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Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
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12.
Violetta,1 Pitia e Lisia.
Violetta. E mi maltratti, o Lisia! Ben mi sta, perchè io non t’ho chiesto mai danari, non t’ho tenuto mai la porta, dicendoti, un altro è dentro; non t’ho costretto mai ad ingannar tuo padre, o rubare tua madre, e portarlo a me, come fanno le altre; ma subito fin da prima t’ho ammesso in casa senza voler mai nulla, mai. Tu li sai quanti innamorati io ho licenziati: Etocle che ora è de’ Pritani, Pasione il padron di barca, e Melisso che è giovane come te, ed ora gli è morto il padre, ed è padrone assoluto di tutto il suo: ma per me il mio Faone se’ stato tu, non ho guardato nessun altro, non sono stata che con te: perchè, sciocca a me, io credeva veri i giuramenti tuoi, e mi ti son mantenuta come una Penelope, benchè la mamma mi sgridasse, e le amiche me ne garrissero. E tu come ti sei accorto che io sono una pasta nelle mani tue, e di me fai quello che vuoi, ora scherzi con Licena innanzi agli occhi miei per farmi dispetto, ed ora mentre ti giaci con me lodi Magina la sonatrice. I’ n’ho pianto per questo, e pure benchè insultata son sempre pronta alle tue voglie. E giorni sono, quando beveste insieme tu, Trasone e Difilo, ci erano ancora Cimbalina la zufolatrice, e Pirallide la nemica mia; e tu lo sapevi. I’ non mi curai tanto che tu desti cinque baci alla Cimbalina, perchè offendesti te stesso a baciar colei: quanto che tu facevi tanti segni a Pirallide, e bevendo le accennavi il bicchiero, e poi dando il bicchiero al servo, gli dicevi: Mescivi solamente per Pirallide quando chiede bere e a nessun altro. Infine desti un morso ad una mela, e quando vedesti Difilo intento a parlar con Trasone, la lanciasti diritto in seno a lei, senza nemmeno cercare di non farti veder da me. Ella la baciò, e se la mise in mezzo alle mammelle sotto la pettiera. Or questo tu perchè me lo fai? T’ho dato mai un minimo dispiacere? t’ho fatta una minima offesa mai? chi altro ho guardato? non vivo solo per te? Non fai una bella cosa, o Lisia, ad affliggere così una povera donna che è pazza per te: e c’è una dea Nemesi, che le guarda queste cose. Ma tu ti affliggerai forse quando saprai ch’io son morta, che mi sono impiccata ad un laccio, o gettata nel pozzo, o morta in qualche altro modo, per levarti questa noia dinanzi agli occhi. Oh, allora sarai contento che avrai fatta questa gran prodezza. Ma perchè mi sguardi bieco, e arroti i denti? Se t’ho mancato in qualche cosa, parla: qui c’è Pitia, che ci giudicherà. Ma che? Non mi rispondi, e te ne vai, e mi lasci? Vedi, o Pitia, che mi fa Lisia?
Pitia. Che crudele! Non muoversi a queste lagrime. È sasso, non uomo, costui. Ma a dirti il vero, tu stessa, o Violetta, l’hai guasto col volergli tanto bene, ed a mostrarglielo. Dovevi non farti vedere così accesa di lui: ei lo sa, e se ne tiene. Non piangere, o poveretta, e senti me: per una o due volte scaccialo quando viene: e lo vedrai acceso davvero ed impazzito di te.
Violetta. Va, non lo dire neppure: io scacciar Lisia? Oh, non s’allontanasse egli da me!
Pitia. Torna di nuovo.
Violetta. Tu m’hai perduta, o Pitia: forse ha udito che hai detto: scaccialo.
Lisia. I’ non sono tornato per costei, chè io non la guarderò in faccia mai più, ma per te, o Pitia, affinchè tu non mi condanni, e non dica, Lisia è un crudele.
Pitia. Già l’ho detto, o Lisia.
Lisia. E volevi, o Pitia, che io avessi sofferta questa Violetta, che ora piange, ora, e che io stesso ho sorpresa a dormire con un giovane quand’io non c’era?
Pitia. Infine, o Lisia, ella è cortigiana. Ma quando li hai sorpresi a dormire insieme?
Lisia. Son forse sette giorni, sì sette, era il secondo del mese: oggi ne abbiamo otto. Mio padre sapendomi perduto di questa gioia, mi chiuse, e comandò al portinaio di non m’aprire: ma io che non potevo star senza di lei, me la intesi con Dromone, lo feci curvare vicino al muro del cortile dove è più basso, per salirgli sul dorso, e così facilmente scavalcare. Per non farla lunga, scavalcai, venni, trovai la porta ben chiusa, chè era già mezza notte: non picchiai, ma aperta piano piano la porta con la chiave comune, come avevo fatto altre volte, entro senza far rumore: tutti dormivano: io con le mani tastando le mura mi accosto al letto.
Violetta. Che dici? o mamma mia! mi sento i sudori della morte.
Lisia. Come m’accorsi che non era un fiato solo, da prima credetti che ci fosse anche Lida corcata: ma non era così, o Pitia: che tastando toccai uno senza barba, liscio, tonduto, che anche odorava d’unguento. A questo se io ci fossi venuto con un coltello ti dico che non avrei dubitato.... Perchè ridete, o Pitia? Ti dico cose da ridere io?
Violetta. E per questo, o Lisia, t’eri preso collera? Era Pitia che dormiva con me.
Pitia. Non dirglielo, o Violetta.
Violetta. Perchè non dirglielo? Era Pitia, o caro, chiamata da me per coricarci insieme, chè io mi struggevo a non averti vicino.
Lisia. Pitia così tonduta? E poi in sette giorni le son cresciuti tanti capelli?
Violetta. Per una malattia si è rasa, o Lisia, perchè le cadevano i capelli: ella ora ha la parrucca. Fagliela vedere, o Pitia, fagliela vedere per persuaderlo. Ecco chi era quel giovane, quel mio ganzo, di cui eri geloso.
Lisia. E non fu bene, o Violetta, fare una toccatina a questo tuo ganzo?
Violetta. Dunque ti se’ persuaso. Ma vuoi che vada in collera io ora? che mi sdegni con ragione anch’io?
Lisia. No, no: via, beviamo ora: e Pitia stia con noi: ella deve assistere alla pace.
Violetta. Ci sarà. Che m’hai fatto soffrire, o mio bel giovane Pitia!
Pitia. Ma io v’ho anche rappattumati: onde non me ne voler male. D’una cosa ti prego, o Lisia; de’ capelli, ve’, non parlarne a nessuno.
- ↑ Ioessa.