< Della coltivazione
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Libro V. I giardini. Come si coltivano in ogni stagione
Libro IV Libro VI


 
Già nel bel regno tuo rivolgo il passo,
O barbato Guardian degli orti ameni,
Di Ciprigna e di Bacco amata prole;
Che minaccioso fuor mostrando l’arme
5Pronte sempre al ferir, lontane scacci,
Non di aurato pallor ma tinte in volto
D’infiammato rossor, donzelle e donne.

E voi, famoso re, che i gigli d’oro
Alzate al sommo onor, porgete ancora
10Quell’antico favor che tempra e muove
E la voce e la man, ch’io canti e scriva;
Ma non pensate già trovar dipinto
Dentro alle carte mie l’arte e gli onori,
I frutti peregrin, le frondi e l’erbe,
15La presenza e gli odor del culto e vago
Sacro giardin che voi medesmo, poscia
Ch’a più gravi pensier donato ha loco
L’alta mente real, formando andate

Lungo il Fonte gentil de le belle acque.
20Non s’imparan da me gli antichi marmi,
Le superbe muraglie, e l’ampie strade
Che ’n sì dotta misura intorno e ’n mezzo
Fan sì vago il mirar, ch’avanza tutto
Del felice Alcinoo, del saggio Atlante
25Quanto scrisse giammai la Grecia e Roma;
Né il lucente cristallo e ’l puro argento
Per gli erbosi cammin con arte spinti
A trar l’estiva sete a i fiori e l’erbe,
Con sì soave suon, che ’nvidia fanno
30A quel che in Elicone Apollo onora;
Poi tutto accolto in un ch’ogni uom direbbe
Che Diana gli è in sen con tutto il coro;
E nel più basso andar riposto giace
D’un foltissimo bosco, ove non pare
35Che giammai piede umano orma stampasse.
Quante fïate il dì Satiri e Pani
Tra le Driade sue, selvagge Ninfe,
Lo van lieti a veder, cantando a schiera,
Di maraviglia pien, tra lor dicendo
40Ch’ogni suo bene il Ciel mandato ha loro!
E riverenti poi la vostra immago,
Come cosa immortal, con voti e doni
Cingon d’intorno, e ’n boscherecci suoni
Empion le rive e ’l ciel del vostro nome!
45Poi l’albergo real dentro e di fuore,

L’alte colonne sue, gli archi e i colossi,
Ond’il Graio e ’l Latin con ogni cura
Per rivestirne voi spogliâr se stessi,
E si spogliano ancor; come lor sembra
50Oltra il creder uman divina cosa!
Quante fur, Prassitele, Apelle e Fidia,
Di quelle opre miglior ch’aveste in pregio
In Efeso, in Mileto, in Samo, in Rodo,
Ch’or le vedreste lì congiunte insieme!
55Or di sì gran lavor, sì raro e vago,
Non sono io per parlar: ben spero ancora
D’esse, e d’opre maggior dei padri illustri
Ond’il sangue traeste, e di voi stesso
Cantar con altro stil tanto alti versi,
60Che i nomi che già fur molti anni ascosi,
Rimonteranno al ciel con tanta luce,
Che loro invidia avran Troia e Micene:
E la sacra Ceranta andar più chiara
Vedremo allor, che per le dotte piume,
65Già nel tempo miglior, l’Eurota e ’l Xanto.
Ma prima seguirò con basse voci,
Ove deggia il cultor e con qual arte
Governar il giardin, che sempre abbonde
(Senza averlo a comprar) la parca mensa
70Dei semplici sapor, di agrumi e d’erbe.

Prima a tutte altre cose, al felice orto
Truovi seggio il vilian, ch’aprico e vago

Tocchi l’albergo suo, talché stia pronto
L’occhio e l’opra ad ognor, né gli convegna
75Lunge andarlo a trovar; così potrasse
Or la vista goderse, or l’aria amena,
Or gli spirti gentil che i fiori e l’erbe
Spargon con mille odor, facendo intorno
Più salubre, più bel, più chiaro il cielo;
80Né il rapace vicin, la greggia ingorda
Potran danno apportar, ch’ascoso vegna:
E ’l giovenco e ’l monton la mandra e ’l letto
Tengan così vicin, che in pochi passi
Possa il saggio ortolan condurvi il fimo
85Ch’è la mensa e ’l vigor della sua speme.
Sia dall’aia lontan, perché la polve
Della paglia e del gran dannosa viene.
Quel si può più lodar, che ’n piano assegga
Pendente alquanto, ove un natio ruscello
90Possa il fuggente piè drizzar intorno,
Come il bisogno vuol, per ogni calle:
Ma chi nol puote aver, sotterra cerchi
Dell’onda ascosa; e se profonda è tale,
Che già l’opra e ’l sudor sia più che ’l frutto;
95Ove più s’alze il loco, ampio ricetto
O di terra o di pietre intorno cinga
Per far ampio tesor l’autunno e ’l verno
D’acqua che mande il ciel, perch’ei ne possa
All’assetata estate esser cortese.
100

A chi fallisse pur con tutti i modi
Da poterlo irrigar, più addentro cacci,
Quando zappa, il marron; ch’è il sezzo schermo
Contro al secco calor del Sirio ardente.
Chi vuol lieto il giardin, la creta infame
105Deve in prima schivar; poi la tenace
Pallente argilla, e quel terren noioso
Che rosseggiando vien; l’imo e palustre,
Ove in bel tremolar coll’aure scherzi
La canna e ’l giunco; e ’l troppo asciutto ancora,
110Ch’abbia il grembo ripien d’irti e spinosi
Virgulti e sterpi, o di nocenti; e triste
E di mortal liquor produca l’erbe,
O le piante crudei, cicute e tassi,
O chi s’agguaglie a lor: che fuor ne mostra
115Il venen natural che ’n seno asconde.
Quella terra è miglior, ch’è nera e dolce,
Profonda e grassa, e non si appiglia al ferro
Che la viene a impiagar, ma trita e sciolta
Resta dopo il lavor, ch’arena sembre;
120Che partorisca ognor vivace e verde
E la gramigna e ’l fien; che in essa spanda
Ora i suoi rozzi fior l’ebbio e ’l sambuco,
Or le vermiglie bacche a tinger nate
Dell’arcadico Pan l’irsuta fronte;
125Ove a diletto suo verdegge il pomo,
E ’l campestre susino; ove la vite,

Non chiamata d’alcun, selvagge spanda
Le braccia in giro, e si mariti all’olmo
Che senza altro cultor gli ha dato il loco.

130Non si chiuda il giardin con fosso, o muro,
Dagli assalti di fuor, che questo apporta
Vana spesa al signor, né lunghi ha i giorni;
L’altro il ferace umor che ’ntorno truova
Nel suo profondo ventre accoglie e beve;
135Onde l’erbette e i fior, pallenti e smorti,
Non si pon sostener; ché il cibo usato,
Chi ’l devria mantener, gli ’ngombra e fura.
Più sicuro e fedel, più lungo schermo
E vie più bello avrà chi piante in giro,
140Dei più selvaggi prun, dei più spinosi,
Pungentissima folta e larga siepe.
L’aspra rosa del can, l’adunco rogo
(Che son più da pregiar) quando gli avrai
Ben contesti fra lor, terranno al segno
145Il furor d’aquilon, non pur le gregge:
Poscia al tempo novel fiorito e verde,
Spargon semplice odor che tutto allegra
Il ben posto sentier, prestando il nido
A mille vaghi augei che ’n dolci rime
150Chiaman lieti al mattin chi surga all’opra.

Son più guise al piantar; ma questa sola,
Con più dritto tenor, vivace e salda
La nutrisce e mantien mille anni e mille:

Poiché ’nsieme col Sol piovosa e fosca
155Monta la Libra in ciel, che già si bagna
Dentro e fuori il terren; fa’ intorno al loco
Che ne vuoi circondar, due solchi eguali,
Ben divisi tra lor, tre piè disgiunti,
E due profondi almen: poi cerca il seme,
160Fra quei lodati prun, del più maturo,
Del più sano e miglior; così tra l’acque
Lo poni a macerar là dove infusa
Del vil moco vulgar farina avesti:
Poi di sparto o di giunco in man ti reca
165Due corde antiche in cui per forza immergi
L’intricata sementa; indi l’appendi
Sotto il tetto a posar nel verno intero:
Indi ch’a ristorar la terra afflitta
Le tepide ali al ciel Favonio spiega,
170E ritorna a garrir l’irata Progne;
Ritrova i solchi tuoi fatti all’ottobre
E s’asciughino allor s’ivi entro fusse
Acqua o ghiaccio brumal; poi della terra
Che ne traesti pria confetta e trita
175Gli riempi a metà; poi dritte e lunghe
Le sementate corde in essi stendi,
E leggermente alfin le cuopri in guisa,
Ch’il soverchio terren non tanto aggrevi,
Che non possa spuntar la gemma fuore
180Nel trigesimo dì: ch’allor vedranse

Nascer ad uno ad un: dà lor sostegni,
Dona la forma allor; ché i buon costumi
Mal si ponno imparar chi troppo invecchia.

Or con dotta ragion misuri e squadri
185Il già chiuso giardin. Ove più scaldi
Apollo al mezzodì, dove le spalle
Son volte all’Aquilon; rompa all’aprile,
Per seminarlo poi nel tardo autunno.
Quel che men curi il giel che volge all’Orse,
190O l’albergo vicin l’adombre o ’l colle,
E più abbonde d’umor; zappi all’ottobre,
E nel tempo novel la metta in opra.
Tiri dritto il sentier, che ’l dorso appunto
Parta tutto al giardin: poi dal traverso
195Venga un altro a ferir, sì messo al filo,
Che sian pari i canton, le facce eguali,
Talché l’occhio al mirar non senta offesa,
Né sian l’opre maggior più qui ch’altrove.
Ove abbonde il terren, si ponno ancora
200D’altre strade ordinar; ma in quella istessa
Norma e figura pur, lassando in mezzo
Simigliante lo spazio sì, che tutte
Di un medesmo fattor sembrin sorelle.
Il troppo ampio cammin che quasi ingombre
205Quanto i semi e ’l lavor, non merta lode:
Lo strettissimo ancor, che mostri avaro
Di soverchio il padron, di biasmo è degno:

Quello è perfetto sol, che ben conface
Al formato giardin, fra questo e quello.
210Surghin quadrate poi con vago aspetto
L’altre parti, tra lor distanti e pari,
Ove denno albergar i fiori e l’erbe.

Or non lunge da lui, dove più guarde
Apollo al minor dì, componga in quadro
215Altro angusto orticel, disgiunto alquanto,
Ma nell’istessa forma; intorno cinto,
Che nol possa varcar pastore o gregge;
E ben chiuso dai venti in ogni parte.
Lì per l’api albergar componga in giro,
220O di scorza, o di legno entro cavato,
O di vimin contesti, o d’altri vasi,
Brevi casette ove assai stretto il calle
Dia la porta all’entrar, perché non possa
Caldo e giel penetrar; ché questo e quello
225È, struggendo, e stringendo, al mèl nemico:
Ma di frondi e di limo ogni spiraglio
Ben sia serrato; e tutti i tristi odori
E di fumo e di fango sian lontani;
Né soverchio romor l’orecchie offenda.
230Di fonte o di ruscel chiare acque e dolci
Per gli erbosi sentier corrin vicine;
Ove in mezzo di lor traverso giaccia
Pietra, o tronco di salcio, ove aggian sede
Da riposar talor, seccando l’ali
235

All’estivo calor se l’Euro e l’Ostro
Le han portate improvvise aspre procelle.
L’alta palma vittrice o ’l casto ulivo
Stendin presso ai lor tetti i sacri rami,
Di cui l’ombra e l’odor le ’nviti spesso
240Tra le frondi a schifar gli ardenti raggi.
Qui mille erbe odorate, mille fiori,
Mille vaghe viole, mille arbusti
Faccian ricco il terren che ’ntorno giace;
E lor servino in sen l’alma rugiada
245Non furata giammai, che d’esse sole.
Dai dipinti lacerti e dagli augelli
Ben sian difese, perché l’impia Progne
Più dolce esca di lor non porta al nido.

Or, cantando il cultor le rozze lodi
250Al ciprigno splendor, ch’agli orti dona
La virtude e ’l valor, ch’addolce e muove
Il seme a generar, ch’accresce e nutre
Quanto gli viene in sen, s’accinga all’opra.
Poiché ’l celeste Can tra l’onde ammorza
255L’assetato calor; quando il Sol libra
La notte e ’l dì, per dar vittoria all’ombra;
Che d’aurati color l’Autunno adorna
Le tempie antiche, e del soave umore
Del buon frutto di Bacco ha i piè vermigli,
260Già cominci a impiagar col ferro intorno
Il suo nuovo terren, se in esso senta

Per la nuova stagion spenta la sete,
E bagnato dal ciel: ma s’ei ritrova
E dal vento e dal sol sì dura e secca
265La scorza come suol, sopr’esso induca
Del soprastante rio con torto passo
Il liquido cristallo, e d’esso il lasce
Largamente acquetar l’asciutte voglie:
Ma se ’l loco e se ’l ciel gli negan l’onde,
270Lo consiglio aspettar ch’al dì più breve
Scorga innanzi al mattino in oriente
La Corona apparir che Bacco diede
Alla consorte sua che ’l bel servigio
All’ingrato Teseo già fece in Creta.
275Chi procura il giardin cui sempre manche
Per natura l’umor, più addentro cacce
Lavorando il marron tre piedi almeno:
Quel che per sé n’abbondi, e che si possa
Nel bisogno irrigar, men piaga porte.
280Poich’avrà in ogni parte al ciel rivolto,
Lo lasci riposar, che ’l crudo gielo
Tutto triti il terren, le barbe ancida;
Che non men lo suol far, che Febo e ’l luglio.
Tosto che ’l tempo rio, montando il Sole,
285S’arrende al maggior dì che già discioglie
Dal ghiaccio i fiumi, e la canuta fronte
Del nevoso Apennin più rende oscura;
Ripercuota il terren, disponga e formi
Ben compartiti

allor gli eletti quadri
290Ove dee seminar; sian dritti i solchi;
Surgan le porche eguai, di tal larghezza,
Che tenendo il villan fuor d’essa il piede,
Tocchi il mezzo con man, né gli convegna
L’orma in essa stampar quando è mestiero
295Di piantar, di sarchiar, di coglier l’erbe.
Non passe il sesto piè: sia per lunghezza
Due volte il tanto; e dove abbondi umore,
O dove calchi il rio, due piè s’innalzi,
E nel secco giardin gli basti un solo.
300Tra l’uno e l’altro quadro, ove sia il modo
Di vive onde irrigar, si lasce in mezzo
L’argin che questo e quel sormonte in guisa,
Che prestando esso il varco all’onde estive,
Poi le possa inviar fra l’erbe in basso,
305Quando vuole il cultor, con meno affanno.
Poiché del quinto dì vicino è il tempo
Che tu ’l vuoi seminar, purgar conviensi,
Che non resti una sol, che ’l sen gl’ingombre,
Delle barbe crudei ch’han vinto il verno:
310Poi colle proprie man (né ’l prenda a schifo;
Ché suol tanto giovar) tutto il ricuopra,
Che ben ricotto sia, d’antico fimo;
Chi n’ha, dell’asinel, che men produce
L’erbe nemiche; e degli armenti appresso;
315Poi delle gregge alfin, cui tutto manche.


Come prodotte ha il ciel le piante e l’erbe
Sì contrarie fra lor? ch’a quella diede
Dolce e caro sapor; ripose in questa
Sugo amaro e velen: nell’una inchiuse
320Secca e fredda virtù; nell’altra ha inceso
L’infiammato vapor; quale il valore
Trae dell’impio Saturno, e qual da Marte;
Chi dal benigno Giove o dalla figlia,
Quanto han soave e buon, s’accoglie in seno:
325Chi tra le nevi e ’l giel menando i giorni,
Sotto il più freddo ciel vien lieta e verde,
Chi nel più caldo sol le forze accresce:
Chi tra le secche arene, ove ha più sete
L’Ammonio e ’l Garamanto, ha caro il seggio;
330Chi dove stagnin più l’Ispani e l’Istro,
Ove calchi il Gelone e l’Agatirso,
Fa più verde il sentier: chi nasce in fronte
Dell’Olimpo divin, di Pelio e d’Emo;
Qual l’aperte campagne e valli apriche
335Del tessalico pian ricerca: e quale
Vuol profondo il terren, qual vuol gli scogli:
Chi vuol vicino il mar; chi morta resta
Nel primo grave odor che dall’armento
Vien di Proteo lontano, o come prima
340La tromba di Triton le freme intorno.
Ma il saggio giardinier che ben comprenda
Di ciascuna il desir, può con bell’arte

Accomodarsi tal, ch’a poco a poco
Faccia porle in oblio l’antiche usanze,
345E rinnovar per lui costumi e voglie.
Quanti veggiam noi frutti, erbe e radici,
Che dai lunghi confin di Persi e d’Indi,
O dal libico sen, per tanti mari,
Per tante regïon cangiando il cielo
350E cangiando il terren, felice e verde
Menan vita tra noi; né più lor cale
Di Boote vicin, di nevi o gielo
Che l’assaglin talor; che ’l freddo spirto
Sentin dell’aquilon! perché natura
355Cede in somma all’industria, per lungo uso,
Continovando ognor, rimuta tempre.
Che non puon l’arte e l’uom? che non può il tempo?
Toglie al fero leon l’orgoglio e l’ira,
E lo riduce a tal, ch’amico e fido,
360Colle gregge e coi can si resta in pace.
Al superbo corsier la sella e ’l freno
Fan sì dolci parer, ch’egli ama e cole
Chi dell’armi e di sé gli carche il dorso,
E l’affanni e lo sproni, e ’l spinga in parte
365Ove il sangue e ’l sudor lo tinga e bagne.
Il bifolco, il pastor, contento e lieto
Rende il cruccioso tauro, e non si sdegna
Dello stimol, del giogo e dell’aratro.
Il gran re degli uccei, che l’armi porta
370

Dal Fabbro sicilian su in cielo a Giove;
E gli altri suoi minor ch’adunco il piede
Han simigliante a lui, che d’altrui sangue
Pascon la vita lor; non veggiam noi
Dall’alto ingegno uman condotti a tale,
375Che si fan spesso l’uom signore e duce;
E presti al suo voler spiegando l’ali,
Or per gli aperti pian timide e levi
Seguir le lepri, or fra le nubi in alto
Il montante aghiron, or più vicini
380I men possenti uccelli; e fallir poco
Delle promesse altrui, ma lieti e fidi
Riportarne al padron le prede e spoglie?
Ma che m’affatico io? che pur m’avvolgo
Or per l’aria, or pei campi, or per le selve;
385Per mostrar quanto può l’arte e ’l costume
Sopra il seme mortal; se in sen ne giace
Di quanti altri ne son più certo esempio?
Non possiam noi veder per questa e quella
Del mondo region gli uomini istessi
390Sì contrari tra lor, che dir si ponno
Pur diversi animai? quelli aspri tigri,
Quei pecorelle vil, quei volpi astute,
Lupi rapaci quei, questi altri sono
Generosi leon; né vien d’altronde
395Che dai ricordi altrui, dall’uso antico;
Da pigliar quel cammin, negli anni primi,

Di quei che innanzi van segnando l’orme.
Non pensi alcuno in van, che l’aria e ’l cielo
Sian l’intera cagion ch’all’alme imprima
400Le varie qualità: che se ciò fusse,
L’onorato terren ch’ancor soggiace
Al chiaro attico ciel, l’antica Sparte,
Il corintico sen, Messene ed Argo,
E mille altri con lor, che fur già tali,
405Non con tanta viltà, con tanta doglia,
Con lor tanto disnor, tenuto il collo
Sotto al tartaro giogo avrian tanti anni:
Né in quel famoso nido in cui dapprima
Quei grandi Scipïon, Cammilli e Bruti
410Nacquer con tanto amor, sarian dappoi
Lo spietato d’Arpin, Cesare e Silla
Venuti a insanguinar le patrie leggi,
E sotterrarsi ai piè con mille piaghe
E tra mille lacciuoi la bella madre:
415Né il mio vago Tirren ch’ebbe sì in pregio
La giustizia e l’onor, sarebbe or tale,
Che quel paia il miglior, che più s’ingrassa
Del pio sangue civil, che intorno mande
Più vedovelle afflitte, e figlioli orbi,
420Privi d’ogni suo ben, piangenti e nudi:
Né tutta Italia alfin, che visse esempio
Già d’intera virtù, sarebbe or piena
Di tiranni crudei, di chi procacce

Nuovi modi a trovar, per cui s’accresca
425In più duro servir: né pur gli baste
Il peso che gli pon, ch’ancor conduce
E l’Ibero e ’l German che più l’aggrave.
Ma il costume mortal già posto in uso
Per gl’infiniti secoli fra noi,
430Fa parerci il cammin sassoso ed erto,
Dolce soave e pian: ch’al gusto avvezzo
Coll’assenzio ad ognora, è il mele amaro.

Ma il vostro almo terren, gran Re dei Franchi,
Dal primo giorno in qua, ch’ei diè lo scettro
435Al buon duce sovran che ’n sen gli addusse
La gloria dei Troian, già son mille anni;
Ha con tanto valor serrato il passo
Ad ogni usanza ria, che nulla ancora
Cangiò legge o voler, ma in ogni tempo
440Si son viste fiorir le insegne galle.
Deh come son trascorse or le mie voci
Dalle zampogne umìl tra gli orti usate,
Nelle tragiche trombe oltr’a mia voglia?

Già il perduto sentier riprendo, e dico
445Che ’l discreto cultor non aggia tema
Di non poter nodrir nel breve cerchio
Del suo picciol giardin mille erbe e mille,
Ben contrarie tra lor, sì liete e verdi,
Che si potrà ben dir ch’ivi entro sia
450La Scitia, l’Etiopia, i Gadi e gl’Indi.


Tosto che noi veggiam che i bei crin d’oro
Già tra gli umidi Pesci Apollo spande,
Truove il saggio ortolan gli eletti semi
Pur dell’anno medesmo (ai troppo antichi
455Non si può fede aver; ché la vecchiezza
Mal vien pronta al produr); riguardi ancora,
Che di pianta non sia dal tempo stanca,
O che ’l tristo terreno, o ’l poco umore,
O ’l poco altrui curar l’avesse fatta
460Di forza o di sapor selvaggia e frale:
E non si pensi alcun, che l’arte e l’opra
Possin del seme rio buon frutto acc"rre.
L’ampio cavol sia il primo; e non pur ora,
Ma d’ogni tempo aver può la semenza:
465Brama il seggio trovar profondo e grasso;
Schiva il sabbioso in cui non aggia l’onda
Compagna eterna; e più s’allegra e gode
Ove penda il terren: vuol raro il seme,
Vuol largo il fimo; e sotto ciascun cielo
470Nasce egualmente, ma il più freddo agogna;
Rivolto a mezzodì, più tosto surge;
Più tardo all’Orse, ma l’indugio apporta
Tal sapor e vigor, ch’ogni altro avanza.
Or la molle lattuga, e ’nnanzi ancora,
475Acciocché al nuovo april cangiando seggio;
Dentro a miglior terren colonia induca,
Tempo è di seminar; seco accompagne
(Che

d’aver lei vicin lieto si face)
L’infiammante nasturzio, ai serpi avverso:
480Or la salace eruca, e l’umil bieta;
E la morbida malva, ancor che sembri
Di soverchio vulgar, tale ha virtude,
Tale ha dolce sapor, ch’è degna pure
Di vedersi allogar tra queste il seme:
485Or quei ch’abbiam, nelle seconde mense,
Di ventosi vapor salubre schermo,
E l’anicio e ’l finocchio e ’l coriandro,
E l’aneto con lor sotterra senta
La sementa miglior; la satureia
490Negli aprici terren vicino al mare;
La piangente cipolla, l’aglio olente,
Il mordente scalogno, il fragil porro,
Ove il grasso e l’umor sian loro aita,
E dove truovin ben purgata sede
495Dall’erbe intorno, e che soave e chiaro
Spiri il fiato quel dì fra l’Euro e l’Ostro.
Quando il suo lume in ciel la luna accresce,
O con semi o con piante è la stagione
Di dar principio lor; ma quello è meglio.
500Al pungente cardon già il tempo arriva
Di dar sementa; e ’l sonnacchioso e pigro
Papavero, in quei dì non senta oblio.
Or la ventosa rapa, e i suoi congiunti
Di più aguto sapor, napi e radici,
505

Or del lubrico asparago il cultore
Prender la cura deve; e se dal seme
Vuole il principio dargli, il luogo elegga
Ben lieto e molle, e gli apparecchie il seggio
Levato in alto, e d’ogn’intorno il possa
510Purgar dall’erbe, e che non venga oppresso
Dagli armenti, da gregge, o d’uman piede.
Ma chi più tosto voglia il frutto avere,
E più grato il sapor, congiunga allora
Dei selvaggi che stan fra boschi e siepi,
515Molte radici in un: che più robusti
Saran degli altri, e con men cura assai;
Quasi il rozzo pastor che d’acqua e vento,
E di nevi e di sol già per lungo uso
Non sente offesa, e la vil paglia e ’l fieno,
520Come ai ricchi signor gli aurati letti,
E i panni peregrin, le piume e gli ostri,
Son dolci e cari; e in ogni parte alberga
Culta o sassosa, e non gli cal del cielo.
Quei che di seme son, tratte il cultore
525Con più dolcezza; e quando il verno scende
Della sua prima età, dal gelo il cuopra:
Né il tenerel suo germe sveglia affatto
Dalle radici fuor (che troppo offende
Quando è giovine ancor); ma rompa il mezzo
530Pur leggermente; e dopo l’anno terzo,
E poi sovente ancor (perché gli accresca

Vigor sotterra) le pungenti chiome
Del tiranno Vulcan si faccian preda.
La pura, verginella e sacra ruta
535Tempo è d’apparecchiar, ch’in seme e ’n pianta
Cresce ugualmente, purché in alto assisa,
E ’n umido terren: se la sementa
Fia dentro al guscio suo, più tarda nasce;
Ma per più lunga età: chi picciol rami
540Con parte del troncon sotterra asconda,
Più intende il ver, che chi ripianta il tutto.
Or chi mel crederà, ch’a dirle oltraggio
E maladirla, allor più lieta e fresca
Risurga e verde? e sopra tutti il fico
545Vicin vorrebbe, e tra le sue radici
Prende virtù maggior; e sol gli nuoce
E la vista e la man di donna immonda.
Or la salubre indivia, or la sorella
Di più amaro sapor, ma pien di lode,
550La cicorea sementi, onde si adorni
Poscia al tempo miglior la mensa prima.

Qui già s’inalza il sol; già d’ora in ora
Veggiam più chiaro il ciel; la sacra Lira
Già si nasconde in mar; già i fonti e i fiumi,
555Che legò l’aquilon, zeffiro scioglie:
Già nel tempo più bel truove il cultore,
Per onorar dappoi Venere e Flora,
E prima incoronar la Madre antica,

Di bei dipinti fior, di vaghe erbette
560Colme di vari odor, le piante e i semi.
Prima a tutte altre sia la lieta e fresca,
Amorosa gentil lodata rosa;
La vermiglia, la bianca, e quella insieme
Ch’in mezzo ai due color l’aurora agguaglia;
565Sicché ’l campo pestano e ’l damasceno
Di bellezza e d’odor non vada innanzi.
Chi non voglia aspettar (ché molto indugia
Il suo seme a venir), radici e piante
Metta intorno al giardin, ove non manche
570Né soverchie l’umor; ché quel l’affligge,
Questo le toe virtù: siano ove guarde
Apollo al mezzodì. Chi vuol più folta
Aver schiera di lor, sotterra stenda,
Di propaggine in guisa, i miglior rami,
575A cui l’aglio vicin l’odore accresce
Più soave e miglior, quanto è più presso.
Quando il verno è maggior, di tepide onde,
Cavando intorno, le radici irrore,
Chi desia di poter quando più giela,
580E quando nulla appar di vivo al mondo,
O ’l bel candido seno o i biondi crini
Della sua donna ornar, e farla accorta
Che ’n van non sia di sua bellezza avara:
Ché qual la rosa ancor caduta e frale,
585La guastan l’ore, e non ritorna aprile.

Dei celesti iacinti e bianchi gigli
Or l’antiche radici e pianti e poti;
Ma con riguardo assai, che non sostenga
In lor l’occhio novel percossa o piaga.
590La violetta persa e la vermiglia,
La candida e l’aurata in verdi cespi
Cinghino oggi il giardin: ma in mezzo segga
Con presenza real, leggiadra e vaga,
Di purpureo color, di bianco, e mista,
595E di più bel lavor le maggior frondi
Tutte intagliate, e si dimostri altera
La ierofila allor, facendo fede
Come nacque fra lor regina e donna
Per riempier di bel palazzi e templi,
600E di Venere qui portare insegna.
Dei puri gelsomin radici e rami
Trapiante in loco ove più scalde il sole,
E dove di dì in dì serpendo in alto
Trovi sostegno aver muraglia e canne:
605Or quei che senza odor fan vago il manto.
Del dolcissimo april; ridente il croco,
L’immortal amaranto, il bel narcisso,
E chi al fero leon, che mostre il dente
Rabbioso per ferir, sembianza porta:
610Poi dipinti i suoi crin di latte e d’ostro,
Le margherite pie che invidia fanno
Al più pregiato fior del nome solo

Ch’oggi ha colmo d’onor la Sena e l’Era.
Mille lascive erbette a queste in cerchio
615Faccian corona che da lunge chiami
La verginella man, ch’al tardo vespro
Coll’umor cristallin del lungo giorno
Lor ristore il calor; poi nell’aurora
I lenti e verdi crin soave coglia,
620E tra gli eletti fior ghirlanda tessa
Da incoronar Giunon, che bello e fido
Al suo casto voler congiunga sposo.
L’amorosetta persa, in mille forme
Di vasi e di animai composta, avvolga
625Le membra attorte: il sermollin vezzoso,
E ’l bassilico accanto, il qual si veggia
Per gran sete talor mutarse in quello,
O in salvatica menta, e mostrar fiori,
Con maraviglia altrui, talor sanguigni,
630Talor rose agguagliando, e talor gigli;
Il mellifero timo; il sacro isopo,
L’amaro matrical, ch’al tristo assenzo
Benché, la palma dia, più viene appresso:
E qual hanno il valor ch’asciuga e scalda,
635Tal albergo vorrien, non già la menta
Che trapiantata allor vicina all’acque,
Vive in molti anni poi conforto e scampo
Dell’interno dolor che ’l cibo affligge.
La cetrina, il puleggio, e molte appresso,
640

Ch’io non saprei contar, ch’empion d’onore
Non pur l’almo giardin, ma ch’alla mensa
Portan vari sapori, e ch’han virtudi
Ascose e senza fin, che p"n giovare
In mille infermità donne e donzelle,
645In lor mille desir, chi ben l’adopre.
Or dell’erbe minori in guardia surga
Lungo il trito sentier che ’n mezzo siede
Dell’ornato orto suo, dove sovente
E l’amico e ’l vicin si posa all’ombra,
650Qualche arbusto maggior che serre il calle,
E con ordin più bel la vista allegri:
E se talor gli vien la chioma svelta
Da non pietosa man, robusto possa
Contro ai colpi d’altrui restare in vita,
655E nol spogli d’onor dicembre o luglio:
La pallidetta salvia, il vivo e verde
Fiorito rosmarin, l’olente spigo,
Che ben possa odorar gli eletti lini
Della consorte pia. Chi il vago mirto
660Trapiantasse tra lor, chi il crespo busso,
O ’l tenerel lentisco, o l’agrifoglio,
O ’l pungente ginepro; assai più fida
Arìa scorta di quei, né men gradita:
Il parnassico alloro, e che non monte
665In alto a suo voler, ma intorno avvolga
Le sottil braccia che Farsalia onora;

Il corbezzolo umìl che lui simiglia
Se non mostrasse il suo dorato e d’ostro
Diverso frutto: e di costor ciascuno,
670Caldo vorrebbe il ciel, la terra asciutta
Qual ha il lito marin; ma il busso e ’l lauro
Pur del freddo aquilon si allegra al fiato.

Or qui, più d’altro, aver deve il cultore
L’alma verde odorata e vaga pianta
675Che fu trovata in ciel, che ’l pome d’oro
Produsse, onde poi fu l’antica lite
Tra le celesti Dee, ch’al terren d’Argo
Partorì mille affanni, e morte a Troia;
Quella ch’entr’ai giardin lieti e felici
680Tra le ninfe d’Esperia in guardia avea
L’omicidial serpente; ond’a Perseo
Fu tanto avaro alfin l’antico Atlante,
Ch’ei divenne del ciel sostegno eterno:
Dico il giallo limon, gli aranci e i cedri,
685Ch’entr’ai fini smeraldi, al caldo, al gielo
(Che primavera è loro ovunque saglia,
Ovunque scenda il Sol) pendenti e freschi,
Ed acerbi e maturi han sempre i pomi,
E ’nsieme i fior che ’l gelsomino e ’l giglio
690Avanzan di color; l’odore è tale,
Che l’alma Citerea se n’empie il seno,
Se n’inghirlanda il crin, qualor più brama
Al suo fero amator mostrarse adorna.

O rozza antica età che fusti priva
695Di questo arbor gentil, non aggia il lauro,
Non più l’uliva omai, non più la palma,
Non più l’edra seguace i primi onori
Dei carri trionfal, dei sacri vati:
Ma sian pur di costor, né cerchi Apollo
700D’altra fronde adombrar l’aurata cetra.
Quantunque essi tra lor colore e forma
Nella fronde, nel fior, nel frutto insieme,
Non aggian tutto egual: l’un più verdeggia,
L’altro più scuro appar; questo ha ritondo
705E rancio il pomo, onde poi trasse il nome;
Quel pende in lungo, e la ginestra al maggio
Rassembra in vista; di quest’altro il ventre
Largo e scabroso e sopra picciol ramo,
Viene a grandezza tal, ch’un mostro agguaglia:
710Pur gli tratti il cultor d’un modo istesso.
Ove sia caldo il cielo, il terren trito,
Ove abbonde l’umor, cercano albergo:
Contro all’uso comun d’ogni altra pianta,
Vengon liete e felici al soffiar d’Ostro;
715Nemici di Aquilon sì, che conviene
Ch’al suo freddo spirar muraglia o tetto
Faccian coverchio, e sia la fronte aperta
Ove a mezzo il cammin più s’alzi Apollo.
Dal seme, dal pianton, dal ramo svelto
720Ben vicino al pedal, principio prende

Questo frutto gentil. Chi pianta i grani,
Tre ne congiunga in un, volgendo in basso
La fronte più sottil: cenere e terra
Sia larga sopra lor; né mai si manche
725D’irrigargli ogni dì: chi l’onda scalda,
Loro affretta il venir: poi l’anno terzo
Puon trapiantarse. Chi la branca sceglie,
Sia ben forcuta, e di grossezza almeno
Quanto stringe una mano; e di lunghezza
730Due piè si stenda: e ben rimonde intorno
Tutti i nodi e gli spin; ma quelle gemme
Onde aviam da sperar, non sieno offese:
Poi di fimo bovin, di creta e d’alga
Fasci le sommitadi; e i picciol rami
735Che quinci sono e quindi, apra e disgiunga,
Perché in mezzo di lor risurga il germe;
E sopra alzi il terren, che tutto cuopra:
Non così già il pianton, che vuole almeno
Mostrar sopra di sé due palmi al sole:
740Puossi ancor innestar; ma non si squarce
La sua scorza di fuor, fendendo il tronco.
Sopra il pero non men, sopra il granato
Vien l’inserto fedel; ma sopra il moro,
Di sanguigno color può fare i frutti.
745Chi vuol d’essi addolcir la troppa agrezza,
Riponga a macerar la sua sementa
Sol tre giorni davanti in latte o ’n mele;

Altri mezzo il troncon forando in basso,
Dà luogo al tristo umor infin ch’ei veggia
750Ben già formati i pomi; indi con loto
Serra la piaga lor, che dà virtude
Non pur al buon sapor, ma interi e sani
Puon veder sopra i rami un altro aprile.
Chi trovar brama in lor nuovi altri volti,
755E che venghin maggior, gli chiugga dentro
Un vaso cristallin di quella forma
Che più strana gli par, mentre che sono
Nella più acerba età: per sé ciascuno
Crescer con maraviglia e porse in pruova
760D’esser simili a lui vedrà di certo.
Non cerca compagnia la nobil pianta
D’altro arbor peregrin; ma sol si gode
Dei suoi buon cittadin, dei suoi congiunti
Trovarse intorno, e sol vorria talora
765L’avviticchianti braccia e l’ampie frondi
Della crescente zucca aver vicine,
Le quali ama cotal, che ’l verno ancora
Contro ai colpi del ciel null’altro manto
Ha più caro che ’l suo; né miglior cibo,
770Che la cenere lor, sotterra agogna.

Io non vorrei però, che i vaghi fiori,
Gli odorati arbuscei, gli aranci e i cedri
Mi traviasser sì, che i frutti e l’erbe
Lasciassi indietro star, ch’ai miglior giorni
775

Splender fanno i giardin, rider le mense,
E dell’alma città la forosetta
Colle compagne sue cantando al vespro
Nell’albergo tornar d’argento carca.

Lo spinoso carciofo è il tempo omai
780Giunto di trapiantar, svegliendo fuore
Dell’antiche lor madri i picciol figli,
E riporgli in terren ben lieto e grasso;
E ’l più duro è il miglior, ove non possa
Le nascose sue insidie ordir la talpa.
785Chi gli vuol tramutar per ciascun mese,
Medicando al calor colle fresche acque,
Al gel col fimo e colle tepide onde,
N’arà il frutto ad ognor, come c’insegna
Oggi il gallo terren che a mezzo il verno
790Tanti ne può mostrar sì belli e verdi,
Che farieno all’april vergogna altrove.

Or dal primo terren chi il seme accolse,
Tempo è già di tradur colonie intorno.
Come sia di sei frondi in giro cinto,
795Al cavol tenerel di fimo e d’alga
S’avvolga il piede; e lo farà men duro
Contro al foco restar; né gli è mestiero,
Per non sì scolorir, del nitro aita:
Poi nel seggio novel si mondi e purghi
800Dall’altre erbe nocenti, acciò che ’n pace
L’ampie foglie e le cime al tempo adduca:
Né il più verde

o ’l più brun si lasce indietro,
Non il chiuso o l’aperto, il crespo o il largo;
Che troppo onor gli diè l’antica etate,
805E ’l severo Caton dei giusti esempio.

Or che in numer medesmo in terra sparte
Le novelle sue frondi ha la lattuga,
Si cange in parte ove non manche umore
Quando sia caldo il ciel; né le sia parco,
810Trapiantando, il cultor di fimo e d’onda.
Varie sono infra lor: l’una è più verde,
L’altra alquanto rosseggia, e ’ncrespa i crini;
Quella pallida appar, biancheggia questa;
Chi più lunga divien, chi più ritonda;
815E chi più cerca il giel, chi più l’estate;
Pur simiglianti assai, tal ch’ogni tempo
E ’n ogni parte fan, purché ’l signore
Le ’ngrassi e bagni, e le trapianti spesso.
Perché venga miglior, che ’n giro stenda
820Le mollicelle frondi, e perché il seme
Non la faccia invecchiar in mezzo il corso
Della sua breve età, d’un picciol sasso
Se le carchi la fronte, e tagli alquanto
Del sormontante tallo: e chi la vuole
825Candidissima aver, la leghi e stringa
D’un leve giunco in mezzo, e sopra sparga
D’alcun fiume vicin l’umida sabbia:
Chi vuol gusto variarle, al suo congiunga

Del nasturzio, del rafan, dell’eruca,
830Del bassilico il seme: e chiuda insieme
Dentro il sterco caprin: vedresse in breve
Prestar radici lor possenti e larghe
I rafan sotto terra, e l’altre uscire
Al ciel di compagnia, per sé ciascuna
835Del suo proprio sapor mischiando in essa.

Già chiaman l’ortolan che più non tarde,
Il soave popon la sua sementa,
Il freddo citriuol, la zucca adunca,
Il cocomer ritondo, immenso e grave,
840Pien di gelato umor, conforto estremo
Dell’interno calor di febbre ardente.
Questi nascendo fuor verso l’aprile,
Potran seggio cangiar per dar poi frutto.
Chi vuol dolci i popon, tre giorni tenga
845In vin mischio di mele o ’n latte puro
Il seme a macerar; poi ’l torni asciutto:
Chi più odorato il vuol, sepulto il lasce
Intra le secche rose; e poi lo sparga
Ove sia largo il fimo e caldo il loco;
850E lo bagni ad ognor: poi quando spande
Larghe le fronde sue, tramuti allora
Le crescenti sue piante in parte aprica,
Ben disgiunte tra sé; né sia cortese
Molto alla sete lor mentre hanno il frutto;
855Ché ’l soverchio inondar scema il sapore.

Gli altri di ch’io parlai, l’istessa cura,
L’istesso trapiantar, nel modo istesso
Ricercan tutti pur; ma d’ogni tempo
Nella matura etade e nell’acerba
860Voglion l’onda maggior, senza la quale
Hanno il parto imperfetto e ’l gusto amaro.
L’acqua con tal desio dietro si tira
Il tener citriuol, che chi gli ponga
D’essa un vaso vicin, fuor di credenza
865La scabbiosa sua scorza in lungo gire
Tanto avanti vedrà, che quella arrive:
Or quanto ama costei, tanto odio porta
Al palladio liquor; ché s’ei lo senta
Troppo appresso restar, ritorce indietro
870La fronte schiva, e si ravvolge in giro.
Vuol la zucca, più d’altra, al seme cura:
Chi l’ama più sottil, di quello elegga
Che gli truovi nel collo; e chi più grosse,
Di quel del ventre; e chi dal basso fondo
875Torrà del seme, e che riverso il pianti,
Avrà frutti di lui spaziosi ed ampi.
Il rosso petroncian, ch’a queste eguali
Cerca terra e lavor, compagno vada;
Ch’ella nol schiferà purch’aggia loco
880Ove stender le frondi, e porre i figli.

Or ch’ha l’opre miglior condotte a fine
L’esperto giardinier, di quelle erbette

Vada intorno ponendo in seme e ’n pianta,
Ch’alle fresche lattughe al tempo estivo
885Compagne sien, per onorar talora
Qualche lieto drappel di vaghe donne
Che visitando van le sue ricchezze,
Poiché il lungo calor già tempra il vespro:
La serbastrella umìl, la borrana aspra,
890La lodata acetosa, il rancio fiore,
La cicerbita vil, la porcellana,
Il soave targon che mai non vide
Il proprio seme suo, ma d’altrui viene:
E mischiando con lor mille altre poi,
895Che p"n molto giovar con poco affanno.
Or dove batta il sol, tra sassi e calce
In arido terren si serri intorno
Il cappero crudel ch’a tutta nuoce
La vicinanza sua, né d’alcuna opra
900Ricerca il suo padron; se non ch’al marzo
Se gli tagli talor quel ch’è soverchio.
Quei lagrimosi agrumi che dal seme
Vengon fuor del terren, tramuti altrove
Chi gli vuol belli aver; ché ’l tempo è giunto.
905Grasso, lieto il terren, vangato e culto,
Ove non sian perentro erbe o radici,
Alle cipolle doni; e ’ntra lor rare
Locar si denno, e risarchiar sovente:
Chi cerca il seme aver, fidi sostegni
910

Alle crescenti foglie intorno appoggi.
Il porro tenerel più spesso assai
Brama appresso il marron, più dolce il nido;
E per farlo maggior, di mese in mese
Sfondar si deve, e sollevargli alquanto
915Colla vanga il terren, che dia più loco:
E chi nel trapiantar, di rapa il seme
Nella canuta fronte addentro caccia,
Pur senza ferro oprar, di sua grandezza
Farà il mondo parlar, vie più che quello
920Che il suo seme addoppiò raggiunto in uno.

Già di vari color, di varie gonne
Or dipinto e vestito è il mondo lieto;
Già d’acceso candor verso il mattino,
Aprendo il sen, la più vezzosa rosa
925Coll’aurora contende, e ’ntorno sparge,
Preda all’aura gentil, soavi odori:
Le violette umìl, tessendo in giro
I topazi, i rubin, zaffiri e perle
Tra i lucenti smeraldi e l’oro fino,
930Al felice giardin ghirlanda fanno:
I bei persi iacinti, i bianchi gigli
Spiegano i crini al ciel: l’aurate lingue
Trae fuor già Croco; la fatal bellezza
Sopra l’onde a mirar Narcisso torna:
935Col velluto suo fior spigoso e molle
Benché senza sentor, giocondo e bello

Il purpureo amaranto in alto saglie:
Ridon vicine a lor, fiorite e verdi,
Le preziose erbette, e fanno insieme
940Dolce composizion di vari odori:
Le dipinte farfalle e l’api avare
Cercan di questo in quel la sua ventura;
Ch’han dal fero soffiar novella pace.

O voi che vi godete e l’ombra e l’onda
945Del Menalo frondoso e di Parnasso,
Del cornuto Acheloo, del sacro fonte
Che ’l volante corsier segnò col piede,
Ninfe cortesi, Oreadi e Napee,
De le dotte Sorelle alme compagne;
950Venite ove noi siem, ch’al giardin nostro
Oggi scende abitar Ciprigna e Flora:
E voi vaghe e gentil, che le chiare acque
Dell’Arno e del Mugnone vi fate albergo;
E voi, più di altre ancor, che i prati e i colli
955Della bella Ceranta or fate allegri,
Della bella Ceranta ove già nacque
Il gran Francesco pio ch’andar la face
Altera oggi di pari a ’l Tebro e ’l Xanto;
Venite a c"r fra noi le rose e i fiori,
960L’amaraco e ’l serpillo, or che più splende
Il bel maggio o l’aprile; e vi sovvegna
Che le stagion miglior veloci ha l’ali;
E chi non l’usa ben, si pente indarno,

Poiché sopra le vien l’agosto e ’l verno.
965Non vi faccian temer le nemiche armi
Del barbato Guardian, ch’aperte mostra:
Ch’ei non fa oltraggio di Diana al coro;
Ma pien di maraviglia e di dolcezza,
La vostra alma beltà riguarda, e tace.
970Poiché, cinti i capelli e colmo il seno
Di rose e gelsomin, vi sete adorne;
Quei che restan dappoi, seccate in parte
All’aure, e fuor del sol; ché ’n tutto l’anno
Il più candido vel che ’l dì vi adombra
975Le delicate membra, e quel che cuopre
Il casto letto, e che la mensa ingombra,
Faccian risovvenir del vecchio aprile:
Gli altri con mille fior di aranci e mirti,
Con mille erbe vezzose, in mille modi
980Si den sotto il valor d’un picciol foco
Stillarse in acque allor che ’l petto e ’l volto
Rinfrescando dappoi v’empion di odore,
Fan più vago il candor, fan più lucente
Della gola, del seno e della fronte
985L’avorio e ’l latte, e p"n tener sovente
Sotto giovin color molti anni ascosi:
Gli altri si mischin poi coll’olio insieme
Di quel frutto gentil sopra i cui rami
Sì veloce al suo mal morì sospesa
990L’impaziente Filli; e non pur d’esso

I vostri biondi crin, le bianche mani
Vi potrete addolcir; ma render molle
Quanto cuoce il calor, o inaspra il gielo,
Con sì grato spirar, che Delia istessa,
995Benché negletta sia, l’avrebbe in pregio.

Poiché già venne il Sol tra i due Germani,
Non può molto innovar nel suo giardino
Il discreto cultor, se ciò non fusse
Trapiantando talor novelle erbette
1000Ch’han sì fugace età, che ’n ciascun mese
Ne convien propagar novella prole.
Or, più che in altro affar, volga il pensiero,
Quando apparisce il dì, quando si asconde,
A condur l’acque intorno, e trar la sete
1005Alla verde famiglia di Priapo;
E dal greve assalir d’erbe moleste
Purgarle spesso, e rimondarle in parte.
Pur si deve il terreno, ove altri pensa
Porre all’autunno poi le piante e i semi
1010Per godersele il verno, or colla vanga
Sottosopra voltare, e col marrone
Romper le zolle, acciocché meglio addentro
Passe il caldo del Sol, che il triti e scioglia:
E ben già si porìa sementa fare
1015Di molte cose ancor; ma tal bisogna
Diligenza e sudor, sì larga l’onda,
Così freddo il terren; poi in somma viene

Tanto fallace altrui, ch’io nol consiglio
Far, se non a color ch’abbian certezza
1020Del pregio raddoppiar con quei che sono,
Assai più che del buon, del raro amanti.

Qui che tutta la terra ha colmo il seno
Di bei frutti maturi e di dolci erbe,
Lasce il saggio ortolan la notte sola
1025Star la consorte sua nel freddo letto,
Né amor né gelosia più forza in lui
Aggian, che quel timor ch’aver si deve,
Ch’ogni fatica sua si fure un giorno.
Ove il dolce popone, ove il ritondo
1030Cocomer giace, ed ove intorto serpe
Colla pregnante zucca il citriuolo
Col suo freddo sapor, di paglia e giunchi
Tessa, ove possa star, breve capanna
All’oscura ombra; e ’l fido cane accanto,
1035Che lo faccia svegliar se viene ad uopo.
Quanti sono i vicin che dell’altrui
Si pascon volentier! quante le maghe
Che van la notte fuor, né curan pure
L’arme incantate del figliuol di Bacco;
1040Ma della pena pur, di ch’altri teme,
Caldo e nuovo desio le mena intorno!
E non pur questi; ma mill’altri vermi,
Mille mostri crudei fan trista preda
Delle piante e dei frutti a chi nol cura:
1045

L’uno ha d’orrido vello il corpo irsuto;
L’altro è squamoso, e di color dipinto
Or verde or giallo, or d’ mill’altri mischio:
Quel con le cento gambe in arco attorce
Il lunghissimo ventre; e quel ritondo,
1050Or bianco, or del color dell’erbe istesse,
Sì fisso è in lor che non si scerne il piede.
Oh che peste crudel! che danno estremo
Del misero cultor ch’al miglior tempo
Vede ogni suo sudor voltarse in polve,
1055Tutto il frutto sparir, le fresche erbette
Null’altro riservar che i nervi nudi!
L’importuna lumaca, ovunque passa,
Biancheggiando il cammin dopo le piogge,
Non men fa danno ch’ove prenda il cibo.
1060Ma chi del suo giardin pria mise i semi
Nell’acqua a macerar, là dove infuse
Del gelato liquor del semprevivo,
O di triste radici il sugo amaro
Del selvaggio cocomero; o sgombrando
1065Dell’ardente cammin l’oscura ed atra
Fuligginosa polve, ivi entro sparse;
Non gli saran noiosi o questi o quelli.
Né tra l’erbe miglior si sdegni dare
Alla cicerchia vil talora il seggio,
1070La cui chiusa virtù da mille offese
Può sicuro tener chi gli è d’intorno.

Chi si trovasse pur dal tempo avverso
O con pioggia soverchia o sete estrema
(Che l’una e l’altra il fa) di tai nemici
1075Ripien l’almo terren, può molti ancora
Scampi trovar che c’insegnò la pruova.
Chi sparge sopra lor fetida amurca,
Chi la cener del fico; e chi vicina
Pianta o sospende almen l’amara squilla;
1080Chi del fiume corrente intorno appende
I tardissimi granchi, e chi gli incende
Perché il noioso odor gli scacce altrove:
E chi, nel modo par, dei vermi istessi
Talvolta ardesse, e gli mettesse intorno,
1085Vedrà gli altri fuggir, né pur di questi,
Ma di ogni altro animal nocente all’erbe,
Nocente al seme uman, l’impia lumaca,
La furace formica, il grillo infesto,
Il frigido scorpion, l’audace serpe:
1090Ch’un natural orror gli cade in cuore
Del funebre sentor dei suoi congiunti.
Altri quelli a bollir fra l’onde caccia,
Poi ne bagna il giardino: altri le fronde
Dell’aglio abbrucia, e d’ogn’intorno spande:
1095Altri fan circondar tre volte in giro
Il predato terren, discinta e scalza
E cogli sparsi crin, donna che senta,
Quando il suo lume in ciel la Luna innuova,

Purgarse il sangue; e ’n un momento tutta
1100Languente e smorta la nemica schiera
Non con altro timor per terra cade,
Che se ’l folgor vicin, se folta pioggia,
Se ’l tempestoso Coro intorno avesse
Scosse e svelte al giardin le piante e l’erbe.
1105Or non vo’ più contar (ché lungo f"ra)
Del ventre del monton, del fele amaro
Del cornuto giovenco; e per le talpe
Arder le noci, e col possente fumo
Scacciarle altrove, o rimaner senz’alma.
1110Contr’alle nebbie ancor s’arme il cultore,
Riempiendo il giardin per ogni parte
E di paglia e di fien; poi come scorga
Avvicinarse a lui, tutta in un tempo
La fiamma innalzi, e più non tema offesa.
1115Molti modi al frenar già mise in uso
La rozza antichità l’aspre procelle,
E le sassose grandini che spesso
Rendon vane in un dì d’un anno l’opre.
Chi leva sovra al ciel di sangue tinte
1120Le minaccianti scuri, e chi sospende
Qualche notturno uccel coll’ali aperte;
Altri cinge il terren colla vite alba;
Chi d’antica giumenta ivi entro appende,
Chi del pigro asinel la testa ignuda;
1125Chi del vecchio marin l’irsuta spoglia,

Chi del fero animal che il Nilo alberga,
Pon sovra il limitar; chi porta intorno
La testuggin palustre al ciel supina.
Or chi sarà fra noi, che in questa etade
1130Ch’è così cara al Ciel, che n’ha dimostro
Così palese il ver, segua quell’orme
Per cui famosi andaro i primi Etruschi,
E Tagete e Tarcon; quei di Tessaglia,
Melampode e Chiron ch’avean credenza
1135Di fermar le saette in mano a Giove,
E le piogge a Giunon, fermar l’orgoglio
E dei venti e del mar in mezzo il verno?
Volga divoto a Dio gli occhi e la mente
Il pietoso cultor, sian l’opre acconce
1140Al suo santo voler, poi notte e giorno
Segua franco il lavor, con ferma speme
Che chi più s’affatica ha il Ciel più amico.

Già trapassa il calor, già viene il tempo
Ch’alla stagion miglior più s’assimiglia
1145Nel pareggiar il dì, nel tornar fuore
A vestir il terren l’erbe novelle.
Già il saggio giardinier riprenda l’arme,
E già rompa e rivolga ove poi deve
La sementa versar passato il verno.
1150Poi quel ch’apparecchiò nel maggio addietro,
Che fusse albergo di radici e d’erbe
Che soglion contro al giel restare in piede;

Or di piante e di semi adempia intorno.
Perch’è tepida l’aria, e perché guarda
1155Dal medesmo balcon, che nell’aprile,
Il discendente Sol; perché sì spesse
Tornan le piogge in noi; potremmo ancora
Quel medesmo adoprar: ma ne conviene
Pensar ch’al picciol dì s’arrendan l’ore,
1160Ch’arde e stringe il terren; né schermo avemo,
Come contro al calor fu l’ombra e l’onda.
Pianti adunque il cultor quelle erbe sole,
Ch’han sì caldo il valor, che per sé ponno
Al freddo contrastar, o quelle in cui
1165La crescente virtù nelle radici
Si sfoghi addentro ove non passa il gielo.

Or quel che nelle barbe e nelle frondi
Mille ascose virtù porta e nel seme
Contro a’ chiusi dolor, contro al veleno,
1170Contro al duro tumor che in bella donna
Sopra i pomi d’amor soverchio latte
Dopo il parto talor conduce; io dico
L’appio salubre, che piantar si deve,
O seminar chi vuol (quantunque innanzi
1175Per altri tempi ancor), ma in questo è il meglio.
Nullo schiva terren, purch’aggia intorno
Fresche acque e vive: e chi maggior desia
Le sue foglie veder, prenda il suo seme
Quanto in tre dita puote, e ’nsieme aggiunto
1180

In picciol drappicel sotterra il cacci:
Chi lo vuol crespo aver; poich’egli ha tratta
La fronte dal terren, sopr’esso avvolga
Un greve incarco che lo rompa e prema.
Molti ha parenti; ma sotto altro nome
1185Gli chiama or questa età: quello è palustre;
Quel, pietroso o montan: quell’altro è tale,
Che dall’esser maggior gli diede il nome
La dotta Atene, dal colore oscuro,
Lo chiama atro il Latin; il sermon tosco
1190L’appella il maceron, la cui radice
Vive al verno maggior felice e dolce.

Or la candida indivia, or la sorella
Di sì amaro sapor cicorea, insieme
Tempo è di seminar dove sia trito
1195E sia molle il terren: poi quando fuore
La quarta foglia avran, le cange il loco,
Pur grasso e pian, sicché la terra nude
Non le possa lassar fuggendo; e quivi
Ben ricoperte sien, ch’al freddo poscia
1200Bianche si rivedran, tenere e dolci.
Del venereo cardon le nuove piante
Or si den rimutar, le somme barbe
Segando loro in basso: il forte seme
Della piangente senapa or si asconda
1205(E ’l più vecchio è il miglior) sotto ben culto
E ben mosso terren ove non grave

Lo spesso risarchiar; ché d’esso gode.
Il ventoso navon, la rozza rapa,
Sì congiunti tra lor, ch’assai sovente
1210L’un si cangia nell’altro; ma si gode
Questa dentro all’umor, quel vuole il secco;
E lo spesso sfrondar, di pari entrambe
Fa il ventre raddoppiar: né reste indietro
Il simigliante a lor rafano ardente,
1215Il selvaggio armoraccio, e la radice
Ch’ama nebbioso il ciel, che nell’arena
Ha più forte il sapor, che vien maggiore
A chi le sveglie il crin, e ch’odio porta,
Come il cavolo ancor, all’alma vite.
1220La purpurea carota, la vulgare
Pastinaca servil, l’enula sacra;
Mille altre poi, che sì cognate sono,
Che scerner non saprei; già il fragil porro
Tempo è di seppellir, che lieto e fresco,
1225L’infinite sue scorze al gielo affini.
Or nel bianco terren (che gli è più caro),
Senza letame aver, si pianti l’aglio;
E rinnuove il lavor, poich’egli è nato,
Ben sovente il cultor, calcando spesso
1230Le sormontanti fronde, acciò ch’al capo
Si stenda ogni virtude: e chi lo pone,
E chi lo colie ancor, mentre la Luna
Sotto l’altro emisfero il mondo alluma;

Poic’alla parca mensa in mezzo ai suoi
1235N’arà gustato, allor senza altra offesa
Del suo molesto odor, potrà narrare,
Quanto vorrà vicino, i suoi tormenti
Alla donna gentil che gli arde il core.




Fine del Libro quinto.

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