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Traduzione dal latino di Benedetto Varchi (1551)
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LIBRO SECONDO
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PROSA PRIMA.
Tacquesi alquanto, detto che ebbe queste cose; e, quando le parve d'avermi fatto attento col suo moderato tacere, cominciò a favellare in cotal maniera: Se io ho bene le cagioni e la disposizione della tua infermità conosciuto, tu, per la voglia e desiderio che hai grandissimo di ritornare nella fortuna di prima, ti vai consumando e struggendo; nè altro ha lo stato rivolto della tua mente, se non ella, la quale ti si è, secondo che avvisi tu, mutata. Io conosco benissimo i varii abbellimenti e diversi inganni di quel mostro, e quanto soglia conversare piacevolmente con coloro i quali ella cerca d'ingannare, infine a tanto che ella abbandonatigli, quando se'l pensavano meno, con non comportevole dolore gli perturbi tutti e confonda. Ma, se tu vorrai ricordarti quali siano la natura sua, i costumi e li benefizii, conoscerai manifestamente te mai non avere nè posseduto in lei nè perduto cosa alcuna di momento nessuno; nè bisognerà, per quanto io stimo, che io m'affatichi per ritornarti nella memoria queste cose, conciosiachè tu medesimo solevi già, mentre l'avevi prospera e favorevole, morderla con generose parole valentemente, e l'andavi con quelle sentenze perseguitando, le quali dei nostri più riposti luoghi e più segreti cavate avevi; ma, perciocchè nessuno mutamento di cose subito non avviene senza una qualche, come noi diremmo, tempesta d'animo, quinci è nato che tu alquanto ti sei dalla tua consueta tranquillità allontanato. Ma egli è tempo che tu pigli per bocca e assaggi alcuna cosa tenera e dilettevole, la quale, penetratati all'interiora, ti faccia la via a beveraggi più gagliardi. Venga dunque la dolce persuasione della rettorica, la quale allora solamente per via diritta cammina, quando i nostri ammaestramenti non abbandona; e insieme con esso lei canti la musica, nata e allevata nella nostra magione, ora più leggieri modi, e quando più gravi. Che cosa è dunque quella, o Boezio, la quale t'ha in tristezza sbattuto, e a sì gran pianto? Io per me penso che tu abbi alcuna cosa veduto nuova e indisusata. Se tu stimi che la fortuna si sia verso te mutata, tu l'erri. Questi son sempre stati i costumi suoi, così è fatta la natura di lei; anzi ha ella, rivolgendotisi, mantenuto più tosto la sua costanza, che è proprio di mutarsi: cotale era ella quando t'accarezzava; cotale quando con zimbelli e allettamenti di non vera felicità ti si girava d'intorno, sollazzandoti. Tu hai ora molto ben compreso quai siano e come fatti i visi di questa Dea cieca, i quali sono tanto dubbiosi a potersi conoscere. Ella, che ancora agli altri si cuopre, a te s'è svelata tutta. Se ella ti piace tale, chente tu la vedi, serviti de' suoi costumi, ma non dolertene: se temi di sua tradigione, lasciala ire, e non ti impacciar con lei, la quale sempre scherza, che cuoce; e sappi che la cagione, che ora ti arreca tanta malinconia, dovrebbe esser quella che t'apportasse tranquillità. Tu sei stato abbandonato da colei, della quale niuno può star sicuro che ella non debba abbandonarla. Dimmi: tieni tu per cosa di pregio quella felicità, la quale sta per fuggirsene tuttavia? Ètti cara quella fortuna, della quale non ti puoi assicurare che sia per rimanere, e, partendosi, ti debbe affliggere? Ora, se ella non può ritenersi quando altri vuole, e, fuggendosi, ne fa disgraziati e dolenti, che vuole dimostrare altro l'essere ella fugace, se non che tosto dobbiamo essere infelici e calamitosi? perciocchè egli non basta vedere quelle cose solamente, le quali ci sono dinanzi agli occhi. Gli uomini prudenti misurano i fini delle cose: il conoscere la fortuna essere mutabile così nell'una parte come nell'altra, fa che noi non dobbiamo nè temere le sue minacce, nè disiderare le sue lusinghe. In ultimo egli è viva forza che, avendo tu sottoposto una volta il collo al giogo della fortuna, sopporti pazientemente tutto quello che si fa dentro l'aja e nella piazza di lei. Ora, se tu volessi dar legge quando debba o stare o partire colei, la quale tu stesso t'hai spontaneamente eletto a padrona, non ti parrebbe far villanía? E, non volendo tu sofferire con pazienza quella sorte che non puoi mutare, che faresti altro che inacerbarla e farla più grave? Se tu dèssi le vele a' venti, non dove chiedesse la tua volontà saresti portato, ma dove il vento ti spignesse egli. Se tu seminassi campi, tu andresti compensando gli anni sterili con gli abbondanti. Tu ti sei dato alla fortuna, che ti regga; egli è necessario che tu ubbidisca ai costumi della tua donna: e tu ti dái a credere di poter ritenere l'empito della ruota che gira sempre? O stoltissimo e più folle di ciascuno altro, se ella cominciasse a star ferma, ella fornirebbe d'essere fortuna.
LE PRIME RIME.
Costei quando, quasi onda
Del gran padre Oceáno,
Ch'or bassa scuopre or alta i liti innonda,
Ha con superba mano
5Vôlto sua ruota, in un momento affonda
Crudel chi dianzi si sedeva in cima;
E quei, ch'al fondo prima
Giaceano oppressi e di speranza fuori,
Fallace innalza a' più sublimi onori.
10Non ode ella i lamenti,
Nè gli altrui pianti cura;
Anzi, quanti ne fa tristi e dolenti,
Tanti ne scherne dura.
Così scherza costei; tale alle genti
15Sentirsi face; e per ultima pruova
A' suoi mostrar le giova
Ch'un uomo stesso, una medesima ora
Batte sotterra ed erge al cielo ancora.
PROSA SECONDA.
Ora vorrei io teco in persona d'essa fortuna alcune cose brevemente ragionare. Pon' mente dunque se ella chiede cose ragionevoli o no. Perchè m'accusi tu, o Boezio, e ti duoli di me ciascun giorno? che ingiuria t'abbiamo noi fatta? quali beni t'abbiamo noi tolti, che fossero i tuoi? Piglia che giudice ti piace, e contendiamo a chi s'aspetti la possessione delle ricchezze e delle dignità; e, se tu mostrerai che alcuna di queste cose sia propria d'alcuno mortale, da ora innanzi io son contenta concederti di mia spontanea volontà che le cose, le quali tu ora richiedi, fossero già tue. Quando tu uscisti del ventre di tua madre, io ti ricevei ignudo e mendico di tutte cose; t'ajutai colle mie facoltà, e, quello che ora è cagione che tu non possa tollerarmi, inchinevole a favorirti t'allevai troppo vezzosamente, e di tutte quelle cose, le quali sono in podestà mia, larga e orrevole parte ti concedei: ora mi vien bene di ritirare a me la mano, perchè tu debba bene ringraziarmi, come colui che ti sei delle mie cose servito; ma non puoi già dolerti come se avessi le tue perduto. Di che piangi dunque? niuna violenza t'è stata fatta da noi. Le ricchezze, gli onori, e l'altre cose somiglianti, sono nel poter mio: elleno, essendo mie fanti, riconoscono me per lor donna; perciò vengono con esso meco, e con esso meco si partono. Io oserei d'affermarti sicuramente, che se quelle cose, le quali tu ti rammarichi d'aver perduto, fossero state tue, tu non avresti in alcun modo potuto perderle. Párti egli giusto che io sola debba essere vietata di potere usare la mia ragione? Al cielo è lecito di cavar fuori bellissimi giorni, e questi stessi nascondere con notti tenebrosissime. È lecito all'anno ora con fiori e con frutti la superficie e faccia della terra coronare, e ora con piogge e con freddi turbarla e confonderla. Può il mare ora con bonaccia lusingare altrui, e talvolta con tempestosi nembi e altissimi cavalloni orrido molto e spaventoso divenire; e me vorrà la cupidigia degli uomini, la quale mai non s'empie, tener legata alla costanza, e farmi essere stabile e ferma? cosa tutta lontana da' miei costumi. Questa è la forza e potenza nostra. Questo è il giuoco che sempre giochiamo: io giro una ruota, che si volge quasi da sè a sè: il piacere nostro è inchinare l'altezze, e le cose basse innalzare: se questa festa ti piace, monta su, ma con tal convenente, che, quando l'ordine di questo mio giuoco lo richiederà, non ti paja lo scenderne villanía. Eri tu solo a non conoscere i costumi miei? Non sapevi tu che Creso re de' Lidii, il quale poco innanzi arrecava spavento a Ciro, preso da lui non dopo molto, posto miserabilmente sopra le fiamme del capannuccio, fu solo dalla pioggia, che da cielo venne, scampato? Non ti ricordi tu che Paolo consolo versò pietose lagrime sopra le disgrazie e miserie del re Perseo, vinto da lui e fatto prigione? Che piangono altro le grida delle tragedie, se non che la fortuna indiscretamente e con colpi non misurati travolta li regni più felici? Non apparasti tu, quando eri garzone, che sopra il limitare di Giove stanno due gran vasi, l'uno di tutti i beni ripieno, e l'altro di tutti i mali? e che egli mai non manda in terra e sparge dell'uno, che non mescoli ancora e versi dell'altro? Or che dirai, se tu hai maggior parte avuta di quello dei beni? che, se io non mi sono ancora da te partita tutta? che, se questa stessa mutabilità mia, e il non istare io ferma mai, t'arreca giusta cagione di dover meglio sperare? Tuttavía, a fine che tu non t'affligga e consumi affatto, e, trovandoti in un regno che è comune a tutti gli uomini, voglia vivere con una ragione tua propria, e particolare a te solo, sappi che,
LE SECONDE RIME.
Se, quante arene il mare
Volge qualor commosso
È da più spesse e via maggior procelle;
Se, quante nelle più tranquille e chiare
5Notti splendono in ciel lucenti stelle;
Tante ricchezze ognora
Sparga Dovizia, e versi
Il corno, aperta il grembo e scinta il seno;
Non perciò stanco mai nè sazio fôra
10L'uman lignaggio, e si dorría non meno.
Se bene i prieghi vostri
Non solo oda benigno,
Ma tutti adempia largamente Iddío,
Dando a questi oro, a quei porpore ed ostri,
15Nulla non scema, anzi cresce 'l disío;
Perchè l'ingorda voglia,
Divorando l'avuto,
Apre più bocche, e maggior canne mostra.
Or chi fia mai che freni, non che toglia,
20La sacra fame, anzi la rabbia vostra?
Quanto è più alta l'onda,
Tanto la sete fassi
Ardente più d'aver tesori o stato.
Non è ricco, cui sol la roba abbonda;
25Nè può chi spera o teme esser beato.
PROSA TERZA.
Se la fortuna dunque favellasse teco in suo pro di questa maniera, tu per certo aprir la bocca contra lei non potresti; o, se pure hai cosa alcuna, onde possa giuridicamente difendere la tua querela, egli fa di mestiero che tu la dica, e noi ti concederemo spazio di poter ciò fare. Allora io: Belle veramente sono, risposi, coteste cose; e, perchè sono tinte tutte e coperte della soavissima dolcezza dell'arte rettorica e della musica, perciò tanto solamente dilettano, quando s'odono. Ma gli afflitti sentono il loro male più addentro; onde, tosto che queste cose non suonano più loro nell'orecchie, la mestizia, che hanno fissa nel cuore, aggrava loro l'animo. Ed ella: Così è, rispose; perciocchè questi non sono ancora i rimedii della tua infermità, ma alcuni come pittime o pannicelli caldi per alquanto mitigare il dolore, che non può ancora sofferire d'esser tocco e medicato; conciosiachè io, quando il tempo sarà, quelle medicine ti porgerò, che infino al cuore penetrare ti possano. Nondimeno, a fine che tu non voglia nè a te stesso dare a credere nè ad altrui d'essere infelice, dimmi, hai tu sdimenticato quante siano le tue felicità, e il modo come le avesti? Taccio che tu, essendo morto tuo padre, rimaso pupillo, fosti prima da uomini grandi nutrito e governato, poi da' primi capi della città scelto per genero, e, quello che più che altro ne' parentadi si debbe stimare, cominciasti ad essere loro prima caro, che parente. Chi non ti predicò felicissimo, avendo tu sì chiari suoceri, moglie tanto pudíca, figliuoli maschi così a tempo? Lascio andare, perchè non mi piace di raccontare cose comuni, e che ancora degli altri abbiano conseguite, quelle dignità, le quali, essendo a' più vecchi state negate, furono a te nella tua giovanezza concedute. Egli mi giova di venire a quel colmo della tua felicità, dove mai non giunse nessuno. Se frutto alcuno di cose mortali può per parte alcuna annoverarsi di felicità, qual numero o grandezza di mali potrà mai sopravvenire così grande, che la memoria scancelli di quel giorno fortunatissimo, nel quale due tuoi figliuoli amendue Consoli fur da te veduti esser cavati di casa da tanta moltitudine di senatori e con sì grande allegrezza di tutta la plebe? e quando, seggendo i medesimi sopra le lor seggiole nel senato, tu, dovendo ringraziare il re e lodarlo, arringasti in guisa, che meritasti che da ciascuno ti fosse così di sommo ingegno, come di perfetta eloquenza, la gloria dato? e quando nel teatro, stando tu in mezzo delli due Consoli, saziasti con dono trionfale la brama della moltitudine d'intorno sparta? Tu, penso io, ingannasti la fortuna colle parole: mentre che ella ti piaggia, mentre che ella, come suo cucco e favorito, ti vezzeggia e favorisce, le cavasti di mano un presente, che mai non aveva più conceduto a nessuno uomo privato. Vuoi tu dunque venire a' conti colla fortuna, e saldar seco la tua ragione? Questa volta è la prima, che ella t'ha con invidioso occhio risguardato. Se tu vorrai considerare quante cose tu hai liete avuto e quante triste, e la guisa in che l'hai avute, non potrai negare di non essere felice ancora; e, se tu pensi di non essere felice, perciocchè quelle cose, che tu allora riputavi felici, si sono da te partite, tu non debbi per la medesima ragione riputarti ora misero, conciosiachè quelle cose, che tu reputi ora infelici, trapassano anch'elleno via. Dimmi, ti prego, sei tu pur ora subitamente e come forestiero venuto in questa quasi scena di vita? ti dái tu a credere che nelle cose umane sia costanza o fermezza alcuna, veggendo che molte volte picciola ora risolve e disfà, non che altro, gli uomini medesimi? E, comechè le cose della fortuna rade volte mantengano fede, nientedimeno, quando fosse il contrario, l'ultimo dì della vita, il quale è come una morte della fortuna, fornisce tutte le tue felicità, quando non si fossero partite da loro. Qual differenza pensi tu dunque che sia tra che o tu, morendo, abbandoni lei, od ella, fuggendo, lasci te?
LE TERZE RIME.
Quando Febo dal ciel col carro d'oro
Muove a sparger la luce
Dolce, ch'al mondo l'opre e 'l color rende,
Tutto l'ardente coro
5Delle stelle sbiancato a pena luce;
Tanto il maggiore i minor lumi offende.
Quando la terra di purpurei fiori
Copre Favonio, ond'ella
Fatta vermiglia in ciascun loco ride,
10Tornano i primi orrori
Tosto che con terribile procella
Esce Austro fuori, e nubiloso stride.
Spesso al più chiaro cielo e più sereno
Tranquillissimo e cheto
15Entro 'l suo letto il mar senza onda giace;
Spesso di rabbia pieno
Al soffiar d'Aquilon suo stato lieto
Turba, e rivolge in guerra ogni sua pace.
Se così rado una sol legge tiene,
20E muta il mondo forma,
Cangiando tante volte ordine e stato,
Qual fede avrai? qual spene
Porrai nei ben caduchi? Eterna norma,
Che qui nulla mai posi, il ciel n'ha dato.
PROSA QUARTA.
Allora io: Vere sono le cose che tu racconti, le risposi, o nutrice di tutte quante le virtù; nè posso negare che il corso della mia prosperità non sia stato velocissimo. Ma questo è quello che, rammentandomene io, più forte mi cuoce: perciocchè fra tutte l'avversità della fortuna la più infelice maniera di mala ventura è l'essere stato avventuroso. Or se tu, rispose ella, pensi quello che è falso, e ne paghi le pene come se fosse vero, non puoi ragionevolmente dar di ciò colpa alle cose; e, se pure questo nome vano della felicità della fortuna ti muove, comincia un poco a riandare con esso meco di quanti beni tu abbondi e di quanto grandi. Se quello dunque, che tu in tutto l'avere della fortuna possedevi di maggior pregio, ti si guarda ancora intero (la buona mercè di Dio) e senza offesa nessuna, potrai tu, ritenendo tutte le cose migliori, lamentarti con ragione della tua sciagura? Certa cosa è che Simmaco tuo suocero, preziosissimo ornamento di tutta l'umana generazione, vive sano e salvo; e questi fatto tutto e composto di sapienza e di virtù, non si curando delle sue ingiurie proprie, (la qual cosa tu, senza punto pensarvi sopra, compreresti colla vita propria) piange e s'attrista delle tue. Vive la tua moglie, modesta di natura e d'onestà pudicissima, e, per racchiudere tutte le doti sue in brevi parole, somigliantissima al padre, vive, dico, e a te solo, odiando per altro la vita, serba lo spirito; e continovamente per cagione di te, nella qual cosa sola concederò ancora io che la tua felicità divenga minore, vien mancando per le lagrime e per lo dolore. Che starò io a raccontarti i tuoi figliuoli stati Consoli, ne' quali, quanto può in quella età, riluce la sembianza così del padre, come dell'avolo? Essendo dunque il maggior pensiero, che abbiano gli uomini, il conservarsi la vita, oh te felice, se li tuoi beni conoscerai, a cui restano ancora e avanzano quelle cose, le quali niuno dubita che più care sono, che la vita non è! Per lo che rasciuga oggimai le lagrime. La fortuna non s'è ancora cacciati innanzi i tuoi tutti quanti, nè a te stesso s'è posata addosso tempesta troppo gagliarda, posciachè le tenaci áncore stanno ancora appiccate e salde, le quali non ti lascieranno mancare nè conforto nel tempo presente, nè speranza nell'avvenire. E stiano, prego, risposi io, appiccate e salde; perciocchè, stando elleno ferme, comunque vadano l'altre cose, usciremo, notando, a riva; ma tu vedi quanto bel fregio s'è dagli ornamenti nostri partito. Ed ella: Noi abbiamo, disse, fatto alquanto di processo, poichè l'esser tuo non ti rincresce del tutto; ma io non posso già comportare gli atti e fastidii tuoi, posciachè con tanto pianto ti lamenti, e con tanta angoscia, che alcuna cosa manchi alla tua felicità; perciocchè chi è colui, il quale sia tanto compiutamente beato, che egli colla qualità del suo stato in alcuna parte non contenda? Sappi che la condizione de' beni umani è cosa angosciosa e di tal maniera, che ella o non vien mai tutta, o non dura mai perpetua. Questi ha grandi entrate; ma si vergogna d'essere ignobile. Quegli è chiaro mediante la sua nobiltà; ma tanto povero, che più tosto vorrebbe vivere sconosciuto. Alcuno abbonda e di nobiltà e di ricchezze; ma piagne per lo essere privato di moglie. Un altro, contentandosi della sua donna, s'attrista, non avendo figliuoli, di nutrire e accrescere le sue facoltà ad eredi strani. Trovasi ancora chi, avendo con allegrezza avuto o figliuoli o figliuole, lagrima poi per alcuno loro misfatto dolorosamente. Laonde niuno si ritrova, il quale colla condizione della sua fortuna agevolmente si concordi; conciosiachè ciascheduno ha in sè alcuna cosa, la quale non sa d'avere infino che egli non la pruova; e, quando l'ha provata, ne teme. Aggiugni a queste cose, che tutti coloro che sono felici, sono ancora sensitivi; e, se tutte le cose non riescono loro come desiderano a punto, non essendo essi usati d'avere alcuna avversità, per qualunque menomissimo caso s'atterrano; tanto sono picciole quelle cose, le quali fanno che ancora coloro, i quali sono avventurosissimi, non siano beati del tutto. Quanti pensi tu che siano quegli, ai quali parrebbe di toccare il cielo col dito, se una minima parte dei rimasugli e avanzaticci della tua fortuna toccasse loro? Questo stesso luogo, che tu chiami esiglio, è a coloro, che l'abitano, patria; tanto è vero che niuna cosa sia misera, se non quando la reputi tale; e per lo contrario ogni fortuna è beata, quando così la reputi chi la tollera. Chi è sì felice, che, quando si sarà alla impazienza arrenduto, non desideri di mutare il suo stato? Oh di quante amarezze è spruzzata la dolcezza dell'umana felicità, la quale se ancora a chi la gode paresse gioconda, non si può perciò ritenere che ella, quando vuole, non si parta! Manifesto è dunque quanto sia misera la beatitudine delle cose mortali, la quale nè appo quegli, che ripigliano ogni cosa per bene, dura perpetua, nè gli angosciosi diletta tutta. Perchè dunque, o mortali, cercate di fuori la felicità, che è dentro voi posta? l'errore e l'ignoranza vi rimescola e perturba. Io voglio mostrarti brevemente la maggiore altezza della felicità. Dimmi: hai tu cosa alcuna, che ti sia più cara di te stesso? Niuna, dirai. Dunque, se tu avrai te medesimo, tu possederai quella cosa, la quale nè tu vorrai perder mai, nè la fortuna ti potrà tôrre. E, a fine che tu conosca che in queste cose della fortuna non può la beatitudine nostra consistere, raccogli così: se la beatitudine è il sommo bene di quella natura che vive con ragione, cioè degli uomini, e quello che in alcun modo ne può essere tolto non è il sommo bene, perciocchè quello che non puote esserne tolto è più degno di lui; manifesta cosa è, che a comprendere e ricevere in sè la beatitudine non può l'instabilità della fortuna aspirare. Oltra ciò colui, il quale è portato da questa felicità cadevole, o egli sa lei essere mutabile, o egli non lo sa. Se nol sa, qual domin di fortuna può esser beata nella cecità dell'ignoranza? Se il sa, forza è che egli tema di perder quello, il quale non dubita che perdere si possa. Onde la continova paura non lascia che egli sia felice; e se tu dicessi: se lo perderà, egli non si curerà d'averlo perduto; ti rispondo, che a questo modo la beatitudine sarebbe un bene molto picciolo, poichè coloro i quali la perdono, non curano d'averla perduta. E perchè io so che tu da te medesimo credi per moltissime dimostrazioni e porti fermo nel cuore che le menti degli uomini non sono in verun modo mortali, ed essendo chiaro che la felicità della fortuna fornisce colla morte del corpo, egli non si può dubitare, se costei arrecare beatitudine puote, che tutta la generazione umana al fine della morte in miseria non caggia. Or, se noi sappiamo che molti hanno il frutto della beatitudine non solamente colla morte, ma eziandío mediante i dolori e li tormenti cercato, come può questa presente vita farne beati, se fornita non ne fa miseri?
LE QUARTE RIME.
Chïunque eterna sede
Aver saggio disía,
Nè d'Euro, allor che più sonoro fiede,
Temer la forza ria;
5Chi vuol che lunge stia,
Perchè mai no l'innonde,
Nettuno irato con sue crucciose onde;
Non d'alto monte in cima,
Nè sopra molli arene
10Sua magion ponga: chè, chi dritto stima,
Quella a pena sostiene
I venti; e questa viene,
Mancandole il terreno,
A piegar tutta, e venir tosto meno.
15Se vuoi lieto e sicuro
Viver senza periglio,
Fondar tua casa sopra umil ma duro
Sasso prendi consiglio.
Chi ciò fa, quando il figlio
20Del buon Saturno tuona,
Non scolora la fronte e non corona;
Ma dentro allegro e fuori
Colle sue scorte fide
L'ira del cielo e le minaccie ride.
PROSA QUINTA.
Ma, posciachè i rimedii delle mie ragioni già cominciano a scendere in te e penetrarti, penso che sia bene che io usi di quegli i quali alquanto siano più gagliardi. Or su dunque, presupponghiamo che i doni della fortuna non fossero nè cadevoli, nè transitorii: che cosa però si ritrova in loro, la quale o possa mai divenire vostra, o, ragguardata molto bene e considerata, non invilisca? Dimmi: le ricchezze sono elleno da essere tenute in pregio per ragion di voi, o per loro propria natura? E qual di loro è meglio: l'oro massiccio, o buona quantità di danari contanti? Certa cosa è, che più risplendono spendendole, che serbandole; conciosiacosachè l'avarizia fa sempre gli uomini odiosi, e la larghezza chiari. Ora, se restare appo alcuno non può quello che egli in altrui trasferisce, allora sono da stimare i danari, quando, traslati in altri mediante la liberalità, non si posseggono più; oltra ciò i danari, se quanti ne sono in tutto il mondo si ragunassero appresso un solo, farebbero poveri tutti gli altri; e pur si vede che una voce è udita da molti tutta parimente: ma le vostre ricchezze non possono, se non minuzzate e divise, trapassare a' più; il che se avviene, bisogna di necessità che tutti coloro facciano poveri, da cui partite si sono. Oh strette dunque e povere ricchezze vostre, le quali nè si possono possedere tutte a un tratto da più persone, e a un solo senza far poveri gli altri non vanno! Forse lo splendore delle pietre preziose tira a sè gli occhi e gli diletta: ma se in questo splendore è cosa alcuna di singolare, ella è la luce; e la luce non è il bene degli uomini, ma delle gemme, le quali molto mi maraviglio che dagli uomini siano ammirate; perchè qual cosa, che manchi del movimento dell'anima e della commessura delle membra, può ragionevolmente bella a coloro parere, i quali hanno l'anima e la ragione? E, avvengadiochè le gemme, mediante l'opera del facitore e per la varietà propria e distinzione loro, abbiano in sè nell'ultimo grado alcuna bellezza; essendo nondimeno assai più basse, che l'eccellenza vostra non è, non meritano che voi con meraviglia le riguardiate. Or vi diletta la bellezza de' campi? Perchè no? risposi, essendo ella d'una bellissima opera non brutta parte, in quel modo che ci allegriamo alcuna volta di vedere il mare tranquillo, e che il cielo, le stelle, il sole e la luna con meraviglia ragguardiamo. Che ha, disse ella, da far teco alcuna di queste cose? così tu di gloriarti della bellezza d'alcuna di loro? Dimmi: la primavera sei tu ornato di varii fiori tu? la state produci tu tu sì ricchi frutti? perchè ti lasci tu rapire da letizie vane? perchè abbracci tu i beni d'altri, come se fossero i tuoi? Ma non farà la fortuna che quelle cose siano tue, che la natura ti fece strane. Egli è ben vero che i frutti della terra sono fatti per nutrire le cose animate; ma se tu non vuoi altro che quello che ti fa di bisogno, il che alla natura basta, non occorre che tu cerchi d'essere abbondevole delle cose della fortuna, perchè la natura di poche cose e menomissime si contenta. E se tu, quando ella è piena, volessi con soverchie cose aggravarla, tutto quello che di sopra vi metterai, sarà o ingiocondo o nocevole. Forse vorrai dire che l'andare ornato splendidamente di varie veste sia cosa bella? Io per me, se la bellezza delle veste piace all'occhio, o lo diletta, non ammirerò mai chi le porta; ma sempre o la materia di che sono fatte, o la maestria di colui che l'ha fatte. E se tu per ventura stimi che l'aver dietro gran codazzo di famigliari ti faccia felice, i servidori, se eglino sono viziosi e di cattivi costumi, sono una dannosa soma della casa, e nemicissima del padrone; ma se sono buoni, in che modo vuoi tu che l'altrui bontà s'annoveri fra li beni tuoi? Per le quali tutte cose chiaramente si mostra, nullo di quegli essere tuo bene, che tu fra i tuoi beni conti. Ora, se in loro non è bellezza nessuna che debba desiderarsi, a che dolersi di perderli, o rallegrarsi d'averli? E se dicessi che essi sono belli di lor natura, questo che a te? conciosiacosachè questi per sè medesimi, ancora che non fossero tuoi, ti sarebbono piaciuti; perchè eglino non perciò sono pregiati, perchè sono di tua ricchezza, ma perchè ti parevano pregiati, perciò che fra tue ricchezze s'annoverassero volesti. Or che è quello che voi desiderate dalla fortuna, facendone tanto romore? Io per me penso che altro non vogliate, se non cacciare il bisogno coll'abbondanza; ma per certo egli vi avviene il contrario: conciosiachè a guardare molte e varie masserizie d'una ricchissima guardaroba fanno di molti ajuti mestiere; ed è vero quel detto, che coloro che posseggono molte cose, hanno di molte cose bisogno; e per contrario di pochissime quegli i quali misurano l'abbondanza loro non con quello che desidera di soperchio l'ambizione, ma con quello che la natura necessariamente richiede. È possibile che non abbiate alcun bene, il quale sia tanto proprio vostro e dentro di voi, che vi bisogni andar caendo de' vostri beni in cose non solo fuori di voi, ma da voi lontane? È però così travolta la condizione delle cose, che quello animale, lo quale per benifizio e mercè della ragione è divino, non altramente gli paja esser chiaro e adorno, che nel possedere masserizie mancanti d'anima? Gli altri animali stanno contenti alle cose loro; e voi, i quali colla mente siete a Dio somiglianti, volete adornare così eccellente natura con cose basse e abbiette, nè v'accorgete quanto al Creator vostro facciate ingiuria. Egli volle che la generazione umana tutte le cose terrene vantaggiasse; e voi la vostra dignità sotto le più infime cose e più vili abbassate, perchè, se ciascuno bene è più degno di colui, di chi egli è bene; quando voi giudicate che le più vili cose del mondo siano i vostri beni, voi a vostro giudizio medesimo vi sottomettete loro: il che non avviene fuori di ragione, perciocchè la condizione della natura umana è questa, che allora solamente, quando si conosce, all'altre cose soprastía; e la medesima, come non si conosce più, eziandío alle bestie divenga inferiore, perchè agli altri animali è il non conoscersi naturale, ma negli uomini viene da vizio. Oh come si distende e quanto abbraccia di spazio questo vostro errore di farvi a credere che alcuna cosa possa mediante gli ornamenti non suoi, ma d'altrui, divenir bella e adorna! Il che è del tutto impossibile; perchè se una qualche cosa riluce non per sè stessa, ma per alcune cose che le siano state poste di sopra, si commendano bene queste cotali cose che sopra le stanno; ma quella che è coperta e velata sotto loro, si rimane nella laidezza e sozzura sua. E io dico che nessuna cosa, la quale noccia a chi l'ha, può chiamarsi bene; e pure è vero che le ricchezze hanno più volte a chi l'aveva nociuto; conciosiachè ciascuno reo e scelerato uomo, e perciò tanto più ingordo dell'altrui, pensa sè essere più degno di tutti gli altri d'avere tutto l'oro e tutte le gemme che in tutto il mondo si ritrovano. Tu dunque, il quale pieno d'angoscia e di pensieri temi ora le lance e le spade, se fossi nel cammino entrato di questa vita povero viandante, potresti ancora dinanzi degli assassini e rubatori di strada cantare sicuramente: oh bella beatitudine che è quella delle ricchezze di questo mondo, posciachè non prima si comincia ad esser ricco, che si fornisce d'esser sicuro!
LE QUINTE RIME.
Oh bene avventurosa
Età prisca, ch'a quello
Vivea contenta che la terra dava!
Ella non piuma oziosa,
5Non gola, non rubello
Ozio lascivo di virtù curava;
Ma la fame domava
Dopo un lungo digiuno
Col grande arbor di Giove,
10Nè sapea come o dove
Si mescolasse il vino e 'l mele in uno,
Nè lane in grana o d'ostro
Tigner le sete, come al secol vostro.
Sopra le molli erbette
15Dormían sonni sicuri;
Spegnean la sete a chiaro rivo o fonte.
Lor tugurii o casette
Senza coperta e muri
Erano, o d'alme quercie ombre alte e pronte,
20O spelonche entro un monte.
Non aveva il pino allora
Corso l'onde marine,
Nè varie e peregrine
Merci portate a strani lidi ancora;
25Nè s'era a fiero invito
Di trombe suon nè di tamburi udito.
Non odio acerbo od ira
L'armi, nè sdegno altero,
Tinte di sangue spaventoso avea;
30Ma cagion, chi ben mira,
Non era, per che uom fero
Pria movesse arme altrui, perchè vedea
Le piaghe, o non scernea
Delle piaghe alcun frutto.
35Deh! chè non torna a quelli
Costumi antichi e belli
Il secol nostro, sanguinoso tutto?
Ma d'insaziabil fame
Qual Mongibello ardon le nostre brame:
40Chi fu, lasso, colui che primo ascosi
Cavò l'argento e l'oro,
Pregio e periglio in un, danno e ristoro?
PROSA SESTA.
Ma che dirò io ora delle dignità e della potenza, le quali voi, come quegli che non sapete qual sia la vera dignità e potenza, portate, lodando, infino al cielo? le quali se abbattono a cadere in persone malvagie, quali incendii di Mongibello quando più rutta fiamme maggiori, qual diluvio fece mai tanti danni e ruine, che più non ne facciano queste e maggiori? Certamente gli antichi vostri vollero, come penso ti ricordi, disfare per la superbia dei Consoli e distruggere l'imperio e potestà consolare, il quale della libertà era stato principio; e prima avevano pur per cagione della superbia tolto via della città il nome di re. E se mai, il che occorre radissime volte, le dignità e le potenze si dánno agli uomini buoni e da bene, che è quello che in esse piaccia, altro che la bontà di coloro che bene l'usano? E così avviene che non le dignità onorino le virtù, ma le virtù le dignità. Ma quale è cotesta vostra preclara potenza e disiderevole? Non considerate voi, o animali terreni, chi coloro siano, ai quali vi par di star sopra e signoreggiare? Se tu vedessi che fra i topi alcuno di loro s'appropriasse ragione e potestà sopra gli altri, non iscoppieresti tu delle risa? E se noi vogliamo considerare il corpo, qual si può trovare più inferma cosa e più debole dell'uomo, il quale spesse volte un morso di mosca, non che altro, o alcuno di quegli animaluzzi che serpono ed entrano per tutto, trafigge e ammazza? E in che modo può alcuno usare potestà nessuna contra veruno uomo, se non nel corpo solo, e in quello che da meno è che il corpo, cioè nelle cose della fortuna? Or dátti il cuore di comandare alcuna cosa all'animo, il quale è libero? stimi tu di poter mai rimuovere dallo stato della sua tranquillità una mente, la quale con ferma ragione a sè medesima s'appoggi? Pensando già un tiranno di dover costringere un uomo libero per forza di tormenti a manifestare i consapevoli d'una congiura fattagli contra, quegli si morse la lingua e la si tagliò, e nel viso del tiranno, che crudelmente il tormentava, la gittò; e così quello uomo saggio rivolse in sua virtù quei tormenti che il tiranno materia della sua crudeltà riputava. Ma qual cosa può fare alcuno ad altrui, che egli da altrui sostenere non possa? Busiride, usato d'uccidere gli osti suoi, fu, abbiamo inteso, da Ercole suo oste ammazzato. Regolo aveva imprigionato e messo ne' ferri molti Cartaginesi suoi prigioni; ma poco andò che egli, vinto da loro, fu incatenato. Pensi tu dunque che la potenza di colui, il quale quello che egli può contra uno altro, non può fare ch'uno altro non possa contra lui, vaglia niente? Oltr'a questo, se le dignità e potestà avessero alcun ben proprio e naturale in loro, mai alle mani non verrebbero degli uomini pessimi, perciocchè mai non sogliono le cose opposte l'une all'altre unirsi in uno e accompagnarsi, nè soffre la natura che due contrarii si congiungano insieme: onde, non essendo dubbio che agli uomini cattivi toccano le più volte le dignità, viene ancora ad essere manifesto che elleno di loro natura buone non sono, posciachè soffrono di stare con uomini rei; il che si può dirittamente di tutti i doni della fortuna giudicare, i quali a coloro più larghi vengono, che più sono viziosi. D'intorno a' quali penso che questo ancora debba considerarsi, che niuno dubita colui essere forte o gagliardo, nel quale vede la fortezza e la gagliardía. E chiunque ha la velocità non è dubbio ch'è veloce; similmente la musica fa gli uomini musici; la medicina medici; la rettorica rétori: perciocchè la natura di ciascuna cosa fa quello che le è proprio di fare, nè si mescola con effetti di cose contrarie a lei, e per sè stessa scaccia quelle cose che avverse e opposte le sono. Ora nè le ricchezze possono spegnere la insaziabile avarizia, nè la potestà farà mai padrone di sè medesimo colui il quale le ree e lorde libidini tengono con indissolubili e non disnodevoli catene legato; e la dignità che si concede agli uomini malvagi, non solo non gli fa degni, ma gli scuopre più tosto e gli mostra indegni: e questo donde viene, dirolti. Voi, mortali, pigliate piacere di chiamare le cose con nomi falsi, dando loro quelle virtù che agevolmente l'effetto d'esse mostra non essere vere. Laonde nè quelle ricchezze, nè quella potenza, nè questa dignità si possono ragionevolmente appellare. Il medesimo finalmente si può di tutta la fortuna conchiudere, nella quale è manifesto non essere cosa nessuna da potersi desiderare, nè bene alcuno naturale, posciachè ella nè si congiugne sempre co' buoni, nè fa buoni coloro coi quali s'accompagna.
LE SESTE RIME.
Ben sappiam quante all'alta Roma diede
Ruine e danni quel ch'entro vi mise
Per suo diletto crudelmente il foco;
Quel che tanti de' padri, e tanti uccise;
5Quel che 'l suo frate, ogni pietade e fede
Rotta, a morte menò quasi per gioco;
Cui del sangue materno parve poco
Bruttarsi, e non bagnar di pianto il volto,
Mirando il corpo esangue, chè ancor volle,
10Non meno empio che folle,
Lodare il loco ond'uscì fero e stolto.
E pur reggea costui quanto'l sol mira,
Da che leva di mane a che la sera
Nell'onde ibere i suoi bei raggi asconde,
15Là dove è sempre il ciel gelato, e donde
L'austro piovoso, per la calda e nera
Libia passando, a' nostri lidi spira:
Nè di Neron poteo la rabbia e l'ira
Frenar tanto ampio imperio: oh sorte acerba,
20Quando empio e fer voler gran possa serba!
PROSA SETTIMA.
Allora io: Tu medesima sai, le risposi, che l'ambizione delle cose mortali n'ha pochissimo signoreggiato; ma desiderammo bene d'avere occasione e materia da poterci mostrare, a fine che la virtù nostra senza far nulla e senza essere mentovata non invecchiasse. E cotesta è quella cosa sola, rispose, cioè il desiderio della gloria, e la fama d'aver gran cose operato per la repubblica, la quale può allettare e tirare a sè gli animi grandi sì e nobili di natura, ma non però giunti ancora all'ultima perfezione della virtù; la quale fama quanto sia stretta, piccola, debile e vana, così considera. Tutto il circuito della terra, come tu sai per le dimostrazioni degli astrologi, ha ragione verso lo spazio del cielo d'un punto, cioè che egli, se s'agguagliasse e paragonasse alla grandezza del globo o tondo celestiale, non ha spazio o grandezza nessuna; e di questa regione mondana tanto piccola quella, che s'abita da animali conosciuti da noi, è, come tu sai per le pruove di Tolomeo, a pena la quarta parte. Se tu a questa quarta parte leverai colla immaginazione tutto quello che ne ingombrano i mari e le paludi, e quanto si distende quel paese il quale per lo troppo calore è diserto e disabitato, a pena rimarrà agli uomini una strettissima ajuola per abitare. Voi dunque, attorniati e racchiusi in questo picciolissimo quasi punto d'un punto, pensate a divolgare la fama e prolungare il nome vostro? E che cosa può avere o grande o magnifica quella gloria, la quale in sì stretti confini e sì piccioli limitata e ristretta sia? Aggiugni, che questo breve chiuso, che s'abita, è abitato da più nazioni, le quali sono di lingua, di costumi, e nei modi di tutta la vita diverse, alle quali sì per la malagevolezza delle vie, e sì per la diversità de'linguaggi, e sì ancora per la disusanza del commercio non trafficando nè praticando l'una coll'altra, non solo non può pervenire la fama degli uomini particolari, ma nè ancora quella delle città. Finalmente al tempo di Marco Tullio, sì come dice in alcun luogo egli stesso, non aveva la fama della repubblica romana trapassato ancora il monte Caucaso, ed era in quel tempo grande tal, che infino i Parti e l'altre genti di quelle contrade ne temevano. Vedi tu dunque quanto sia picciola e ristretta da ogni parte quella gloria che voi d'allungare e slargare faticate? Credi tu, che dove non può aggiugnere la fama del nome di Roma arrivi la gloria d'uno uomo romano? Che dirò che i costumi e gli ordinamenti di diverse genti sono tra sè discordi in guisa, che quello che appo una nazione è giudicato degno di lode, appo l'altra si giudica degno di castigo? onde avviene che a chi si diletta d'aver fama, e che sia favellato di lui, non è utile in modo alcuno che il nome suo si diffonda in assai popoli. Verrà dunque a essere contento ciascuno di quella gloria che si spargerà tra' suoi; e fra i termini d'un paese solo quella tanto celebrata immortalità della fama ristretta fia. Quanti uomini grandi e famosi ne' tempi loro crediamo noi che abbiano scancellati e come tolti del mondo la dimenticanza e carestía degli scrittori? benchè che giovano le scritture, le quali insieme con gli autori loro preme e annulla la lunghezza e oscurità del tempo? E a voi, quando pensate la fama del tempo futuro, pare prolungare l'immortalità; ma se tu agl'infiniti spazii l'agguagli dell'eternità, che cagione hai di rallegrarti della lunghezza e duramento del nome tuo? Perciocchè, se tra lo spazio d'un momento solo e diecimila anni si facesse comparazione, perchè l'un tempo e l'altro è determinato, benchè picciolissima, pure vi sarebbe tra loro alcuna proporzione; ma questo stesso numero d'anni, eziandío moltiplicato quanto tu vuoi, non si può nè agguagliare ancora a quella lunghezza che non ha termine nessuno, cioè all'eternità: perchè tra le cose finite è alcuna proporzione quando s'agguagliano l'una coll'altra; ma tra una cosa finita, e una che è infinita, non può mai cadere agguaglio nè comparazione nessuna: onde nasce che la fama d'alcun tempo, e sia lungo quanto si voglia, comparata all'eternità, la quale mai non vien meno, pare che sia, non dico picciola, ma veramente nulla. Ma voi non sapete far mai opera buona, se non per compiacere al popolo ed esserne vanamente lodati; e, lasciato indietro la nobiltà e il vero pregio della coscienza e della virtù, volete che i guiderdoni dei fatti e opere vostre siano l'altrui parole e ragionamenti. Sta' a udire quanto sollazzevolmente e con garbo in cotale leggerezza d'arroganza burlò un tratto uno. Costui essendo ito a trovare e detto di gran villaníe a uno il quale, non per essere virtuoso, ma per esser tenuto e acquistar gloria, s'era del nome di filosofo falsamente vestito; e avendo aggiunto: tosto saprò se egli è filosofo; volendo inferire che, se era tale, sopporterebbe leggiermente e con pazienza quelle ingiurie che gli aveva fatte; colui ebbe pazienza un pochetto; poi, quasi bravandolo per aver ricevuta quella villanía: Conosci tu oggimai, disse, che io sono filosofo? Allora egli: Troppo mordacemente favelli, gli rispose; io l'avrei conosciuto, se tu fossi stato cheto. Or dimmi: che appartiene agli uomini singolari, perchè noi ragioniamo di quelli i quali cercano la gloria mediante la virtù, che appartiene, dico, a costoro la fama che di loro suona dopo la morte? perciocchè, se gli uomini muojono tutti, cioè e quanto al corpo e quanto all'animo, (la qual cosa le ragioni filosofiche vietano che si debba credere) certa cosa è che in tal caso non è in nessun modo gloria nessuna, conciosiachè colui, di chi si favella, non è in nessun modo egli; ma se una mente di buona coscienza, sciolta dal carcere terreno, se ne vola libera al cielo, non dispregierà ella tutte le cure e faccende mortali? La quale, godendo sè stessa in cielo, s'allegra d'essere dalle cose terrene stata cavata.
LE SETTIME RIME.
Qualunque ha tutti i suoi pensieri intesi
A cercar fama, e crede
Esser sola la gloria il sommo bene,
Miri prima del ciel gli ampii paesi,
5Poi quanto angusto siede
Lo spazio che la terra e 'l mar contiene:
Allor, se scerne bene,
Vergogna del suo grido
Avrà, ch'empier non può sì stretto lido.
10A che superbi invan dal mortal giogo
Cercano alzare il collo
Gli egri del tutto e miseri mortali,
S'ogni più bassa valle, ogni alto giogo
Risonar faccia Apollo
15De' nomi lor, cui pensano immortali,
Non men tosto gli strali
Drizza morte vêr loro,
Che nulla cura nobiltate ed oro?
Ella gli alteri petti ed ella ancora
20Gli umili insieme involve;
China ogni altezza, e torna in riso il pianto.
Ov'or Fabrizio sì fedele? ov'ora
Giaccion l'ossa e la polve
Di Bruto, e di Caton severo tanto?
25Picciol sasso cotanto
Valore e terra cuopre,
Che 'n poche lettre il nome vano scuopre.
Or, se ben conosciam gli alteri e chiari
Titoli e i nomi egregi,
30Lor, che cenere son, saper chi puote?
Tutti del tutto sconosciuti al pari
Giacete; e non puon pregi
Di viva fama far spente alme note:
E, se pur voci o note
35Slungan le vite corte,
Quest'ancor toglie la seconda morte.
PROSA OTTAVA E ULTIMA.
Ma perchè tu non pensi che io abbia guerra mortale e sia nemico a spada tratta della fortuna, egli è alcuna volta che quella fallace e ingannatrice si porta bene con gli uomini e fa loro benefizio; e questo è quando ella si palesa e scuopre la faccia, e confessa i costumi suoi. Tu per avventura non intendi ancora quello che voglio inferire. Maravigliosa cosa è quella ch'io mi consumo di dire, e perciò non posso esprimere con parole il concetto mio. Sappi ch'io tengo che più giovi agli uomini la fortuna avversa che la prospera, perchè quella sotto la speranza della felicità, quando ti pare piacevole, sempre mênte; questa è sempre vera, quando col mutarsi si mostra stabile: quella inganna; questa ammaestra: quella lega le menti di chi la gode colla speranza de' beni bugiardi; questa col conoscimento della felicità frale e falsa le scioglie. Onde quella si vede sempre gonfiata, cascante, e sè medesima non conoscente; questa sobria, rassettata, e, per essere stata più volte nelle avversità, prudente: finalmente la felice ritrae colle carezze sue, e travía dal sommo bene; l'avversa il più delle volte, come con uno uncino, riduce e ritira al sommo bene. Párti egli che questo si debba stimare cosa minima, che la fortuna aspra e orribile scuopre le menti degli amici fedeli, e scevera e distingue i visi degli amici certi da quelli dei dubbii e incerti? perchè, quando si parte, ne mena seco i suoi, e i tuoi ti lascia: quando avresti tu compro questo innanzi che ti fosse avvenuto disgrazia nessuna, e mentre eri, secondo che a te pareva, fortunato? Fornisci ora di cercare quelle ricchezze che tu hai perdute, perchè hai trovato gli amici veri, che è la più cara ricchezza che si possa avere.
L'OTTAVE E ULTIME RIME.
Che sempre al giorno segua
La notte, e dopo il gielo
La rondinetta al dolce tempo torni;
Che sempiterna lega
5I semi discordanti sotto il cielo
Servin, perchè di loro il mondo s'orni;
Che 'l sol rosati giorni
Co' destrier d'oro apporte;
Ch'alle notti, che Venere conduce,
10Sia Cinzia e donna e duce;
Che Teti ingorda con prescritto fine
Freni l'onde marine;
Che la terra i confin non slunghi o scorte;
È solo opera intera
15D'Amor, che quaggiù regge, e lassù impera.
Solo Amor lega e tiene
Uniti e cielo e terra;
Onde, s'ei pur un punto il fren rallenti,
Quanto or s'ama e mantiene
20Pace, movería guerra;
E quella fede amica, ch'alle genti
Il cielo e gli elementi
Muove or, venuta meno,
Saría cagion che 'ncontanente il tutto
25Guasto fôra e distrutto.
Congiugne ancora Amor con amistadi
Ferme ville e cittadi,
E al nodo marital pon casto freno:
Dêtta ei sue leggi ognora
30A' fidi amici, ove ogni ben dimora.
Oh felice mortal gente, s'a quello
Santo e divino Amore,
Che volge il ciel, volgesse amica il core!
FINE DEL LIBRO SECONDO