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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XL.
Lo schiavo prosegue la sua storia.
“Voi che accese di zelo e di nobile sdegno provaste la forza de’ vostri corpi; e del vostro e dell’altrui sangue imporporaste i flutti del mare o la polve dei campi:
“La vita prima del valore venne meno alle affaticate vostre braccia, le quali morendo ottennero la vittoria nell’atto stesso che rimanevano vinte;
“E in questa misera caduta mortale acquistaste tra le mura e la spada la rinomanza del mondo e la gloria eterna de’ cieli„.
— Tal quale lo so io pure, disse lo schiavo. — Quello per il Forte, se male non mi appongo, soggiunse il cavaliere, così è concepito:
“Dal mezzo di questa rocca e di questi bastioni rovesciati e distrutti, le sante anime di tremila soldati salirono vive a migliore soggiorno.
“Avevano prima esercitata invano la forza delle vigorose loro braccia, finchè stanchi e pochi resero la vita sotto la spada.
“Ecco il suolo a cui si attaccano mille ricordanze lagrimevoli de’ secoli andati e del tempo presente.
“Ma non mai dal suo duro seno salirono al cielo alme più pure, nè mai sostenne corpi più valorosi„.
Piacquero i sonetti, e si rallegrò lo schiavo per le nuove ricevute del suo camerata; poi proseguendo il racconto disse: “Pigliata la Goletta ed il Forte, i Turchi diedero commissione che si smantellasse la prima, non occorrendo tal precauzione per l’altro rimasto sì maltrattato da non lasciare quasi più parte alcuna da mandar a terra. Per accelerare questa operazione minarono da tre lati, ma da nessuna parte riuscì loro di far saltare in aria quello che pareva più debole, cioè le vecchie muraglie. Si smantellò con molta facilità quanto era tuttavia in piedi delle nuove fortificazioni fatte dal Fratino1: in fine l’armata tornò a Costantinopoli vincitrice e trionfante, e dopo pochi mesi passò fra gli estinti Ucciali il mio padrone, soprannominato Ucciali Fartax, che significa in lingua turchesca, il rinnegato tignoso, perchè era coperto di tigna; ed è costume dei Turchi di pigliare un soprannome o da qualche loro particolare difetto, o da qualche virtù di cui vadano adorni; e ciò deriva dal non esservi tra loro se non quattro nomi di famiglie le quali discendono dalla casa ottomana, e le altre, siccome ho detto, lo prendono sempre o da virtù o da difetti loro propri. Questo tignoso vogò al remo, schiavo del Gran Signore, pel corso di quattordici anni; pervenuto poi oltre i trentaquattro, per avere comodità di vendicarsi di uno schiaffo ricevuto da un Turco, rinnegò la sua fede. Sì grande fu il suo valore che senza ricorrere ai turpi mezzi ed a quelle indirette vie per le quali i più arrivano ad essere favoriti dal Gran Signore, salì sul trono di Algeri, e poi fu generale di mare, ch’è la terza dignità che si conferisce in quell’impero. Era Calabrese di nazione e buon uomo, trattando con grande umanità i suoi schiavi, che ascesero al numero di tremila; i quali poi, siccome ordinò col suo testamento, andarono ripartiti tra il Gran Signore (erede di quanti muoiono, e compartecipe insieme coi figli della sostanza che lascia il defunto) e tra i suoi rinnegati. Io toccai in sorte ad un rinnegato veneziano, ch’essendo piloto di una nave era stato fatto prigioniere dall’Ucciali, il quale lo amava sopra tutti gli altri suoi garzoni, e riuscì poi il più crudele rinnegato che sia stato giammai. Chiamavasi Azanaga; accumulò grandi ricchezze, e montò sul trono di Algeri. Ivi io l’ho seguito partendo da Costantinopoli alquanto contento di trovarmi sì vicino alla Spagna, non già perchè avessi intenzione di far saper a veruno l’infelice mia sorte, ma per non so quale speranza che in Algeri potesse riuscirmi ciò che in Costantinopoli m’era sempre fallito, dove avevo tentate infinite maniere di fuggire, ma tutte invano. Pensavo di rintracciare in Algeri altri mezzi di secondare gli ardenti miei voti, non avendo perduto giammai la speranza di riacquistare la libertà: e quando io vedeva mal riuscire l’intento da me immaginato, senza cadere di animo andavo studiando nuovi mezzi che alimentavano le mie speranze, tuttochè fossero deboli o inefficaci. A questo tristo modo io conduceva la vita, rinserrato in una prigione che i Turchi chiamano bagno, in cui stanno imprigionati gli schiavi cristiani, sì quelli che sono di proprietà del re, come gli altri che appartengono a private persone, e quelli che chiamano dell’Almazen, ch’è lo stesso che dire, schiavi del Consiglio, i quali servono la città nei lavori pubblici e in altri offizii. Molto difficilmente ottengono questi tali la libertà, perchè appartenendo al comune e non a particolari padroni, non si sa con cui trattare pel loro riscatto, se pure n’avessero i mezzi. In quei bagni dunque dove alcuni signori privati tenevano custoditi gli schiavi che miravano alla loro liberazione, io mi trovava, ed erano in mia compagnia anche alquanti schiavi del re i quali non sogliono escire colla ciurmaglia al lavoro se non quando comincia a perdersi la speranza del riscatto, o quando si crede che l’aumento delle fatiche possa farli più solleciti a comperarsi la libertà; nel qual caso, raddoppiano per costoro i lavori penosi, come a dire il far legna sulle montagne, ch’è insopportabile travaglio. Stavami dunque frammischiato con questi schiavi da riscatto: ed essendosi saputo il mio grado di capitano, ad onta che avessi dichiarato ch’io era povero e che dovevo quel posto a mille fatiche, mi collocarono nel numero dei cavalieri e della gente da molto prezzo. Mi posero una catena più per segnale di riscatto che per sicura custodia, e a questo modo io passava la vita tra quegli orrori con molti altri cavalieri e gente di qualità di cui si teneva certa la liberazione. Quello che più di tutto mi pesava sul cuore non era già la fame o la nudità da cui quasi sempre eravamo tutti travagliati, ma sibbene l’essere testimonio continuamente alle non più vedute e inaudite crudeltà che si esercitavano dal padrone contro i Cristiani. Ogni giorno ne facea appiccar qualcheduno; un altro impalare, ad un altro tagliar gli orecchi, e tutto ciò per cause di sì lieve momento, e così fuor di ragione che dicevano i Turchi stessi essere ciò per suo capriccio, e non per altro che per covar anima di fiera a danno del genere umano. La indovinò con costui un solo soldato spagnuolo, chiamato Saavedra, il quale benchè avesse fatte cose che rimarranno lungamente scolpite nella memoria di quelle genti per riacquistare la sua libertà, non gli diede, nè mai dar gli fece un colpo di bastone, nè gli disse mai un’aspra parola; anche pel più leggiero de’ suoi mancamenti noi avevamo gran timore che lo facesse impalare: timore da cui era colto egli pure. Se il tempo non mancasse io potrei contarvi molte imprese di questo soldato che vi desterebbero maraviglia; ma bisogna pur ch’io continui il mio racconto.
“Vi dirò pertanto che le finestre di un ricco Moro riuscivano sopra il cortile della nostra prigione, e potevano (come d’ordinario sono quelle dei Mori) piucchè finestre chiamarsi pertugi; tuttavia erano fornite d’inferriate grosse e strettissime. Accadde che un giorno mentre io stava in una loggia della nostra prigione con altri tre compagni esercitandoci a saltare colle catene per ingannare il tempo, ed eravamo soli per essere gli altri Cristiani al lavoro, alzando per caso gli occhi, vidi che sporgeva in fuori da quelle sì strette inferriate una canna, a capo di cui stava legato un pannilino; e la canna dimenavasi e movevasi quasi invitando di andare a pigliarla. Uno dei miei compagni andò a mettersi sotto alla canna per vedere se la calavano, o ciò che ne volessero fare: ma non vi fu appena sotto che la canna venne alzata e mossa da destra a sinistra per modo, come se chi la tenea avesse voluto dire, no, colla testa. Toltosi di là il cristiano, tornò quella ad essere abbassata; ed avendo un altro dei miei compagni fatto lo sperimento medesimo, riuscì come il primo. Si provò un terzo, ma con uguale successo. Vedendo questo volli io pure tentar la mia sorte, e non mi fui collocato appena disotto la canna, che fu questa lasciata cadere e venire ai piedi miei dentro al bagno. Affrettatomi a sciorre il pannilino vi trovai un nodo, dentro cui erano dieci ziani, moneta d’oro basso usata dai Mori ed equivalente a dieci dei nostri reali. Non occorre dirvi quale allegrezza n’abbia io provata; fu sì grande quanto la maraviglia in pensare da chi potesse derivare quel benefizio a me con tanta evidenza specialmente diretto. Presi il denaro, che giugnea molto a proposito, feci in pezzi la canna, me ne ritornai alla loggetta; poi volgendo gli occhi alla finestra, vidi che ne usciva una mano bianchissima che l’aperse e poi la richiuse rapidamente. Di qui conoscemmo od almeno immaginammo che da qualche donna che in quella casa viveva, quel benefizio si dovesse da noi riconoscere; ed in segno ch’era da noi aggradito facemmo alquante riverenze alla moresca, piogando la testa, chinando la persona e portando le braccia sul petto. Di lì a poco uscì della stessa finestra una piccola croce fatta di canne che tantosto si ritirò. Abbiamo dovuto congetturare a quest’indizio che in quella casa stesse rinchiusa qualche schiava cristiana che avesse voluto a quel modo beneficarci; se non che la bianchezza della mano e le smaniglie ch’erano attortigliate al braccio ci tolsero da tale supposizione, immaginandoci in vece ch’essere potesse qualche cristiana rinnegata; chè sogliono elleno essere prese per legittime mogli dai loro padroni, e l’hanno per gran ventura, essendo tenute in maggior conto delle nazionali.
“Ma noi andavamo a cogliere ben lungi dal vero; e dopo d’allora nostro unico trattenimento era guardare qual porto di sicurezza la finestra da cui era comparsa la stella di quella canna. Scorsero quindici giorni senza che più comparisse, nè la mano, nè verun altro segnale; e quantunque durante quell’intervallo di tempo cercassimo con ogni diligenza di sapere chi vivesse in quella casa, e se in essa vi fosse qualche Cristiana rinnegata, non ci venne fatto di scoprire se non che era abitata da un ricco e principalissimo Moro che chiamavasi Agi-Morato, già castellano dalla Patta, carica molto considerevole appresso quelle genti. Quando noi disperavamo di veder piovere mai più da quel pertugio altri ziani, ci ricomparve inattesa la canna ed altro pannilino attaccatovi con nodo più grosso, in un momento che il bagno era rimasto vuoto come la prima volta. Come allora vi andammo tutti e tre successivamente, restando io l’ultimo di tutti; ma la canna si piego per me solo. Sciolto il nodo, vi trovai quaranta scudi d’oro spagnuoli ed una lettera scritta in arabo, con una gran croce nell’alto dello scritto. Baciai la croce, pigliai gli scudi, tornai alla loggetta, facemmo tutti il nostro saluto, ricomparve la mano, ed io diedi segno che avrei letta la lettera, e incontanente si chiuse la finestra. Confuso e lieto restò ognuno di noi per quell’inattesa avventura; ma perchè nessuno intendeva l’arabo, la difficoltà di trovare chi lo leggesse andava di pari passo col desiderio di conoscerne il contenuto. In fine io mi determinai di fidarmi di un rinnegato nativo di Murcia che mi dimostrava una leale amicizia2, il quale tenea certificati delta sua bontà da tutti i nostri compagni (come sogliono procacciarsi i rinnegati quando hanno intenzione di ritornare fra’ Cristiani), ciò che c’impegnava a riporre in lui la nostra fiducia; tanto più che se i Mori gli avessero trovati indosso tali scritti lo avrebbero bruciato vivo. Erami noto che possedeva egli assai bene l’arabo, non solo per parlare ma anche per iscrivere in quell’idioma; tuttavia prima di aprirgli il mio cuore lo pregai che mi leggesse quel foglio facendogli credere di averlo trovato in una buca della mia nicchia. L’aprì egli e lo stette guardando per qualche tempo, indi si mise a leggere borbottando fra’ denti. Gli domandai se lo intendeva, ed egli mi rispose che lo leggea molto bene, e che me lo dichiarerebbe parola per parola purchè gli dessi penna e carta. Ebbe tosto quanto desiderava, si pose a tradurlo a poco a poco, e disse sul terminare del suo lavoro: — Quanto qui leggerete tradotto è ciò che contiene la lettera parola per parola, avvertendovi che dove sta scritto Lela Marien vuol significare Maria Vergine nostra Signora„. Prendemmo il foglio, ed era del tenore che segue:
“Quando io era bambina mio padre avea una schiava3 la quale m’insegnò nella mia lingua il rito cristiano, e molte cose mi disse di Lela Marien. Morì la Cristiana, ed io so che non andò al fuoco, ma con Alà; perchè due volte la vidi dopo la sua morte, e mi disse che fuggissi in terra cristiana a vedere Lela Marien che molto mi amava. Io non saprei in che modo andarvi, e da questa finestra ho veduto molti Cristiani, ma nessuno fuori di te mi parve cavaliere. Io sono molto bella e ragazza, ed ho molti danari da portar meco; guarda tu di fare in maniera che possiamo fuggire. Se ti piacerà tu diverrai mio marito; e, non volendo, non importa, perchè Lela Marien me lo troverà. Ciò ti scrivo, ma guarda bene a chi dài a leggere questa carta, nè fidarti di Moro alcuno, chè tutti sono traditori. Bada che mi dà gran pensiero la segretezza, perchè se mio padre giugnesse a scoprire che ti scrivo mi getterebbe in un pozzo, e mi coprirebbe di pietre. Io porrò un filo nella canna, tu attaccavi la risposta, e se non hai chi la scriva in arabo fammelo sapere con contrassegni, che Lela Marien mi concederà la grazia d’intenderti. Essa e Ala ti conservino, e questa croce che bado e ribacio, avendomi così ordinato la schiava„.
“Considerate, o signori, se v’era ogni ragione di maravigliarci e rallegrarci del contenuto di questa lettera; e tali in fatti furono la gioia e la maraviglia nostra, che il rinnegato si accorse che quella lettera non era trovata a caso, ma ch’era stata realmente diretta ad alcuno di noi. Ci chiese dunque che se il suo sospetto non era vano, ci fidassimo di lui e tutto se gli rendesse palese, essendo egli pronto a cimentare la vita per la nostra libertà. Detto questo, cavò dal seno un crocifisso di metallo che teneva nascosto, e spargendo copiose lagrime giurò per lo Dio rappresentato da quella immagine, in cui egli, tutto che peccatore indegno, bene e fedelmente credeva, di conservarsi leale e segreto in tutto che gli volessimo palesare, sembrandogli che per opera di quella che aveva scritta la lettera avessimo egli e noi tutti a ricuperare la libertà, e così trovarsi egli ancora in possesso di quanto ardentemente bramava, cioè di rimettersi nel grembo della santa Chiesa sua madre, dalla quale come membro infetto stava diviso per sua ignoranza e per suo peccato. Accompagnò il rinnegato con tante lagrime e con segni di sì gran pentimento le sue proteste, che noi tutti concordemente ci siamo persuasi d’informarlo del fatto, e perciò ogni cosa seppe da noi. Gli mostrammo il finestrino da cui compariva la canna, ed egli notando la casa, ci assicurò che avrebbe fatto in modo di sapere chi vi abitasse. Parve altresì che bisognasse allestire una risposta al biglietto della Mora, il rinnegato scrisse sul fatto ciò che io gli andava dettando, e furono le parole che ora vi riporterì fedelmente; perchè nessuno dei punti essenziali di questo avvenimento mi uscì di memoria, nè mi uscirà finchè avrò vita. In condusione ecco la mia risposta alla Mora:
“Il vero Alà ti conservi, signora mia, e quella benedetta Marien ch’è la vera madre di Dio, la quale ti pose in cuore il desiderio di rifuggirti in paese cristiano, portandoti singolare affezione. Pregala tu che si degni di farti sapere in qual modo potrai mandare ad effetto l’opera ch’essa ti comanda; poichè è opera buona: ed ella ti esaudirà senza dubbio. Io mi offro anche per parte di tutti i cristiani compagni di secondare i tuoi desiderii quand’anche dovesse andarne la vita. Non intralasciare di scrivermi e parteciparmi tutto quello che delibererai di fare, ed io ti risponderò sempre con esattezza; chè il grande Alà ci ha fatto conoscere uno schiavo cristiano, il quale parla e scrive la tua lingua sì bene, come potrai comprendere da questa lettera: in tal maniera senza verun timore puoi farci sapere ogni tuo desiderio. Ti fo promessa da buon cristiano di prenderti, giunti che saremo come tu accenni in terra cattolica, per mia legittima sposa; e tu sai che i Cristiani meglio che i Mori adempiono le loro promesse. Alà e Marien sua madre ti custodiscano, signora mia„.
“Scritta e suggellata la lettera, attesi due giorni finchè gli schiavi, come al solito, fossero usciti del bagno, e mi recai tosto all’usato terrazzino per vedere se compariva la canna, che in fatti non tardò molto a farsi vedere. Non mi si presentò appena, che senza esaminare chi fosse che la facea comparire mostrai la lettera come per far intendere che volevo attaccarla al filo pendente dalla canna. Vi legai la mia carta e indi a poco tornò a farsi vedere la nostra stella con la bianca bandiera di pace, il picciolo fazzoletto. La lasciò cadere; io la raccolsi, e sciolto il nodo vi trovai oltre cinquanta scudi in varie monete d’oro e d’argento, i quali furono cinquanta accrescimenti di consolazione a me ed a’ miei compagni, confermandoci nella speranza di ricuperare la libertà. Tornò in quella notte medesima il nostro rinnegato, e ci riferì di avere saputo che in quella casa abitava il Moro già detto, il quale chiamavasi Agi-Morato, ricchissimo quanto potesse mai dirsi; che aveva una sola figliuola erede dell’intiera sua facoltà; e che per la città correva voce essere essa la più bella fra le donne di Barberia, sì che molti dei vicerè che vi arrivavano chiesta l’aveano in moglie, ma ella non avea voluto mai maritarsi4; e seppe ancora che ebbe una schiava cristiana la quale da poco tempo era morta. Tutta questa relazione confrontavasi col contenuto della lettera. Ci ponemmo allora a consiglio col rinnegato intorno al modo ch’era da prescegliersi per trarre la Mora di casa sua e farci tutti suoi compagni nella fuga in terra cristiana; e fu preso il partito di aspettare il secondo scritto di Zoraida, che così si chiamava quella che presentemente vuol essere nominata Maria. Conoscevamo chiaramente che non da altri che da lei partir poteva lo scioglimento delle difficoltà che si opponevano al nostro divisamento. Adottato questo consiglio, ci ripetè il rinnegato di star di buon animo, perchè egli a costo di perdere la vita ci procurerebbe la libertà.
“Passarono quattro giorni senza che uscissero gli schiavi del bagno, il che fu cagione che per altrettanto spazio di tempo non ricomparisse la canna; a capo dei quali giorni, trovandosi il bagno deserto, comparve il pannilino sì pregno che prometteva un felicissimo parto. Piegossi verso di me direttamente la canna e il pannilino, e vi trovai un’altra lettera con cento scudi d’oro effettivi. Era presente il rinnegato cui demmo a leggere la lettera, dopo esserci ritirati nella nostra stanza, ed era concepita nei termini seguenti:
“Io non so, signor mio, quale partito indicarti per la nostra fuga in Ispagna, nè Lela Marien me lo ha fatto sapere ancorchè glielo abbia io dimandato. Tutto quello che potrò fare si è calar giù da questo mio finestrino gran quantità di danari in oro. Procura tu con essi il riscatto dei tuoi amici. Uno di loro vada poi in terra di Cristiani, comperi una barca e torni a prendere i suoi compagni, ed io mi troverò nel giardino di mio padre ch’è situato subito fuori della porta di Bab-Azoun presso la marina, dove soglio soggiornare la state intera in compagnia del padre e dei miei servitori. Di notte tempo potrai venirmi a prendere con tutta sicurezza e condurmi alla barca; ma bada bene che devi essere mio marito, perchè in caso diverso pregherò Marien che ti punisca. Se non hai di chi fidarti che vada a comperare la barca, fa di riscattarti tu stesso, e vattene solo, chè ritornerai più avvertitamente e più presto d’ogni altro, essendo cavaliere e cristiano. Procura d’informarti dov’è situato il giardino, e di farmi sapere quando ti trovi solo nel bagno, ed io ti darò molto denaro. Alà ti conservi, signor mio„.
“Era questo il contenuto della seconda lettera; sentita la quale ognuno si offrì a voler essere riscattato promettendo di andare e di ritornare fedelmente; ed io pure mi offersi a tutto questo. Il rinnegato a tutto si oppose, protestando di non voler consentire che uno solo di noi procurasse il proprio riscatto finchè non lo avessimo tutti insieme. La sperienza gli aveva insegnato quanto difficilmente i liberati mantenessero la parola data mentre erano schiavi. Soggiunse che già molti altri esempi vi erano di schiavi che dovovano ritornare in servigio de’ loro compagni, e più non tornarono; perciocchè la libertà ricuperata ed il timore di perderla nuovamente, cancellava a tutti dalla memoria qualsivoglia grande obbligo. E raccontò in prova un caso recente stranissimo, dicendo in conclusione che il danaro disposto pel riscatto del Cristiano dovesse darsi a lui per comperare una barca in Algeri, ciò ch’egli effettuerebbe fingendo di essere mercatante che avesse affari in Tetuano e in quella costa, dopo di che troverebbe agevolmente modo di farci fuggire tutti dal bagno e di prenderci tutti con lui5. Oltre di che disse, se la Mora, come faceva credere, somministrerà il contante pel riscatto di tutti, allora essendo voi liberi potrete imbarcarvi anche di bel mezzogiorno; ed aggiunse la maggiore difficoltà che gli si parava dinanzi essere quella, che i Mori vietano ai rinnegati il posseder barche qualora non sia un gran vascello, temendo che quello che ne fa l’acquisto (s’è Spagnuolo singolarmente) nol faccia per altro che per rifuggirsi in terre cristiane. Ci assicurò nondimeno che toglierebbe anche quest’inciampo, facendo che un Moro di Tenger partecipasse con lui nell’interesse della barca e nel guadagno delle mercatanzie, e con questo ripiego verrebbe ad essere padrone della barca, lo che riuscendogli assicurava dell’esito il più fortunato nell’impresa.
“Benchè a me ed a’ compagni miei paresse miglior partito quello d’inviare a Majorica per la compera di essa barca, come consigliato aveva la Mora, non abbiamo nulla ostante osato di contraddirgli, temendo che una nostra opposizione non ci scoprisse, e ci mettesse a pericolo di perderci affatto, rendendo anche palese quanto aveva fatto Zoraida per la quale avremmo tutti dato la vita. Ci determinammo perciò di metterci nelle mani di Dio ed in quelle del rinnegato, rispondendo in quello stesso momento a Zoraida che avremmo seguito il suo consiglio avendolo considerato sì buono come se le fosse venuto da Lela Marien, e che dipendeva da lei sola il ritardo o la celerità dell’esecuzione del nostro tentativo. Mi offersi nuovamente di esserle sposo; e dopo tutto questo un altro giorno in cui era nel bagno l’usata solitudine, in più riprese col mezzo della canna e del pannilino ci fece essa arrivare duemila scudi in oro ed una lettera in cui diceva che al primo sciuma (che è il giorno di venerdì) sarebbesi recata al giardino di suo padre, e che innanzi alla nostra fuga ci avrebbe somministrati altri danari; aggiungendo che se non bastassero ancora, glielo facessimo sapere che essa ci avrebbe forniti di quanto le avessimo chiesto, come colei che teneva la chiave del tesoro di suo padre, sì grande che, per quanto ella ne levasse, non sarebbe mai possibile avvedersene. Ebbe tantosto il rinnegato da noi cinquecento scudi per comperar la barca: ottocento servirono pel mio riscatto, dando il danaro ad un mercatante di Valenza che trovavasi allora in Algeri, ed il quale mi ricomperò dal re, guarentendo sulla sua persona che col primo vascello procedente da Valenza sarebbe pagato il mio riscatto. Così fu mestieri di regolarsi perchè se avesse sborsato il danaro sul fatto, avrebbe destato nel re il sospetto che già da molto tempo fosse stato in Algeri l’occorrente per liberarmi, e che il mercatante lo avesse trattenuto per qualche suo fine. Era in fatti sì cavilloso il mio padrone, che non mi avventurai ad alcun patto di fare così tosto lo sborso. Il giorno innanzi al venerdì in cui la bella Zoraida doveva recarsi al giardino, ci diede altri mille scudi, e c’informò della sua partenza, pregandomi che, seguito il riscatto mio, m’instruissi della situazione del giardino di suo padre, e cercassi ad ogni modo l’occasione di vederla. Le risposi brevemente che farei quanto essa mi ordinava, e che ci raccomandasse tutti a Lela Marien con le orazioni che la schiava le aveva insegnate. Falto ciò, si pose ordine al riscatto dei tre nostri compagni per agevolare la fuga del bagno, ed anche per ovviare che non vedendosi liberati, mentre io già lo era, o mormorassero o fossero consigliati dal maligno spirito a qualche atto pregiudizievole a Zoraida. Tuttochè a liberarmi da ogni timore bastasse la piena cognizione delle loro qualità, non volli avventurare in modo alcuno la buona riuscita di sì grande affare; e quindi li feci riscattare colla stessa cautela usata per conto mio, consegnando al mercante la somma occorrente perchè con cuore sicuro offrire potesse la necessaria sua guarentigia. Nulla però abbiamo scoperto a lui del nostro segreto, perchè troppo grande era il pericolo che poteva provenire.
- ↑ Fu costui Giacomo Paleazzo al servizio di Carlo V e di Filippo II.
- ↑ Chiamavasi Morato Raez Maltrapillo; il quale salvò dal castigo e fors’anche dalla morte il Cervantes quando nel 1579 tentò di fuggire.
- ↑ Giovanna di Renteria di cui il Cervantes fa menzione in una sua commedia.
- ↑ Il Cervantes dice poi nella Commedia Los Banos de Argel che quest’unica figliuola d’Agi-Morato sposò Muley-Maloch che nel 1576 fu fatto re di Fez. Il P. Haedo nella sua Epitome e Antonio de Herrera nella Storia del Portogallo confermano questa asserzione.
- ↑ Tutte queste sono allusioni ai casi veri del Cervantes.