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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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11.
Venere e la Luna.
Venere. Che si va bucinando di te, o Luna? che quando sei sù la Caria fermi il cocchio per riguardare Endimione, il quale, come cacciatore, dorme allo scoperto; e che talvolta discendi a lui lasciando a mezzo il corso?
La Luna. Dimandane il figliuol tuo, o Venere: ei m’è cagione di tutto questo.
Venere. Oh che tristo! Anche a me che gli son madre quante ne fa egli! Ora mi fa scender sull’Ida per Anchise troiano; ora sul Libano presso quel garzonetto Assiro, del quale ha fatto innamorare anche Proserpina, e m’ha tolto metà di quell’amor mio. Più volte l’ho minacciato di spezzargli l’arco e la faretra, e di spennacchiargli l’ale: e già gli diedi una sculacciata col sandalo: ei piange, dice che nol farà più, ma non guari dopo si scorda di tutto. Ma dimmi, è bello Endimione? chè così il male ha un po’ di dolce.
La Luna. A me pare tutto bellissimo, o Venere, massime quando, distesa la clamide su la rupe, vi si pon sopra a giacere, avendo la mano sinistra ai dardi che gli cadono tra le dita; e la destra che in sù ripiegata intorno il capo inquadra la bella faccia: e così dormendo respira un alito soave d’ambrosia. Allora io tacitamente m’avvicino, camminando sù le punte dei piedi per non fare strepito e svegliarlo.... tu intendi: che debbo dirti di più? Ah, io mi sento morir d’amore.