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Luciano di Samosata - LVI. Dialoghi delle cortigiane (II secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Settembrini (1862)
13. Leontico, Chenida ed Innide
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13.

Leontico, Chenida ed Innide.


Leontico. In quella battaglia contro i Galati, dillo tu, o Chenida, come io uscii innanzi a tutti cavalcando un cavallo bianco, e come i Galati, benchè gagliardi, tosto si scombuiarono al vedermi, e nessuno più tenne il fermo. Allora io mi scaglio contro il capitano della cavalleria, e con una lanciata trapasso fuor fuora lui e il cavallo: e contro alcuni rimasti ancora piantati (ed erano un pugno che, sciolta la falange, si mantenevano stretti ed annodati), contro costoro io, sfoderata la spada, e a tutta furia investendoli, ne rovescio quasi sette urtandoli col cavallo; e poi menando la spada, spaccai ad un caporale il capo in due con tutto il collo. Voi poi, o Chenida, poco appresso vi deste ad inseguire i fuggiaschi.

Chenida, o Paperino. E nella Paflagonia, o Leontico, in quel duello contro il Satrapo non mostrasti allora una gran prodezza?

Leontico. Ah, sì, tu mi hai ricordato un fatto non poco glorioso. Il Satrapo che era un omaccione grande, e pareva un guerriero assai bravo, tenendo per niente i Greci, si fece in mezzo, e sfidò chi volesse combattere con lui a corpo a corpo. Tutti si sbigottirono, caporali, colonnelli, il generale stesso che non era un vile. Ei si chiamava Aristecmo il generale, era Etolo, e maneggiava bene la lancia: io ero ancora capitano di mille uomini. Arditamente adunque, io sviluppatomi dagli amici che mi trattenevano.... — temevano per me, vedendo quel barbaro tutto rilucente nelle armi dorate, che aveva uno spennacchio terribile, e squassava la lancia.....

Chenida. Anch’io temei allora, o Leontico, e ti ricordi come ti pregavo di non metterti a quel pericolo: chè se morivi tu, volevo morire anch’io.

Leontico. Ma io arditamente esco in mezzo armato di tutto punto come il Paflagone, e tutt’oro anch’io. Tosto si levò un grido dai nostri e dai barbari, i quali mi riconobbero allo scudo, alle bardature, allo spennacchio. Di’, o Chenida, a chi m’assomigliavano tutti allora?

Chenida. A chi? Ad Achille; sì, al figliuolo di Teti e di Peleo: così ti stava bene l’elmo in testa, la porpora ti era dipinta al corpo, e lo scudo sfolgorava.

Leontico. Poi che venimmo a fronte, il barbaro prima ferisce me, sfiorandomi un po’ con la lancia alquanto sopra il ginocchio: ma io trapassatogli lo scudo con la sarissa gli sprofondo il petto, e poi gli vo sopra, gli tronco netto il capo con la spada, gli prendo le armi, e me ne torno, portando il capo infilzato su la sarissa, che mi lordava di sangue.

Innide. Va, va, o Leontico: che sozzure ed orrori mi conti! E chi ti vuol guardare in faccia, quando ti piace tanto il sangue? chi vuole più bere e corcarsi con te? I’ me ne vado, io.

Leontico. Ti darò il doppio del patto.

Innide. I’ non potrei mai dormire con un omicida.

Leontico. Non temere, o Innide: le son cose fatte tra’ Paflagoni: ora io sono pacifico uomo.

Innide. Sei un abbominevole uomo, che il sangue ti gocciolava sopra da quella testa del barbaro che portavi su la sarissa. Ed un tale uomo io abbracciarlo e baciarlo? No, no: liberatemene, o Grazie: costui non è diverso dal boia.

Leontico. Eppure se tu mi vedessi armato, ti dico t’innamoreresti di me.

Innide. Al solo udirti, o Leontico, mi viene la nausea ed il raccapriccio; e parmi di vedere l’inferno, e le ombre degli uccisi, specialmente quel povero caporale col capo spaccato in due: oh, che saria s’io vedessi davvero il sangue, e i cadaveri per terra? Certo ne morirei: io non ho veduto mai uccidere neppure una gallina.

Leontico. Sei così tenera, e pusillanime, o Innina? I’ credevo che ti piaceva udire.

Innide. Fa’ cotesti racconti alle donne di Lenno o alle Danaidi; a cui posson piacere: io per me, torno a mamma mia, chè ancora è dì. Vieni meco, o Grammide. E tu, io ti saluto, o bravo capitano, uccidine quanti ne vuoi.

Leontico. Rimani, o Innina, rimani. Se n’è ita.

Chenida. Tu l’hai spaurita la semplice fanciulla, o Leontico, con tanto agitar di spennacchi, e contare d’incredibili braverie: io vedevo com’ella impallidiva quando tu contavi il fatto di quel caporale, e come tutta si stringeva ed abbrividiva quand’hai detto che tagliasti la testa.

Leontico. I’ credevo di farmene bello con lei. E tu m’hai aiutato a rovinarmi, o Chenida, suggerendomi quel maledetto duello.

Chenida. Non doveva aiutarti a dire una bugia, vedendo che avevi tanta voglia di cianciare? Ma tu hai fatto un’orribilità grande. Passi pure che tagliasti il capo a quel povero Paflagone, perchè poi infilzarlo su la sarissa, e farti gocciolare il sangue addosso?

Leontico. Questo è sozzo veramente, o Chenida: tutt’altro è stato bene inventato. Ma va’, e persuadila a dormire con me.

Chenida. Le dirò dunque che son tutte bugie, e che l’hai dette per parer prode?

Leontico. Così è vergogna, o Chenida.

Chenida. E altrimente non viene. Scegli dunque una delle due: o essere odiato e rimanerti bravo, o dormir con Innide e confessarti bugiardo.

Leontìco. Brutte tuttedue: ma scelgo Innide. Va’ dunque, o Chenida, e dille che son bugie, ma non tutte, ve’.

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