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Luciano di Samosata - Dialoghi dei morti (Antichità)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
27. Diogene, Antistene e Crate
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27.

Diogene, Antistene e Crate.


Diogene. O Antistene, o Crate, noi siamo scioperati, perchè non andiamo passeggiando verso l’entrata, per vedere quelli che scendono, chi sono, e che fanno ciascuno?

Antistene. Andiamo, o Diogene, chè pur sarà piacevole a vedere alcuni che piangono, alcuni che pregano di esser lasciati, altri che non vogliono proprio scendere, e Mercurio che li tiene pel collo mentre essi resistono e superbamente si dibattono, senza alcun pro.

Crate. Ed io vi racconterò quel che vidi per via quando io ci discesi.

Diogene. Raccontaci, o Crate, chè dovesti veder cose molto ridicole.

Crate. Fummo tanti e tanti in quella discesa; ma fra gli altri si distinguevano il nostro ricco Ismenodoro, Arsace governatore della Media, ed Orite l’Armeno. Ismenodoro (che era stato ucciso dai ladri presso il Citerone, andando, come credo, ad Eleusi) lamentavasi, si teneva la ferita con le mani, chiamava i suoi figlioletti che aveva lasciati, e biasimava sè stesso che dovendo passare il Citerone ed i dintorni di Eleutera che son luoghi devastati dalla guerra, e nidi di ladri, si avesse menato seco soltanto due servitori, e poi portando cinque patere e quattro tazze d’oro. Arsace già vecchio e d’onorevole aspetto con un cotal piglio barbaresco mal sofferiva di camminare a piedi, e pretendeva che gli fosse menato il cavallo; chè anche il cavallo era morto con lui, trafitti entrambi d’un sol colpo da un fantaccino Trace n una mischia sull’Arasse contro i Cappadoci. Arsace s’era spinto, com’ei narrava, molto più innanzi degli altri: il Trace copertosi con lo scudo lo affronta, svia la lancia di Arsace, pone la sarissa in resta, e trapassa lui ed il cavallo.

Antistene. Come è possibile, o Crate, d’un sol colpo far questo?

Crate. È facile, o Antistene. Ei cavalcava agitando una lancia di venti cubiti; il Trace poichè con lo scudo si parò il colpo, e deviò la punta, piegando il ginocchio, presenta la sarissa al cavallo, il quale nella foga e nell’empito vi si getta sopra col petto; il ferro gli entra, e trapassa anche Arsace nell’inguine sino al lombo. Ecco come fu: più colpa del cavallo che del cavaliero. Egli adunque non poteva patire di andar confuso con gli altri, e voleva scendere a cavallo. Orite stava come un balordo, aveva i piedi sì molli che non poteva nè stare a terra nè camminare, come son tutti i Medi, i quali quando scavalcano, camminano a stenti sulle punte de’ piedi, come se andasser su le spine. S’era gettato per terra, e non c’era verso che si volesse levare, ma il buon Mercurio lo levò di peso e lo portò sino alla barca. Io me ne ridevo.

Antistene. Ed io quando discesi non mi mescolai agli altri, ma lasciandoli piangere corsi alla barca, e mi allogai nel miglior sito. Nel tragitto essi lagrimavano e vomitavano: ed io mi compiaceva a mirarli.

Diogene. Voi trovaste per via questi compagni: con me discesero Blepsia l’usuraio del Pireo, Lampide d’Acarnania condottiero di soldati, e Damide quel ricco di Corinto. Damide era morto avvelenato dal figliuolo, Lampide per amore della cortigiana Mirtia s’era ucciso da sè stesso, e Blepsia dicevasi esser morto miseramente stecchito di fame, e ben pareva, chè era pallido e magrissimo. Io, com’è uso, dimandava a ciascuno in che modo era morto; ed a Damide che ne dava la colpa al figliuolo, io dissi: Ti sta bene: avevi mille talenti e tutti i piaceri per te che eri di novant’anni, e ad un giovane di diciotto non davi quattr’oboli a portarli in tasca. E tu, o Acarnano (anch’egli dolevasi, e mandava maledizioni a Mirtia), a che incolpi amore, e non te? tu che non temesti mai nemici, ma coraggioso combattevi innanzi agli altri, ti lasciasti prendere dalle finte lagrimette e dai sospiri d’una sgualdrinella. Ma Blepsia, prima ch’io dicessi, biasimava la sua pazzia a serbar tanta ricchezza per un erede che non gli apparteneva, e a credere scioccamente che dovesse vivere sempre. A me poi diedero molto diletto quei loro lamenti. Ma già siam presso all’entrata: or bisogna riguardare ed osservare quelli che vengono. Caspita, o quanti, e diversi! tutti piangono, salvo questi fanciulletti che non parlano. Ma anche i vecchi si lamentano. Oh, che è cotesto? che incantesimo ha per essi la vita? Voglio dimandar questo vecchione. Perchè piangi tu che sei morto di tant’anni? Che ti dispiace di aver lasciato, essendo sì vecchio? Forse eri re?

Un povero. No.

Diogene. Eri satrapo?

Povero. Neppure.

Diogene. Certo eri un ricco, e ti duole d’esser morto lasciando agi e morbidezze?

Povero. Niente di questo. Avevo circa novant’anni, sostentavo una misera vita con l’amo e la canna, ero poverissimo, senza figliuoli, e zoppo, e poco ci vedeva.

Diogene. E con tutto questo volevi vivere ancora?

Povero. Sì: bella era la luce: la morte è terribile ed abborrita.

Diogene. O vecchio, tu sei impazzato e rinfantocciato presso alla morte, eppure hai gli anni di Caronte. E che si dovrà dire dei giovani, quando aman tanto la vita costoro che pur dovrebbero cercar la morte come unico rimedio ai mali della vecchiaia? Ma andiamocene, affinchè alcuno non sospetti che vogliamo fuggire, vedendoci così vicino all’entrata.


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