Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione dal latino di Leon Battista Alberti (XV secolo)
XII secolo


Né tacere posso né a me il parlare è lecito. In odio mi sono le gru e gli urli e ciascuna voce luttuosa. Ed ècci chi dileggia qualunque dice il vero, tale che meglio forse fia il tacere. Vorrei adatarmi al vero, né molto mi curerei compiacere ad altri o dilettare le orecchie ad altrui. E veggo molti ghiottoni essere in grazia, perché compiacciono e dilettano ad altri. E quegli in prima sono gratissimi che sanno con sue fizioni e dolci narrazioni ingannarti. Pure non posso però tacere, né saprò darti tossico melato, né saprei condurti con varie parole. Adunche forse doverrei tacere. Ma poich’io conosco che in tempo saranno mordaci loro parole e piene di veneno, parmi da non tacere la verità. Se molti saranno persuasori della voluttà facundissimi ed eloquentissimi, e io ragionando della verità ti sia in fastidio, sarà egli da non tacere. Tra chi piglia diletto solo dell’altrui parole, gli spiacerà udirci, come cantare una oca fra i cigni. Pure quando che sia fu l’oca utilissima, e non permise la terra di Roma cadere in incendio e rapina. E se tu sarai prudente, non riprenderai il mio utile favellarti. Molti desiderano cose che paiono belle, quali a chi le considera sono mostri e chimere, quali hanno faccia di leone, ventre di capra e coda di drago; né veggo si possa tacere. Piacque ad Ulisse la voce della Serena; conobbe ancora i veneni di Circes: fu la virtù in lui quale fece evitarlo il pericolo. Credo e tu sperando in Dio, imitatore d’Ulisse e non d’Empedocle, quale non ben consigliato si commise in Enna, udirai e serverai le mie parole quale mi pare da non tacerle. Grande credo che sia l’incendio del tuo amore altrove, e della benivolenza verso di me, ma forse maggiore verso altrui. Né vorrei ti vincesse tanto che forse doverrei tacere: ma con quello animo favellerò col quale sono tuo: giudicane che ti pare: arai da riputarmi amico, e conoscerai che la benivolenza mia verso di te mi fa parlare.

La prima moglie del primo Adamo subito dopo la creazione dell’uomo nel suo primo peccato prima ruppe il digiuno, inobediente contro al Sommo Padre e Creatore: vizio ereditario a tutte le femmine e mai da poterlo purgare! E dicoti niuna esser pari contumelia, amico mio, a uno uomo quanto la moglie inobediente. Guarti Davit nella sacra storia chiamato beato, e di cui si dice: «trovai l’uomo secondo il mio cuore»; concitato da femmina, dopo l’adulterio cadde in omicidio; come mai pare vengano gli scandali soli, tanto può la iniquità coinquinare dovunche ella entri. Bersabes, taciturna e nulla maligna, non però restò d’essere stimolo a perversione e morte del suo perfetto e inocente marito. Chi spregi eloquenza come Dalila di Sansone, e bellezza come Bersabe, saranno elle nocive. Credimi, in te non sarà cuore più virile che allora fosse in Davit. Salomon, un sole in fra gli uomini e tesoro delle delizie di Dio, tutto sapienza, pure amando ottenebrò tanto lume di sapienza e tanta sua gloria per una femmina: inchinossi a Balaim e mutossi in zabulo per cadere maggiore precipizio che Fetonte. Quale era Apolline, e’ diventò pastore. Dicoti, amico, se non sarai più savio che Salamone, che so non potrai, non sarà che non possi essere fascinato da una femmina. Apri gli occhi. Quella che più raro si truova che fenice, buona femmina, potrai non amarla sanza amaritudine, paura, infortunio, sollecitudine. Maligno animale, in troppo gran copia datoci dalla natura, che si truovi luogo niuno da loro è vacuo; se tu l’ami, elle ti tormentano e godono per tenere te a sé, avere diviso te da te stesso e da tuo spirito. Solo in tanto numero Lucrezia e Penolope forse furono pudiche: ora Penolopes, Lucrezia e se alcuna fu tanta Sabina non si truovano; troverrai Siila, Mirra, Cilene e quanta vorrai turba esercitata in tutt’i vizi, qual sanno, e dilettagli tenere i suoi suggetti in profonda miseria. Giove re, detto poi Iddio, con quanta avesse amplitudine e dignità seguette Europa renduto in costumi bestiali e feroce. Fu grande Giove, e tu, credo, non però maggiore sarai di lui. Febo simile in terra con sue virtù al sole, pazzo amò Leucotea con infamia a sé e morte a lei. Marte fortissimo e ornatissimo d’infiniti trionfi, perduto in amore con Venere, fu legato da Ulgano con catene quale esso non vedea, ma certo le sentiva, e beffato da tutti gli dii satiri.

Adunque, amico, fingi a te Leucoten, e fingi le catene quale forse in parte senti e in tempo sono da rompere, e così fuggi inanzi che tu sia simile fatto a Ulgano, non dico zoppo, ma al tutto sciancato e debole... o potere fuggire a libertà. Pallas perché non permise dilettare, ma giovare, non fu accettata da quello falso giudice degl’Idii. Ma tu, che giudicio fia il tuo? Farmi vedere qui ti fastidia quello che tu leggi, né molto gustare la sentenza, ma più tosto aspettare qualche motto o dilicato detto: non aspettarlo in queste lettere. Conviene che i rivoli sieno non dissimile al fonte suo, chiari o torbi, così mie parole simile escono al core. Per questo conoscendo me stessi, forse non voleva dissuaderti; ma non potendo tacere, parlai. E se in me fusse tanta eloquenza quanto volontà, in questa materia ti parrebbe avere utile autore. Ma poiché ancora il tuo animo in parte è libero, e a me per nostra amicizia debbi non poco, priegoti me n’oda con pazienza ed esplicherotti cose utilissime. E non mi volere così esquisito oratore quanto confesso e duolmi non sono. Bastiti il vero udire da me e piacciati la mia buona volontà. Giulio Cesare, prencipe di tutte le cose, cadde perché poco a tempo fu sollecito conoscere quello gli scrivea il suo amico. Tu vero me udirai e consigliera’ti, e di te stessi arai cura e buon provedimento. A molti non giova esser facile e trattabile ove gli convenga sofferire, a cui sarebbe utilissimo prima aversi lasciato consigliare che necessità il premesse. A chi inconsiderato e ruinoso corresse nelle mani e nelle insidie de’ ladroni, chi sarebbe che lodasse amandolo sua sfrenata audacia e durezza di fronte? Credo a te agradirà e piacceratti avere udito, né sarà in te tanta contumacia che non degni la fede e sollecitudine di chi te ama e te vorrebbe essere felice. Gli altri errori giovano a renderne dotti ne’ nostri pericoli, e puossi sanza danno meglio correggere coll’altrui pericolo che col nostro: la nostra negligenza sempre nuoce.

Foroneo re, autore di molte e santissime leggi morendo disse a Leonzio suo fratello: «A essere felice a me nulla mancherebbe se mai avessi avuto moglie». Rispuosegli Leonzio: «Che nuoce avere avuto moglie?» Rispuose Foroneo: «Qualunche sia marito il sa, perché tutti il pruovano». Adunche non tu sarai quello uno a chi pure diletti essere marito. Valenzio imperadore in età d’anni ottanta vergine, mentre che molti trionfi e lode si promulgavano, «una sola mia», disse, «reputo gloria essere maggioreche qualunche di queste». E domandato rispuose questa essere che avea vinto la carne e sua inimicissima cupidità. Vuolsi come costui non pattuirsi a familiarità, ma ostare a tanta peste per vivere felice e morire glorioso. Cicerone repudiato ch’egli ebbe Terrenzia sua moglie, «Non poteva io», disse, «alla moglie e alla filosofia insieme darmi». Fia tua prudenza adunche non a me tanto, ma a Cicerone prencipe d’eloquenza dare orecchie. Cannio poeta, ripreso ch’egli amasse numero molte femmine, diceva piacergli avere qualche notte lieta e potere nella gravezza de’ pensieri alquanto respirare, però che vivere in perpetue tenebre era simile a giacere in inferno; così godere la natura ne’ tempi e nell’altre cose con sua varietà. Non però lodo chi se pari leghi con molti fili, né chi con una sola fortissima catena. A te piacerà più la vita libera che qual sia ottima scusa; ma pure così credo che meno nuocano molte piaghe piccole che una assidua e mortale. Paccuvvio si doleva con uno Arrio suo vicino: «Tengo nell’orto mio un arbore infilicissimo, al quale tre mie mogli s’impiccorono». Rispose Arrio: «Non mi maraviglio della furia loro, ma non so donde in te tanta fosse o stoltizia o inezia. Vorrei potessimo piantare nell’orto mio di quegli santissimi rami». Sulpizio rispuose a chi lo domandava per che cagione avesse fatto divorzio dalla moglie: «Questo mio calzare vedete quanto stia bene e bello; pure mi stringe e io so dove». A molti dole, ma tacciono non potendo deporlo. Prudente Cato disse: «Sarebbe la vita nostra pare agli Idii se fusse dataci sola sanza femmine». Vuoisi credere a chi prudente per pruova tutto conobbe. Piacciono i diletti di Cupido, ma sono mai sanza infinito dispiacere. Metello rispuose a Mario non volere la figliuola ricca, formosa, nobile e felice moglie, perché piuttosto voleva essere suo che d’altrui. A cui Mario ridisse: «Anzi sarà tua». E Metello: «Anzi conviene che l’uomo sia della moglie; ma così s’afferma che l’uno conviene che sia dell’altro». Prudente adunche chi questo conobbe e a sé provide. Ma se pure bisogna, prima considera che non t’è utile, poi vorrassi seguire l’amore, non il censo, la venustà, non le veste, i costumi e non le ricchezze. Al tutto fa che la donna si mariti, non tu a lei.

Lais corintia sopra l’altre bella solo ricettava principi e reali. Volle costei darsi a Demostene oratore e in premio domandava gran peso d’oro. Risposegli Demostene: «Non imparai comperare tanto un pentermi». E prudente chi saperà fuggendo più che pentendosi conoscerle e schifarle. Livia odiava il marito e ucciselo: Lucilia perché troppo l’amava, ancora uccise il suo, quella con veneno, questa con furore. Contrarie furono queste in volontà e fraude, pure furono femmine. Con varie e diverse fallacie in uno solo vizio comunicano i loro animi, che sono iniquissime, sempre sono maligne e malefiche. Vedesi essemplo di loro che amando e odiando sempre sono audace e bestiali; sempre parate a nuocere nuocono, e volendo giovare non raro ancora nuocono. Così adunche e volendo e non volendo pure nuocono. Deianira si vendicò, e quello era preparato a festività e letizia condusse a lagrime, e chi doveva vestirsi la camicia spogliò sua vita. Precipitosa femmina e sanza niuna sanità sempre reputa da seguire non quello che l’onestà e la ragione, ma quello che l’apetito persuade, e come gode piacere a tutti, così ostinata preferisce quello che a sé piace. Ercule con sue fatiche vittorioso, poi ch’ebbe superato infiniti terribilissimi mostri, solo da uno inumanissimo fu vinto: così e deplorando il suo caso e da essere deplorato finì, guasto da una femmina. Avea costui sostenuto il cielo con sue spalle, né però valse sostenere se stessi in dispregiare una vile femmina. Fallace femmine, che in sue risposte sempre sono ambigue, e negandoti sempre inframettono parole che paiono prometterti, e benché paiano negare, niuna mai niega. Contro alla copia dell’oro non valse la torre d’Acrisi, se bene interpetriamo, e Dannes per questo perdette sua pudicizia. Persino dal cielo vengono i corruttori della pudicizia, né uno solo vento commuove la quercia. Licia vergine in grande sua età e famosa, opressa d’Apolline dicono partorì Platone. Sicura forse fu costei vegghiando, non fu dormendo. Né ti maravigliare se come l’ape dell’ortica o altronde pigliano il mele, così io da queste favole deduca buoni essempli e argomenti. Ma molti increduli fuggono gli onesti essempli quali sono da notargli, non tanto dal lione e dallo eleofante tratti, quanto da un vile verme, massime quando il sentiamo in noi possino fare frutto. Non solo la fede e religione quanto ancora averci dissimili ne’ costumi a’ bruti animali rende noi civili e pregiati. Piacemi sopratutto ch’io abbi l’animo bene culto e ornato; ma né ancora mi pare non dovuto te porga civile. Né cosa tanto desidero in te quanto vederti giunto non a Venere, ma a Pallade, disgiunto e segregato da ogni consorzio femminile e tutto dato allo studio e investigazione delle cose occulte e preziose, e per questo ti scrissi un poco forse acerbo più che non aspettavi. Ma non reputare crudele quello medico la cui opera ti sani; né ti si conviene impigrire in quella incominciata tua via, quale bene che sia erta e laboriosa ti conduca in suprema cognizione di cose ottime e in buona filicità.

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