
In colle o in monticel levato in alto,
Sicché possa veder tutto in un guardo.
Non gli assegga vicin palude o stagno
435Che col fetido odor gli apporte danno,
E del suo tristo umor l’aria corrompa;
E che d’altri animai noiosi e gravi
Tutto il cielo e la terra ivi entro ingombre.
Il principal cammin lontano alquanto
440Si devrebbe bramar; che sempre reca
Al giardino, al padron gravezza e spesa.
Cerchi di presso aver la selva e ’l pasco,
Perché possa ad ognor le gregge e ’l foco,
Senza molto affannar, cibare il verno.
445Ma più che in altro, aver cura si ponga
Dentro il medesmo albergo, o intorno almeno,
Chiara onda e fresca di fontana viva
Cui non beva l’umor l’agosto e ’l luglio:
E se quel non potrà, profondo cavi
450Qualche pozzo o canal che l’acqua aduni

Che sapor non ritenga amaro o salso,
Né di loto o terren ti renda odore:
E se mancasse ancor, di ampie citerne
Supplisca al fallo, ove per tutto accoglia
455Quanta pioggia ritien la corte o ’l tetto.
Così lì presso, e del medesmo umore,
In qualche altro ricetto ove alle sponde
S’agguaglin l’acque, per armenti e gregge
Faccia al tempo piovoso ampio tesoro.
460Questa si vede a manifesta pruova,
Ch’è più salubre all’uom dell’altre tutte,
E di più gran virtude; ed è ben dritto,
Se per man di Giunon ci vien dal cielo.
L’altra è poi la miglior, che nata in monte,
465Vien ratta in basso, e per sassosi colli
Il lucente cristallo e ’l freddo affina.
La terza è quella che del pozzo saglia;
Purché ’n valle non sia, ma in alto assisa.
Quella è dappoi, che di palude uscendo,
470Pur così lentamente il corso prende.
L’ultima alfin, che del suo basso stagno
Non sa muovere un passo, e pigra dorme:
Questa è maligna tal, che non pur l’uomo,
Ma tutto altro animal fa infermo e frale.
475Or se per caso alcun ti desse il sito,
Di fiume o di ruscel qualche alta riva;
Prender si puote ancor; ma far in guisa

Che l’uno e l’altro pur dietro all’albergo
Mormorando e rigando il sentier prenda;
480Perché essendo davanti, offendon molto
Nell’estate il vapor, la nebbia il verno,
Che dal perpetuo umor surgendo in alto,
Porta a l’uomo e le gregge occulta peste.
Dênsi poi riguardar quanti e quai venti
485Son quei che ’ntorno con rabbiosi spirti
Fan più danno al paese ove ti truovi;
E del tuo fabbricar da’ lor le spalle.
Ove è l’aria gentil, salubre e chiara;
A l’Orïente volta o ’l Mezzogiorno
490Tenga la villa tua la fronte aperta
Ove sia grave il ciel, dritto riguarde
Verso il settentrion l’Orsa e Boote.
Ma più felice è quella, aprica e lieta,
Che ’l volto tiene onde si lieva Apollo
495Ch’a la Libra e ’l Monton riscalda i velli:
Questa offender non può il superbo fiato
Di Borea e d’Austro che del ciel tiranni,
Di piogge s’arma l’un, l’altro di nevi:
Vie più dolci e fedei riceve il luglio
500L’aure soavi; e vie più tosto il verno
Vede al sol mattutin disfarse il ghiaccio,
E seccar la rugiada e le pruine,
Le quai restando in piè, non l’erbe pure
Fan passe e grame, ma gli armenti e gregge
505

Ponno in gravi dolor condur sovente
Faccia l’albergo suo, che ’n tutto agguaglie
Le biade e i frutti che d’intorno accoglie,
E sia quanto conviensi a quei che denno
Al bisogno supplir dei campi suoi,
510E le mandre e i giovenchi in guardia avere:
E chi ’l farà maggior che non gli chiede
Il suo poco terren, sarà schernito
Dal più saggio vicin; poi seco istesso
Avrà sdegno e dolor, vedendo vota
515Di frutti e d’animai la più gran parte:
E chi l’avrà minor, vedrà talora
Le ricolte guastar, ché ’n sé ristrette
Più che non si devea, corrotta e guasta
Ne sarà parte, e parte a ’l caldo e ’l gielo
520Si vedrà rimaner negletta e nuda
Sotto l’aperto ciel, di tutti preda:
Il cornuto montone, il pio giovenco,
Ch’ebber più del dover angusto il letto,
Sempre afflitti saranno: il buon bifolco,
525Il tuo vago pastor, se non ha il modo
Di la notte acquetar le membra stanche;
L’un dormendo sul dì, vedrai le capre,
Non cacciate d’altrui, mangiar l’ulivo;
E ’l solco torto andar per mezzo i campi.
530Ponga tre corti pria dentro i suoi muri:
Questa, per ricettar le gregge e i buoi

Che ritornin dal pasco e dal lavoro,
Ove d’acque ad ognor truovin ridotto:
L’altra, per disgombrar le stalle e ’l tetto
535D’ogni bruttura loro, ed ivi addurre
Il letame, le frondi e la vil paglia
Che si stia a macerar l’estate e ’l verno
Per al tempo ingrassar le piagge e i colli:
La terza, ove più scalde il mezzogiorno,
540D’assetate oche, di galline ingorde,
E d’altri tali uccei che son tesoro
Della consorte tua, sia fatta seggio.
Innanzi a tutti poi, gli alberghi faccia
A’ suoi cari animai che ’l membro primo
545Dell’ampia possession sono e gli spirti.
Truovin le pecorelle il loro ostello
Che temperato sia tra ’l caldo e ’l gielo,
E di Zeffiro e d’Euro il fiato accoglia;
Così la capra ancor: ma mezzo sia
550Ben serrato di sopra; e l’altro resti
Sotto l’aperto ciel, di muro cinto,
Per potersi goder sicure il luglio,
Senza lupo temer, l’aria notturna.
Doppio albergo al giovenco, acciò che pose
555Ove guarda Aquilon, la calda estate;
E ’l verno, in quel che sia contrario all’Orse:
Sia largo sì, ch’acconciamente possa,
Ruminando, giacer disteso a terra;
E ’l

bifolco talor, quando ha mestiero
560Di pascerlo o nettar, girargli intorno:
Ampio il presepio, e che d’altezza arrive
Ove appunto si aggiunge al collo il petto:
Cotal per l’asinello; e ponga cura
Di edificarlo sì, ch’ivi entro pioggia
565Non vaglia a penetrar: lo smalto monti
Verso la fronte alquanto, e scenda indietro,
Acciocché nullo umor seggio ritruove,
Ma discorrendo fuor vada in un punto,
Né indebilisca il sito, e non ti rechi
570O di gregge o di armenti all’unghie offesa.
Il lordo porco anch’ei truove ove porre
L’aspre membra setose alla grande ombra,
E mangiar le sue ghiande: ma lontano
Sia pur da tutti, e ’n basso sito angusto.
575L’altro albergo dappoi deve in tre parti
Ben distinte tra lor con dotta forma,
E con misura eguale, esser diviso.
La prima, in cui dimori il pio cultore
Colla famiglia sua dagli altri sciolto:
580Nella seconda, quei ch’all’opre sono
Della sua possession condotti a prezzo:
L’altra, ricetto sia di quanti accoglie
Dal suo giusto terren nell’anno frutti.
Quella eletta per lui, componga in guisa,
585Che ben possa schivar l’estate e ’l verno

E del caldo e del giel gli assalti feri:
Là dove vuol dormir quando più neva,
Guardi alla parte che nel mezzo è posta
Tra l’Euro e l’Ostro; e dove debbe poi
590Colla famiglia sua sedersi a mensa,
Addrizzi al Mezzogiorno e ’n quella parte
Ove col suo Monton riscaldi Apollo:
Indi che s’alza il Sol, gli estivi letti
Distenda in parte che vaghegge il cielo
595Ch’assai presso a Boote il giro mena;
E per la cena allor si toglia un loco
Ch’al brumale Orïente il seno spieghi:
Quella parte comun dove esso accoglie
I suoi dolci vicin, gli antichi amici,
600E per cacciar la noia, innanzi e ’ndietro
Con lenti passi mille volte il giorno
Va misurando, e ragionando insieme,
Guardi nel Mezzodì, coperta in modo,
Che poiché ’l caldo Sol più in alto sale
605Ch’ove il meridïan per mezzo parte
Il cerchio equinozial, non possa unquanco
Ivi entro penetrar coi raggi suoi:
Così avrà nel calor più fresca l’ombra,
E nei giorni minor più dolce il cielo.
610Or quel membro ove star den tutti in uno
I bifolchi e i pastor cogli altri insieme
Ch’al servigio dei campi eletti furo,

Aggia un gran loco dove in alto surga
Il gran tetto spazioso e ben per tutto
615Contro agli assalti di Vulcano armato:
In larghissimo giro in mezzo segga
Poco alzato da terra ampio camino,
Perch’il verno, da poi ch’ei fan ritorno
La notte dal lavor bagnati e lassi,
620Faccian contenti al desiato foco
Ghirlanda intorno; e ragionando, in parte
Delle fatiche lor prendin ristoro.
Ponga loro a dormir dove percuota
Vulturno e Noto, in semplicette celle
625Ben propinque a le stalle, e ben ristrette
Tutte fra lor, perché in un punto possa
Ritrovargli il villan davanti al giorno,
E scacciargli di fuor: né gli bisogne
Troppo tempo gettar cercando i letti:
630E l’un per l’altro da vergogna spinto,
E ’nvidioso al vicin, men pigro viene.
Chi tien la cura lor, si faccia albergo
Pur vicino alla porta, acciò che veggia
Chi torni e vada, e che spiar ne possa
635La cagione, e garrir chi truove in fallo.
Cotal della famiglia il vecchio padre
Sopra quel di costui prenda dimora
Per l’istessa cagion, tenendo fiso
L’occhio in colui che gli governa il tutto.
640

L’ultima parte alfin della tua villa,
Con maggior cura aver si dee riguardo
Che ben composta sia: ché ’n sen riceve
Del tuo lungo affannar l’intero pregio.
Il ricetto del vin sia in basso sito,
645Pur con brevi spiragli e vòlti all’Orse;
Lontan dal fumo e dove scalde il foco;
Non confino a citerne o donde possa
Trapassarvi liquor: né presso arrive
Della stalla il fetor; né sopra o intorno
650Di soverchio romor lo turbi offesa.
Quel ch’ha in guardia il liquor da Palla amato,
Pur sia in basso terren; ma caldo e fosco,
Senza fuoco sentir, che assai l’aggreva.
Per le biade e per gran gli alberghi faccia
655Nel più alto solar dove non possa
Mai l’umor penetrar: e questo ancora
Per finestrette anguste Borea accoglia.
Chi il pavimento sotto, e ’ntorno il muro
Con calce edificò, che mischia avesse
660Dentro al tenace sen la fresca amurca,
Dai vermi predator sicuro il rende,
Poi per l’ésca dei buoi, per paglia e fieno,
Di ben contesti legni in alto levi
Ben serrata capanna; e sia in disparte
665Dall’albergo disgiunta, in luogo dove
Né pastor né bifolco il lume apporte.

Ove si face il vin, sia sopra appunto
Alla cava, s’ei può. La chiusa stanza
Ove l’amara uliva olio diviene
670Sotto il pesante sasso, e bassa e scura
E lontana da l’altre esser conviene:
Ché l’odor e ’l romor fa danno a molti.
Ove giace il villano, elegga accanto
Qualch’ampia sala ove serrati insieme
675Sien gl’instrumenti suoi, che d’ora in ora,
Quanto il bisogno vien, gli truovi al loco,
Né convegna cercar, perdendo il giorno
E l’opera miglior: ma in guisa faccia
Del discreto nocchier che doppie porta
680Sarte, antenne, timoni, ancore e vele;
E nei tempi seren le alluoga in parte,
Che nel più fosco dì, tra nebbia e pioggia,
Al tempestoso ciel, la notte oscura
Ch’or Euro or Noto al faticato legno
685Percuote il fianco, e l’Aquilon la prora,
Solo in un richiamar l’ha preste innanzi.

Ivi in disparte sia l’aratro e ’l giogo,
E più d’un vomer poi, più stive e buri,
Lo stimolo, il dental; sievi il timone,
690Più picciol legni, ch’a grand’uopo spesso
Gli ritrovò il villano in mezzo l’opra:
Poi le zappe, i marron, le vanghe, i coltri,
Le sarchielle, i bidenti, e quell’altre armi

Onde porta il terren l’acerbe piaghe,
695Sian messe tutte insieme; e tante n’aggia,
Che n’avanzi al lavor qualcuno ognora:
Più là sien per potar gli aguti ferri,
Il tagliente pennato, il ronco attorto:
Doppie scure vi sien, le gravi e levi,
700Per tagliar alle piante il braccio e ’l piede:
Delle biade e del fien le adunche falci
Li sospenda tra lor; né lunge lasse
Qualche pietra gentil ch’aguzze e lime,
E l’incude e ’l martel, che renda il taglio:
705Lì, per batter il gran nei caldi giorni,
Il coreggiato appenda, il cribro e ’l vaglio,
La vil corba, la pala, e gli altri arnesi
Da condur le ricolte al fido albergo.
Ma che? voglio io contar tutte le frondi
710Che in Ardenna crollar fan l’aure estive,
S’io mi metto a narrar quanti esser denno
Gli instrumenti miglior di che il villano
Tutto il tempo ha mestiero, e ch’ei si deve
Procacciar e servar gran tempo innanzi?
715Chi porìa nominar tanti altri vasi
Per la vendemmia poi? tanti altri ingegni
Per ulive, per frutti? e tante sorti
Sol di carrette, d’erpici e di tregge,
Le quai, benché hanno albergo in altro loco,
720Pur saria senza lor la villa nuda?

E tutti denno aver suo proprio seggio;
E dal suo curator con sommo amore
Rinnovati talor, più spesso visti.

Ponga il forno vicin: ponga il mulino
725Sopra l’acqua corrente; e s’ella manca,
Ponga il pigro asinel di quella in vece,
Che la pesante pietra intorno avvolga.

Or ch’ha l’albergo suo condotto a porto,
E di quanto ha bisogno appien fornito;
730Già rivolga il pensiero in quei che denno
Nel lavor soprastar, solcar i campi,
E le gregge e gli armenti al pasco addurre.
Chi non può sempre aver la vista sopra
Della sua possession, ma intorno il meni
735Qualche causa civil, qualch’altra cura
Di patria, di signor, di studio o d’arme;
Si truove un curator che guarde il tutto.
Non elegga un di quei, ch’essendo nato
Dentro a qualche città, più tempo in essa,
740Che nei campi di fuor, si truovi spesso.
Sia rustico il natal; né gustato aggia
Le delizie civil, l’ombra e ’l riposo:
E s’ancor fusse tal, che non sapesse
Di dì in dì le ragion produrre in carte,
745Nol lascerei perciò: ché questi sono
Di memoria maggior, né per sé ponno
Da ingannar il signor finger menzogne;

E ’l fidarse d’altrui che ’l falso scriva,
Troppo periglio tien; ma indotto e rozzo
750Più sovente danar che libri apporta.
Non sia giovin soverchio, o troppo antico;
Ch’a quel la degnità, la forza a questo
Abbastanza non fia: l’età di mezzo
L’una e l’altra contiene, e ch’aggia sposa
755Che sì bella non sia, che dal lavoro
Amore o gelosia lo spinga a casa;
Né tal ancor, che fastidioso vegna,
Ricercando l’altrui, del proprio albergo.
Dai festivi conviti, e d’altrui giuochi
760Viva sempre lontan: non vada intorno
Fuor delle terre sue, se non vel mena
Il vendere o ’l comprar bestiami o biade.
Non si cerchi acquistar novelli amici;
Né di quel ch’egli ha in casa, sia cortese:
765Non inviti o riceva entro all’albergo,
Se non quei del padron congiunti e fidi.
Non lasce ai campi suoi far nuove strade;
Ma quelle ch’ei trovò, con siepi e fosse
Negli antichi confin ristrette tenga.
770Quel che riporta onor, grazia e bellezza,
Lasci far a chi ’l paga; e solo intenda
Al profitto maggior la notte e ’l giorno.
Non sia nel comandar ritroso ed aspro,
Ma sollecito e dolce a quei che stanno
775

Sotto l’impero suo, ponendo lieto
Sempre il primo tra lor la mano all’opra:
Largo lor di mercè, di tempo scarso
Per ciascuna stagion, ch’un’ora sola
Del commesso lavor non passe indarno:
780Al più franco villan sia più cortese
Di vivande talor, talor di lode,
Perch’aggia ogni altro d’imitarlo ardore:
Non con grevi minacce o con rampogne,
Ma insegnando e mostrando induca il pigro
785A divenir miglior; poi rappresenti
Di sé stesso l’esempio: in quella forma
Che ’l saggio imperator, che ’ndietro vede
Pallida e con tremor la gente afflitta
Tornar fuggendo, e sbigottita il campo
790Al suo fero avversario aperto lascia;
Che, poiché nulla val conforto e prego,
Egli stesso alla fin cruccioso prende
La trepidante insegna, e ’n voci piene
Di dispetto e d’onor la porta, e ’n mezzo
795Dell’inimiche schiere a forza passa;
Ch’allor riprende ardir l’abbietta gente;
E da vergogna ind¢tta, e dal desio
Di racquistar l’onor, sì forte l’orme
Segue del suo signor, che in fuga v"lto
800Ritorna il vincitor del vinto preda.
Della famiglia sua la fronte e ’l piede

Tenga coperti ben; né contro al verno
Gli manchin l’arme, ché cagion non aggia,
Quando sia vento o giel, di starsi al foco.
805Non deve il curator vivande avere
Differenti da lor, né prender cibo
Se non tra’ suoi villan nel campo o in casa:
Ché lui compagno aver, gli fa del poco
Più contenti restar, che senza lui
810Non farebbe ciascun del molto spesso.
Vieti loro il confin dei suoi terreni
Senza licenza uscir; né deve anco esso
Fuor di necessità mandargli altrove.
Chi far porìa ch’al sonno e alla quïete,
815Piuttosto ch’ai piacer, dopo il lavoro
Dessero il tempo suo, più sani e lievi
E forti al faticar gli avrebbe molto.
Deve il buon curator vender assai;
Poco o nulla comprar, sebben vedesse
820Certo il guadagno e doppio: ché tal cura
Lo fa spesso obliar quel che più vale,
E ’ntricar la ragion col suo signore.
Piuttosto impieghi, se gli avanza, il tempo
A ’mparar dal vicin con quale ingegno
825Fe la terra ingrassar ch’avea sì magra;
O con qual arte fa che i frutti suoi,
Quando gli altri hanno i fior, sien già maturi.
Doni alle gregge umìli un tal pastore,

Che diligente, parca, e ’ntesa all’opra,
830Più che robusto il corpo, aggia la mente.
Di spaventosa voce, alto e membruto
Prenda il bifolco, che bene entro possa
Portar l’aratro, e maneggiar la stiva,
E per forza addrizzar, s’ei torce, il solco;
835Poi d’orribil clamor l’orecchie empiendo,
Del suo timido bue più spesso affrette,
Che battendo o pungendo, il lento piede:
E sia di mezza età; ché quinci o quindi
Non gli vole il pensier, ma fermo il tenga.
840Di più giovin valor, quadrato e basso,
Si sceglia il zappator: ma in quel che deve
Piante e vigne potar, l’amore, il senno,
La pratica, il veder, gli aguti ferri
Più si den ricercar, che ’l corpo e gli anni.
845Servi il dritto a ciascun, né prenda speme
Di tener l’opre rie gran tempo ascose:
Sia sempre verso il Ciel fedele e pio;
Guardi le leggi ben, né venga all’opre
Contra i comandi suoi nei festi giorni:
850Né gli lasce ir però del tutto indarno
Dietro a folli piacer; ché in essi ancora,
Senza offender lassù, può molto oprare.
Poiché son visitati i sacri altari,
Già non ti vieta il Ciel seccare un rivo
855Che può il grano inondar; drizzar la siepe

Che ’l vento o ’l viator o ’l mal vicino,
Per furar il giardin, per terra stese;
Non le gregge lavar, che scabbia ingombre;
Non le fosse mondar, purgar i prati;
860Non sospender talora i pomi e l’uve,
O l’ulive insalar; né trarre il latte,
E ’l formaggio allogar che in alto asciughi;
O ’l suo pigro asinel d’olio e di frutti
Carcar talvolta, e che riporte indietro
865Dalla antica città la pece e ’l sevo;
E molte cose ancor che nulla mai
Vietò religion. Poi gli altri giorni
Che la legge immortal concede a tutti
L’uscir fuori al lavor, ma cel contende
870L’aria che noi veggiam crucciosa e fosca
Di piogge armarse, che nel sen gli spinge
Dal suo nido affrican rabbioso Noto;
Non si dee in ozio star sotto al suo tetto;
Ma le corti sgombrar, mondar gli alberghi
875Delle gregge e dei buoi, condur la paglia
Nel fosso a macerar per quello eletta;
Il vomero arrotar, compor l’aratro;
Or tutti visitar gli arnesi, e i ferri
Rammendar, e forbir chi n’ha mestiero:
880Or il torto forcon col dritto palo
Aguzzar e limar; or per la vigna
I vincigli ordinar dal lento salcio;

Or gli arbori incavar, che sien per mensa
Del porco ingordo, o per presepio al toro:
885Poi per la sua famiglia or seggi, or arche
Pur rozzamente far, che sien ricetto
Del villesco tesoro; or ceste, or corbe
Tesser cantando; or misurar le biade,
E i numeri segnar; or dell’alloro,
890Or del lentisco trar l’olio e ’l liquore
Per gli armenti sanar da mille piaghe.
Or, che vogl’io più dir? che tante sono
L’opre che si pon far quando è negato
Dall’avversa stagion toccar la terra,
895E c’al tempo miglior son poscia ad uopo;
Ch’io nol saprei narrar con mille voci:
Ma tutte al curator saranno avanti
Quando vorrà pensar che l’ozio è ’l tarlo
Che le ricchezze, il cor rode e l’onore,
900E di scherno e di duol compagno e padre.



Fine del Libro quarto.

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