Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
DIALOGO
SOPRA LA NOBILTÀ
Benchè l’umana superbia sia discesa fino ne’ sepolcri, d’oro e di velluto coperta, unta di preziosi aromi e di balsami, seco recando la distinzione de’ luoghi perfino tra’ cadaveri, pure un tratto, non so per quale accidente, s’abbatterono nella medesima sepoltura un nobile ed un poeta, e tennero il seguente ragionamento:
Nobile. Fatt’ in lá, mascalzone!
Poeta. Ell’ha il torto, Eccellenza. Tem’Ella forse che i suoi vermi non l’abbandonino per venire a me? Oh! le so dir io ch’e’ vorrebbon fare il lauto banchetto sulle ossa spolpate d’un poeta.
Nobile. Miserabile! non sai tu chi io mi sono? Ora perchè ardisci tu di starmi cosí fitto alle costole, come tu fai?
Poeta. Signore, s’io stovvi cosí accosto, incolpatene una mia depravazione d’olfatto, per la quale mi sono avvezzo a’ cattivi odori. Voi puzzate che è una maraviglia. Voi non olezzate giá piú muschio ed ambra, voi ora. Quanto son io obbligato a cotesti bachi, che ora vi si raggirano per le intestina! Essi destano effluvi cosí fattamente soavi, che il mio naso ne disgrada a quello di Copronimo, che voi sapete quanto fosse squisito in fatto di porcherie.
Nobile. Poltrone! tu motteggi, eh? Se io ora do che rodere a’ vermi, egli è perchè in vita ero avvezzo a dar mangiare a un centinaio di persone; dove tu, meschinaccio, non avevi con che far cantare un cieco: e perciò anche ora, se uno sciagurato di verme ti si accostasse, si morrebbe di fame.
Poeta. Oh, oh! sibbene, Eccellenza. Io ricordomi ancora di quella turba di gnatoni e di parassiti, che vi si affollavano intorno. Oh, quante ballerine, quanti buffoni, quanti mezzani! Diavolo! perché m’è egli toccato di scender quaggiú vosco? che altrimenti io gli avrei registrati tutti quanti nel vostro epitaffio.
Nobile. Olá! chiudi cotesta succida bocca, o io chiamo il mio lacchè e ti io bastonar di santa ragione.
Poeta. Di grazia, l’Eccellenza vostra non s’incomodi. Il vostro lacchè sta ora lá sopra con gli altri servi e co’ creditori facendo un panegirico de’ vostri meriti, che è tutt’altra cosa che l’orazione funebre di quel frate pagato da’ vostri figliuoli. Egli non vi darebbe orecchio, vedete, Eccellenza.
Nobile. Linguaccia! tu se’ tanto incallita nel dir male, che né manco i vermi ti possono rosicare.
Poeta. Che Dio vi dia ogni bene: ora voi parlate propriamente da vostro pari. Voi dite ch’io dico male, perché anco quaggiú séguito pure a darvi dell’«Eccellenza», eh? Quanto ho caro che voi siate morto! Ben si vede che questo era il punto in cui voi avevate a far giudizio. Or bene, io darovvi, con vostra buona pace, del «tu». Noi parremo per lo appunto due consoli romani, che si parlino la loro lingua. Povero «tu»! Tu se’ stato seppellito insieme colla gloria del Campidoglio: bisogna pur venire quaggiú chi ha caro di rivederti. O «tu», se’ pure la snella e disinvolta parola!
Nobile. Cospetto! se io non temessi di troppo avvilirmi teco, io non so chi mi tenesse dal batterti attraverso del ceffo questa trippa ch’ora m’esce dal bellico, che infradicia. Io dicoti che tu se’ una linguaccia, io.
Poeta. Di grazia, signore, fatelo, se il potete, ché voi non vi avvilirete punto. Questo è un luogo dove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassú, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente agguagliati a noi altra canaglia : ned ecci altra differenza, se non che, chi piú grasso ci giugne, così anco piú vermi sel mangiano. Voi avete inoltre a sapere che quaggiú solamente stassi ricoverata la veritá. Quest’aria malinconica, che qui si respira fino a tanto che reggono i polmoni, non è altro che veritá, e le parole, ch’escon di bocca, il sono pure.
Nobile. Or bene, io t’ho còlto adunque, balordo: io dico adunque il vero, chiamandoti una linguaccia, dappoiché qui non si respira né si dice altro che veritá.
Poeta. Piano, Eccellenza. Vi ricorda egli quanti dì sieno che voi veniste quaggiú?
Nobile. Sibbene: tre dì; e qualche ore dappoi ci giugnesti tu ancora.
Poeta. Gli è vero. Fu per lo appunto il giorno che quegli sciocchi di lá sopra, dopo avermi lasciato morir di fame, si credettero di beatificarmi qua, collocandomi in compagnia di Vostra Eccellenza.
Nobile. Egli avevano ben ragione, se non che tu non meritavi cotesta beatitudine.
Poeta. Or dite: nel momento che voi spiraste, non vi fu tosto serrata la bocca?
Nobile. Si.
Poeta. Non ragunovvisi poi dintorno un esercito di mosche, che ve la turarono vie piú?
Nobile. Che vuoi tu dire per ciò?
Poeta. Non veniste voi chiuso fra quattro assi?
Nobile. Sì, e coperte di velluto, e guernite d’oro finissimo, e portato da quattro becchini e da assai gentiluomini con ricchissime vesti nere, colle mie arme d’intorno, con mille torchi, che m’accompagnavano.
Poeta. Via, cotesto non importa. Non foste voi, così imprigionato, gettato quaggiú?
Nobile. Sì; e per ventura, cadendo, si scommessero le assi, sì ch’io ne sdrucciolai fuora, e rimasimi quale ora mi vedi.
Poeta. Non vedete voi adunque che voi avete tuttavia in corpo l’aria di lá sopra; ch’e’ non ci fu verso ch’essa ne potesse uscire, tanto voi eravate ben chiuso da ogni banda?
Nobile. E cotesto che ci fa egli?
Poeta. Egli ci fa assai; conciossiaché l’aria, piena di veritá, di quaggiú non vi può entrare, e per conseguente non ne può uscire colle parole; laddove in me è seguito tutto il contrario. Io fui abbandonato alla discrezione del caso quand’io mi morii; e que’ ladri de’ becchini non m’ebbero punto di rispetto, con ciofosseché io non fossi un cadavere eccellenza. Anzi, levatimi alcuni cenci ov’io era involto, quaggiú mi gittarono così gnudo com’io era nato. Voi v’avvedete ora che l’aria di colassù ben tosto si fu dileguata da’ miei polmoni, e che in quel cambio ci scese quest’aria veritiera di questo luogo, ov’ora insieme abitiamo, e staracci finché qualche topo non m’abbia tanto bucato i polmoni ch’essa non ci possa piú capire.
Nobile. Bestia! tu vuoi adunque conchiuder da ciò che tu solo dici ’l vero quaggiú e ch’io dico la bugia?
Poeta. Io non dico giá questo, io. Voi ben sapete che, quando altri è ben persuaso che ciò ch’ei dice sia vero, non si può giá dire ch’egli faccia bugia, sebbene egli dica il falso, non avendo egli animo d’ingannare altrui, comeche egli per un cattivo raziocinio inganni se medesimo.
Nobile. Mariuolo, tu fai bene a cercare di sgabellartene: ben sai che cosa importi il dare una mentita in sul viso a un mio pari. Ma via, poiché qui nessuno ci vede, né restaci altro che fare infino a tanto che questi vermi abbian finito di rosicarci, io voglio pur darti retta. Di’ pure: in che cosa m’inganno io? Egli sará però la prima volta che un tuo pari abbia ardito di dirmi ch’io m’ingannassi.
Poeta. Signore, fatemi la cortesia di rispondere voi prima a me. Per qual ragione non volevate voi dianzi ch’io vi stessi vicino?
Nobile. Non tel dissi io giá? perché ciò non si conveniva ad un par tuo.
Poeta. E che? vi pungevo io forse, v’assordavo io, vi mandav’io qualche tristo odore alle narici, vi dava io infine qualche disagio alla persona?
Nobile. Benché cotesto fosse potuto essere per avventura, non è però per questo ch’io sommene doluto, ma solamente perché ciò non si conveniva.
Poeta. Or perché non si conveniva egli ciò? Forse che non può l’uomo star vicino all’altr’uomo, quando egli nol punga, non l’assordi, non gli mandi trist’odore alle narici e finalmente non gli rechi verun disagio alla persona?
Nobile. Sì, certo ch’egli ’l può, ma quando l’altro sia suo pari.
Poeta. E quand’egli nol sia?
Nobile. Colui ch’è inferiore è tenuto d’usar rispetto all’altro che gli è superiore; e il non osare accostarsi è segno di rispetto, laddove il contrario è indizio di troppa famigliaritá, come dianzi ti accennai.
Poeta. Voi non potreste pensar di meglio. Ma ditemi, se il cielo vi faccia salvo: chi di noi due giudicate voi che sia tenuto a rispettar l’altro?
Nobile. Nol vedi tu da te medesimo, balordo? Tu déi rispettar me.
Poeta. Voi volete dire adunque che voi siete mio superiore.
Nobile. Sì, certo.
Poeta. E per qual ragione il siete voi? Sareste voi per avventura il re?
Nobile. Sogni tu o impazzi? Or non mi conosci tu adesso, o non mi conoscevi pochi di fa, quando noi eravamo tra’ vivi? Che vai tu ora dunque farneticando ch’io mi sia il re?
Poeta. Se voi non siete il re, non può fare che voi non siate almanco un suo ministro, deputato al governo del popolo e all’amministrazione della giustizia.
Nobile. No, dicoti ch’io non ebbi mai bisogno d’occuparmi in sì fatte cose a’ miei dì.
Poeta. Egli è adunque forza che voi siate uno de’ suoi sergenti o bargelli per esso lui destinati a rappresentare la sua autoritá e ad eseguire le sue intenzioni.
Nobile. Tu m’hai ben viso da bargello, tu, anzi da boia, manigoldo, che ti pigli tanta sicurtá meco.
Poeta. Voi sarete adunque qualche Morgante o qualche Briareo, dotato dalla natura d’una straordinaria robustezza delle membra.
Nobile. Oh! tu m’hai ristucco oggimai, impronto seccatore che tu se’. Vanne a’ villani, e quivi troverai cotesta triviale robustezza delle membra, che tu di’. A’ miei pari si conviene troppo piú gracile e dilicata complessione che tu non pensi.
Poeta. Avete voi forse delle grandi ricchezze e de’ gran danari alla vostra disposizione?
Nobile. Di ciò ben io ne aveva; ma io ne ho giocato e mangiato una gran parte, e il resto me lo sono speso in abiti, in cocchi, in villeggiature, in servi e in mille altre cose finalmente, che sono necessarie a’ pari miei. Non è senza ragione ch’io mi son morto fallito, come tu sai, e non ho lasciato a’ miei figliuoli altro che i fedecommessi, co’ quali si faccian beffe de’ creditori. Ad ogni modo, io mi sarei trovato nudo d’ogni cosa sì tosto ch’io fossi arrivato quaggiú, se io non avessi avuto la sagacitá di spogliarmene innanzi tratto. Ma dove andrann’egli però a battere le tante domande che tu mi vai facendo?
Poeta. Se voi non siete né il re, né suo ministro, né suo bargello, né fornito dalla natura di straordinaria valentia del corpo, né di grandi ricchezze dalla fortuna, in che vi tenete voi per mio superiore e perché pretendete voi ch’io v’usi rispetto?
Nobile. Perché io son nobile, dove tu sei plebeo.
Poeta. E che diamine d’animale è egli mai cotesto nobile? o perché dobbiamo noi essere obbligati a rispettarlo?
Nobile. Perché egli ha avuto una nascita diversa dalla tua.
Poeta. Oh poffare! voi mi fareste strabiliare. Affé, che voi mi pigliaste ora per un bambolo da contargli le fole della fata e dell’orco. Non son io forse stato generato e partorito alla stessa stessissima foggia che il foste voi? E che! vi moltiplicate voi forse per mezzo delle stampe, voi altri nobili?
Nobile. Noi nasciamo come se’ nato tu medesimo, se io ho a dirti ’l vero; ma il sangue, che in noi è provenuto dai nostri maggiori, è tutt’altra cosa che il tuo.
Poeta. Dálle! e voi seguite pure a infilzarmi maraviglie. Forse che il vostro sangue è fatto alla foggia di quello degli dèi d’Omero, e non è così come il nostro fluido e vermiglio?
Nobile. Egli è anzi così come il vostro fluidissimo e vermiglissimo; ma tu ben sai che possa il nostro sangue sopra gli animi nostri.
Poeta. Io non so nulla, io. Di grazia, che credete però voi che il vostro sangue possa sopra gli animi vostri?
Nobile. Esso ci può piú che non credi. Esso rende i nostri spiriti svegliati, gentili e virtuosi; laddove il vostro li rende ottusi, zotici e viziosi.
Poeta. E perché ciò?
Nobile. Perché esso è disceso purissimo per insino a noi per li purissimi canali de’ nostri antenati.
Poeta. Se la cosa è come a voi pare, voi sarete adunque, voi altri nobili, tutti quanti forniti d’animo svegliato, gentile e virtuoso.
Nobile. Si, certamente.
Poeta. Onde vien egli però che, quando io era colassù tra’ viventi, a me pareva che una così gran parte di voi altri fosse ignorante, stupida, prepotente, avara, bugiarda, accidiosa, ingrata, vendicativa, e simili altre gentilezze? Forse che talora, per qualche impensato avvenimento, si è introdotta qualche parte del nostro sangue eterogeneo per entro a que’ purissimi canali de’ vostri antenati? Ed onde viene ancora che tra noi altra plebe io ho veduto tante persone scienziate, valorose, intraprendenti, liberali, gentili, magnanime e dabbene? Forse che qualche parte del vostro purissimo sangue vien talora, per qualche impensato avvenimento, ad introdursi negli oscuri canali di noi altra canaglia?
Nobile. Io non ti saprei ben dire onde ciò procedesse; ma egli è pur certo che si dee parlar con molto piú riverenza, che tu non fai, di noi altri nobili, perciocché noi meritiamo rispetto da voi, se non per altro, almeno per l’antichitá della nostra prosapia.
Poeta. Deh! signore, ditemi per vita vostra: quanti secoli prima della creazione cominciò egli mai la vostra prosapia?
Nobile. Ah, ah! tu mi fai ridere. Pretenderesti tu forse, minchione, che ci avesse delle famiglie primaché nulla ci fosse?
Poeta. Or bene, di che tempo credete voi che avesse cominciamento la vostra famiglia?
Nobile. Dal tempo di Carlo magno, cicala.
Poeta. Olá tu! fammi di cappello tu, scostati da me tu.
Nobile. Insolente! Che linguaggio tieni tu ora con me? Tu mi faresti po’ poi scappare la pazienza.
Poeta. Olá! scostati, ti dico io.
Nobile. E perché?
Poeta. Perché la mia famiglia è di gran lunga piú antica della tua.
Nobile. Taci lá, buffone: e da chi presumeresti però tu d’esser disceso?
Poeta. Da Adamo, vi dico io.
Nobile. Oh! io l’ho detto che tu ci avverresti bene a fare il buffone. Io comincio quasi ad aver piacere d’essermi qui teco incontrato. Suvvia, fammi adunque il catalogo de’ tuoi antenati.
Poeta. Eh! pensate: la vorrebb’esser la favola dell’uccellino, se io avessi ora a contare ogni cosa. Questi rospi, che ora ci rodono, non hanno mica tanta pazienza, sapete. Così fosse stato addentato il vostro primo ascendente dove ora uno di essi m’addenta, che voi non vi vantereste ora di così antica famiglia.
Nobile. Ispácciati: comincia prima da tuo padre, e va’ via salendo. Come chiamavasi egli?
Poeta. Il signor Giambattista, per servirvi.
Nobile. E il tuo nonno?
Poeta. Il mio nonno...
Nobile. Or di’.
Poeta. Zitto, aspettate ch’io lo rinvenga il mio nonno...
Nobile. Sbrigati, ti dico, in tua malora!
Poeta. Il mio nonno chiamavasi messer Guasparri.
Nobile. E il tuo bisavolo?
Poeta. Oh! questo affé ch’io non mel ricordo. Ricorderestevi voi i vostri?
Nobile. Se io me li ricordo? Or senti: Rolando il primo, da Rolando il primo Adolfo, da Adolfo Bertrando, da Bertrando Gualtieri, da Gualtieri Rolando secondo, da Rolando secondo Agilulfo, da Agilulfo...
Poeta. Cappita! voi siete fornito d’una sperticata memoria, voi. Egli si par bene che voi non abbiate studiato mai altro che la vostra genealogia.
Nobile. Ora ti dái tu per vinto? mi concedi tu oggimai che io e gli altri nobili miei pari meritiamo rispetto e venerazione da voi altri plebei?
Poeta. Io vi concedo che voi aveste di molta memoria, voi e i vostri ascendenti; ma, se cotesto vi fa degni di riverenza, io non so perché io non debba dare dello «illustrissimo» anco a colui che mostra le anticaglie, dappoiché egli si ricorda di tanti nomi quanti voi fate, e d’assai piú ancora. Ma ditemi per vostra fé: se il fu vostro legnaiuolo o il fu vostro calzolaio si ricordassero per avventura i nomi de’ loro antenati, poniam caso, fino a’ tempi del re Alboino, non sarebbon eglino perciò nobili quanto voi, e non dovrebbesi anche loro, cosí come a voi, il titolo dell’«Eccellenza»?
Nobile. È egli però possibile, animale, che tu non ti avvegga quanta differenza ci corra tra me ed essi? ché dove quelli è verosimile che derivati sieno da altri legnaiuoli e calzolai, io al contrario ognun sa da quanto celebri, quanto illustri e quanto grand’avoli sono disceso.
Poeta. Siete voi ben certo che sieno stati sí celebri, sí illustri e sí grandi cotesti avoli vostri, o che voi provenghiate veramente da questi, che voi credete si fatti?
Nobile. Come vuoi tu che sia altrimenti, dappoiché io ho lasciato colassú ne’ miei archivi tanti volumi, quali in istampa e quali scritti a penna, che tutti contengono la serie de’ miei ascendenti fino a quel Rolando il primo, che dianzi ti nominai?
Poeta. Affé che voi mi citate de’ molto gravi testimoni. Non udiste voi mai che di niuna cosa si dee piú dubitare che d’una genealogia, e ch’egli è proverbio fatto in alcune lingue che «niuno è piú bugiardo d’un genealogista»?
Nobile. Tu apporresti al sole. Starò a vedere che tu saprai meglio di me quali fossero i miei avoli ed onde cominciasse la mia nobiltá.
Poeta. E che? siete voi forse d’opinione che la vostra nobiltá avesse una volta cominciamento?
Nobile. Non tel niego.
Poeta. Essa dee adunque aver cominciato in alcuno de’ vostri antenati.
Nobile. Poh, il gran Salamone! Tu la indovinasti per lo appunto.
Poeta. Bene sta. Credete voi ora che colui de’ vostri antenati, da cui ebbe principio la vostra nobiltá, avesse mai padre?
Nobile. Tu ti pigli oggimai troppo giuoco di me. Che vuoi tu: ch’egli piovesse in terra da’ nuvoli?
Poeta. Rispondete: l’ebb’egli?
Nobile. Ei l’ebbe senz’alcun fallo.
Poeta. Pensate voi che cotesto padre fosse anch’egli nobile o no? M’udite voi?... Non rispondete?... Eh!... avete voi perduta la parola?... A quel ch’io veggo, voi vi trovate impacciato. Coraggio! dite...
Nobile. Se io non erro, il padre non potè altrimenti esser nobile, conciossiacché la nobiltá cominciasse nel figliuolo.
Poeta. Forz’è adunque ch’ei fosse ignobile, e che da un ignobile provenghiate voi con tutta la serie de’ famosi vostri antenati, così come da un ignobile son provenuti il fu vostro calzolaio, il fu vostro legnaiuolo e simile altra gentaglia.
Nobile. Io non posso negartelo. E non ci ha famiglia in Europa, per quanto nobilissima esser possa, che non si trovi nella medesima condizione che la mia. Ben ti dico che finora io non feci mai cotesta riflessione; e quasi quasi tu mi fai dubitare che questa nobiltá non sia po’ poi così gran cosa come questi miei pari la fanno: ma ciò, ti priego, si rimanga fra noi due.
Poeta. Rallegromene assai. Ben si vede che l’aria veritiera di questo nostro sepolcro comincia ora ad insinuarvisi ne’ polmoni, cacciandone quella che voi ci avevate recato di colassú.
Nobile. Si; ma tu mi dèi concedere nondimeno ch’io merito onore da te in grazia di que’ tanti miei, che furono tanto celebri, tanto illustri e tanto grandi, come dianzi ti diceva.
Poeta. Io giurovi ch’io non ne ho udito mai favellare. Ma che hanno eglino però fatto cotesti sí celebri, sí illustri, sí grandi avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la maniera del coltivare i campi; hann’eglino ridotto gli uomini selvaggi a vivere in compagnia; hann’egli scoperta la religione, o trovate le leggi e le arti, che son necessarie alla vita umana; hann’egli salvata la patria da qualche imminente calamitá; v’hanno egli fondato per puro amore di essa qualche utile e ragionevole stabilimento? S’egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che cotesti vostri avoli meritarono d’esser rispettati da’ loro contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar riverenza alla memoria loro. Or dite: che hanno eglino fatto?
Nobile. Tu dèi sapere che que’ primi nostri avoli, che piú d’ogn’altro contribuirono alla nobiltá delle nostre famiglie, altri prestarono de’ grandi servigi agli antichi principi, aiutandoli nelle guerre ch’eglino intrapresero; e perciò vennero da questi ricompensati largamente e renduti ricchi sfondolati. Altri, divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri fuorusciti, e segnalarono la loro vita facendo stare al segno il loro principe e la loro patria. Quali si dierono per assoldati a condurre delle armate in servigio or di questo or di quel)’altro signore, e fecero un memorabile macello di gente d’ogni paese e si fecero grandissimi tesori delle spoglie riportate da’ loro nemici. Quali, sia per timore d’essere perseguitati, sia che per le varie vicende si fossero scemate le lor facoltá, sia per desiderio d’esercitare tanto piú assolutamente la loro potenza, ritiraronsi a viver ne’ loro feudi, ricoverati in certe loro ròcche sí ben fortificate, che gli orsi non vi si sarebbono potuti arrampicare. Quivi non ti potrei ben dire quanto fosse grande la loro potenza: bastiti che nelle colline, ov’essi rifugiavano, non risonava mai altro che il fischio delle loro balestre o il tuono delle loro archibusate, e ch’eglino erano dispotici padroni della vita e delle mogli de’ loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto venerabili omaccioni fosser costoro, de’ quali tenghiamo tuttavia i ritratti appesi nelle nostre sale.
Poeta. Or bene, io farovvi adunque quell’onore che fassi agli usurpatori, agli sgherri, a masnadieri, a’ violatori, a’ sicari, dappoiché cotesti vostri maggiori, de’ quali m’avete parlato, furono per lo appunto tali, se io ho a stare a detta di voi; sebbene io mi credo che voi ne abbiate avuti de’ savi, de’ giusti, degli umani, de’ forti, de’ magnanimi, de’ quali non sono registrate la gesta nelle vostre genealogie, perché appunto tali si furono e perché le vere virtú non amano d’andare in volta a processione.
Nobile. Che vuoi tu ch’io ti dica? Di mano in mano che tu avanzi col discorso, mi sento come cader dagli occhi dello spirito certa caligine, e vo scoprendo certe cose, delle quali non m’era giammai accorto tra’ vivi. Contuttociò mi negherai tu che non mi si debba portar riverenza, almeno in grazia di quegli antenati savi, giusti, umani, forti e magnanimi, che dianzi tu stesso m’hai conceduti?
Poeta. Cotesto non vi negherò giá io; ma a patto che siemi anco lecito di strapazzarvi e di vituperarvi in grazia di que’ vostri antichi, che voi accennaste poc’anzi, o d’altri, i quali, secondo che a me costerá per la tradizione o per le storie, abbian commesso ladronecci, omicidii, violenze, tradimenti e simili altre ribalderie, delle quali poche o forse ninna famiglia può vantarsi immacolata, benché ognuno s’aiuti, come piú può, di coprir le sue sporcizie, come fa il gatto. Non vi sembra egli giusto che, se voi volete aver parte nella gloria dovuta a’ vostri ascendenti, voi l’abbiate pure nell’infamia, che loro si conviene, a quella guisa appunto che chi adisce ad un’ereditá, assume con essa il carico de’debiti, che annessi le sono?
Nobile. No certo, ché cotesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.
Poeta. E perché ciò?
Nobile. Perché io non sono per verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.
Poeta. Per qual ragione?
Nobile. Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.
Poeta. Volpone! Voi vorreste adunque godervi l’ereditá, lasciando altrui i pesi, che le appartengono, eh? Voi vorreste adunque lasciare a’ vostri avoli la viltá del loro primo essere, la malvagitá delle azioni di molti di loro e la vergogna, che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito della loro virtú, e l’onore, ch’eglino sonosi acquistati con esse?
Nobile. Tu m’hai cosí confuso, ch’io non so dove io m’abbia il capo. Io sono rimasto oggimai come la cornacchia d’Esopo senza pure una piuma dintorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io son ora convinto di non meritar nulla, ond’è adunque che quelle bestie, che vivevan con noi, facevanmi tante scappellate, cosí profondi inchini e idolatravanmi cosí fattamente, ch’io mi credeva una divinitá? E voi altri autori e voi altri poeti, ne’ vostri versi e nelle vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell’altezza della mia condizione, della grandezza de’ miei natali, e il diavolo che vi porti, gramo e dolente ch’io mi sono rimasto!
Poeta. Ciò accadde, perché bisogna leccare il mele chi vuol sentirne il dolce, e perché anco tra’ letterati, tra’ poeti e tra gli autori ve ne ha degl’ignoranti, de’ vigliacchi, de’ birboni e degli scrocconi. Ma coraggio, signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella veritá. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassú tra’ viventi, e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com’ella è. Coraggio, Eccellenza.
Nobile. Dammi del «tu» in tua malora, dammi del «tu»; ch’io scopromi alla fine perfettamente tuo eguale, se non anzi al disotto di te medesimo, dappoiché io non trovomi aver piú nulla, per cui mi paia di poter esiggere piú alcuno di que’ segni di rispetto e di riverenza, che mi si profondevano davanti quand’io era vivo.
Poeta. Come? Credete voi forse che i titoli che vi si davano e gl’inchini che vi si facevano lá sopra fossero segnali di rispetto e di venerazione, ch’altri avesse per voi? Oh! voi la sbagliate di molto, se ciò voi credete.
Nobile. Che eran egli adunque? Starommi a vedere ch’io mi viveva ingannato anche in ciò.
Poeta. Statemi bene ad udire. In che consiste il rispetto, che altri porta a qualche cosa o a qualche persona? nelle parole forse e in alcuni gesti determinati, o anzi in qualche sentimento, che altri provi nel suo animo per riguardo a quella cosa o a quella persona?
Nobile. Egli significa, se io però so bene quello ch’io mi dica, certi cenni e certe parole, che altri usa verso ad alcuno, da’ quali questi comprende d’esser onorato e venerato da colui che li fa.
Poeta. Voi v’ingannate. Il rispetto non è altro che un certo sentimento dell’animo posto tra l’affetto e la maraviglia, che l’uomo pruova naturalmente al cospetto di colui, ch’ei vede fornito d’eccellenti virtú morali o d’eccellenti doti dell’ingegno o del corpo. Questo sentimento per lo piú stassi rinserrato nel cuore di chi lo prova, e talvolta ancora per una certa ridondanza prorompe di fuora ne’ cenni o nelle parole.
Nobile. E quegli inchini, che mi si facevano, e que’ titoli, che mi si davano, non provenivan egli forse da cotesto sentimento che tu di’?
Poeta. Eh, zucche! Egli è passato in costume tra gli uomini che coloro, che sono arrivati a un certo grado di fortuna, volendo pure per eccesso della loro ambizione slontanarsi dalla comune degli altri mortali, si sono assunti certi titoli vuoti di senso, ed hanno richiesto da coloro, che avevan bisogno di essi, certi determinati atteggiamenti da farsi alla loro presenza. I capi de’ popoli sonosi prevaluti della vanitá de’ loro soggetti, ed hanno di questi segnali instituito un commerzio, per mezzo del quale i ricchi ambiziosi, cambiando i loro tesori, si comperano fumo e vanno imbottando nebbia. Gli sciocchi poi, i quali non pensano piú lá, dannosi a credere che coloro siensi comperati insieme co’ titoli e colle distinzioni anche il merito, il quale non si compera altrimenti, ma si guadagna colle sole proprie virtuose azioni. I savi non cascano però a questa ragna: e sebbene, per non andare a ritroso della moltitudine e comparir cinici o quacqueri, impazzano co’ pazzi, e non son avari di certe parole e di certi gesti, che voi altri richiedete e che la moltitudine vi concede, nondimeno in cuor loro pesano il rispetto e la stima sulla bilancia dell’orafo, e non la concedono se non a chi se la merita. Eglino fanno come il forestiere, il quale s’inchina agl’idoli della nazione, ov’egli soggiorna, per pura urbanitá; ma se ne ride poi e li beffeggia dentro di se medesimo. M’intendeste voi ora? Pensate voi ora che i vostri creditori, allorquando chini, come voti davanti un’immagine, pregavanvi della loro mercede, trammischiando ad ogni parola il titolo di «Eccellenza», avessero punto di venerazione per voi? Egli vi davano anzi mille volte in cuor loro il titolo di prepotente e di frodatore. E i vostri famigliari, che udivano e vedevano le vostre sciocchezze e le vostre bizzarrie taciti e venerabundi, oh quanto si ridevano in cuor loro della vostra melensaggine e della vostra stravaganza! E i filosofi e gli altri uomini di lettere, che v’udivan decidere così francamente d’ogni cosa...
Nobile. Deh! taci, te ne scongiuro; ché mi par proprio di morire la seconda volta, udendo quello che tu mi di’ e pensando ch’io ho aspettato nella sepoltura a sgannarmi della mia pecoraggine e della mia bestiale vanitá. Non ti par egli ch’io meriti compassione?
Poeta. No, io; anzi da questo momento io comincio a provare per voi quel sentimento di rispetto e di stima, ch’io vi diceva, considerandovi io per un uomo, che conosce perfettamente la veritá, che si ride della vanitá e leggerezza di coloro che credonsi di meritar venerazione per lo sangue degli altri nelle lor vene disceso, che s’innalzano sopra gli altri uomini soltanto perché ricordansi i nomi di piú numero de’ loro antenati che gli altri non fanno, che vantano per merito loro le azioni malvage de’ loro maggiori esiggendone rispetto, che usurpatisi la mercede delle belle azioni non fatte né imitate da loro per veruna maniera, e che finalmente figuransi d’essersi comperati i meriti insieme co’ titoli, ed assomigliansi a colui che credevasi di poter comperar per danari lo spirito divino.
Nobile. Deh, amico, perché non ti conobbi io meglio, quand’io era colassú tra’ vivi, che io non avrei aspettato a riconoscermi cosí tardi!
Poeta. Io ho tentato non poche volte di farvene accorgere, io, e con certe tronche parole e con certi sorrisi e con certe massime generali gittate come alla ventura, e in mille altre fogge; ma voi, briaco di vanagloria, badavate a coloro che v’adulavano per mangiar pane, e non credevate che un plebeo potesse saper giudicare di nobiltá e di cavalleria assai meglio che voi non facevate.
Nobile. Che volevi tu ch’io facessi, se tutto cospirava a far che s’abbarbicasse ognora piú in me questa mia sciocca e ridicola presunzione? Fa’ tuo conto che, al mio primo uscir delle fasce, io non mi sentii sonare mai altro all’orecchio, se non che io era troppo differente dagli altri uomini, che io era cavaliere, che il cavaliere dee parlare, stare, moversi, chinarsi, non giá secondo che l’affetto o la natura gl’ispira, ma come richiede l’etichetta e lo splendore della sua nascita. Cosí mi parlavano i genitori, egualmente vani che me; cosí i pedanti, che amavano di regnare in casa mia o di trattenermi ad onorar, com’egli dicevano, i loro collegi. Ma, prima che siemi impedito di parlar piú teco, cavami, ti priego, anche di quest’aitro dubbio. Egli mi pare che questa nobiltá, ch’io ho pur trovato essere un bel nulla, abbia contribuito sopra la terra a rendermi piú contento della mia vita: saresti tu di parere ch’ella pur giovi alcuna cosa a render piú felici gli uomini colassú?
Poeta. Io non vi negherò giá questo, quando la nobiltá sia colle ricchezze congiunta o colla virtú o col talento; perciocché anco i pregiudizi e le false opinioni degli uomini, qualora sieno a tuo favore, possono esserti di qualche uso e comoditá. Le ricchezze. unite in quelle circostanze che voi chiamate «nobiltá», fanno sí che voi vi potete servire di que’ privilegi, che co’ titoli vi furono conferiti, e cosí pascervi colla vana ambizione di poter essere in luogo donde gli altri sieno esclusi, e simili altre bagatelle. Che se la nobiltá è congiunta colla virtú, avviene di questa come delle antiche medaglie, che, quantunque la loro patina non renda intrinsecamente piú prezioso il metallo, onde sono composte, né migliore il disegno, onde sono improntate, nondimeno, per una opinione di chi se ne diletta, riescono piú care e pregiate. Ed io ho pur veduti alcuni dabbene cavalieri godersi del volgare pregiudizio in loro favore, per cosí aver campo di far parere piú bella la loro modestia e di far riuscire piú cari i loro meriti sotto a questa vernice dell’umana opinione; e, scambiando cosí i titoli e le riverenze co’ benefici e colle cortesie, mostrare la vera nobiltá dell’animo, e dar qualche corpo alla falsa, di cui finora teco parlai.
Nobile. Io non posso oggimai piú dir motto, conciossiaché i miei polmoni comincino a sdrucirsi e la lingua a corrompersi. Rispondimi a questo ancora. Credi tu che la nobiltá possa giovar qualche cosa, spogliata della virtú, della ricchezza e de’ talenti?
Poeta. Voi non vedeste mai il piú meschino uomo né il piú miserabile, d’un uomo spogliato in sola nobiltá. Egli può dire, come dicea quel prete alla fante, che scandolezzavasi per la cherca: —Spogliami nudo, e vedrai ch’io paio appunto un uomo. — Conculcato da’ ricchi, che in mezzo agli agi possono comperarsi i titoli quando vogliono e si ridono della sterile nobiltá di lui; disdegnato da’ sapienti, che compiangono in lui l’ignoranza, accompagnata colla miseria e colla superbia; sfuggito dagli artigiani, alla cui bottega egli non s’arrischia d’impiegare le mani; odiato dalle persone dabbene, che abbominano il suo ozio e la sua inettitudine; finalmente congedato da tutti coloro, ch’erano una volta suoi pari, i quali non soffrono d’ammetterlo nelle loro assemblee, cosí gretto e meschino, senz’oro, senza cocchi, senza servi e cose altre simili, che sono il sostegno e l’unico splendore della nobiltá, vien ridotto ad abitar tutto il giorno un caffè di scioperati, che il mostrano a dito e fannolo scopo de’ loro motteggi e delle loro derisioni. Cosí il vano fasto della sua nobiltá è cangiato per lui in infamia; e, per colmo della sua miseria e del suo ridicolo, gli restano tuttavia in mente e sulle labbra i nomi de’ suoi antenati. A questa condizione si accosta qualunque nobile famiglia, che decade dalla sua prima ricchezza e insieme dalla sua prima virtú, se la modestia o la filosofia non la sostiene.
Nobile. Oimè! che in cotesta condizione io ho lasciato i miei figliuoli colassú; e tutto ciò per colpa...
Poeta. Egli non può piú parlare; la lingua gli s’è infracidita. Riposatevi, Eccellenza, sul vostro letame. La lingua de’ poeti è sempre l’ultima a guastarsi. Beato voi, se colassú aveste trovato uno sí coraggioso, che avesse ardito di trattarvi una sola volta da sciocco! Se io avessi a risuscitare, io per me, prima d’ogni altra cosa, desidererei d’esser uomo dabbene, in secondo luogo d’esser uomo sano, dipoi d’esser uomo d’ingegno, quindi d’esser uomo ricco, e finalmente, quando non mi restasse piú nulla a desiderare, e mi fosse pur forza di desiderare alcuna cosa, potrebbe darsi che, per istanchezza, io mi gettassi a desiderar d’esser uomo nobile, in quel senso che questa voce è accettata presso la moltitudine.