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Traduzione dallo spagnolo di Bartolommeo Gamba (1818)
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CAPITOLO XXXIX.
Vita ed avventure dello schiavo.
“Ordinando egli a me, maggiore di età, che rispondessi pel primo, cominciai dal dirgli che non rinunziasse alle sue facoltà se prima non se ne fosse valso a proprio talento, essendo noi altri giovani troppo per utilmente amministrarle; e passai poi a concludere che avrei servito al suo desiderio, perchè la mia inclinazione mi portava all’esercizio dell’arme, servendo così ed a Dio ed al re mio signore. Lo stesso gli fu risposto dal secondo fratello, il quale scelse di portarsi alle Indie, seco recandosi quanto gli fosse toccato in parte. Il minore, a quanto io reputo, più sensato degli altri, disse che amava di abbracciare lo stato ecclesiastico, e d’andar a compiere in Salamanca gli studii già cominciati. Terminato che avemmo di accordarci e di scegliere i rispettivi nostri esercizii, ci abbracciò tutti il nostro genitore, ed in brevissimi giorni diede esecuzione a quanto ci aveva promesso consegnando ad ognuno la parte sua, che, per quanto mi sovviene, furono tremila ducati in contante; ed acquistato avendo un nostro zio la intera facoltà, n’eseguì il pagamento in effettivo danaro, affinchè la sostanza non uscisse dal ceppo della famiglia. Ci licenziammo tutti e tre dal nostro buon padre in un medesimo giorno; e parendo a me che fosse poco umana cosa lasciare un vecchio genitore con facoltà sì meschina, l’obbligai a togliersi duemila ducati del mio, bastandomi il rimanente per provvedermi quant’erami duopo ad esercitar il mestiere del soldato. Mosse il mio esempio gli altri due miei fratelli; sicchè diede ognuno di essi al padre mille dei suoi ducati: e così gli restarono quattromila ducati in contante, in aggiunta ai tremila che sembrava loro valer potesse la facoltà ritenutasi in beni stabili. Venne l’istante del nostro distacco da lui e da quel nostro zio, e ciò fu non senza amarezza e pianto comune; e la madre pregavaci che le facessimo sapere, semprecchè ne avessimo l’opportunità, ogni nostro avvenimento fortunato od avverso che fosse. Fatta questa promessa, ed abbracciatici tutti ed avuta le paterna benedizione, l’uno si diresse a Salamanca, l’altro si volse a Siviglia, ed io presi la via di Alicante, avendo saputo che colà era pronta alla vela una nave diretta a Genova con un carico di lana. Saranno ventidue anni da che mi tolsi dalla casa del padre; nel corso dei quali, tuttochè io abbia scritte alcune lettere, nulla più seppi nè di lui nè dei miei fratelli, e brevemente vi narrerò adesso ciò che mi avvenne in questo tratto di tempo.
“Imbarcatomi in Alicante arrivai a Genova con prospero viaggio, e di là mi portai a Milano dove mi provvidi d’arme e di ogni foggia di guerresco ornamento; e di là mi piacque di andare ad arruolarmi negli eserciti del Piemonte: se non che poi avendo inteso, cammin facendo verso Alessandria della Paglia, che il gran duca d’Alba passava nelle Fiandre, cangiai risoluzione, e mi posi al servigio di lui nelle guerre che fece. Mi trovai presente alla morte dei conti d’Eguemon ed Hornos, e giunsi ad essere alfiere di un celebre capitano di Gualdalasciara, chiamato Diego d’Urbina1. Dopo qualche tempo ch’io militava nelle Fiandre s’ebbero nuove della lega fatta dalla Santità di Pio V, di felice memoria, con Venezia e Spagna contro il nemico comune ch’è il Turco; il quale a quel tempo stesso, armata mano, aveva tolta la famosa isola di Cipro ai Veneziani: perdita deplorabile e disgraziata. Seppi senza poterne dubitare che il generale di questa lega doveva essere il serenissimo don Giovanni d’Austria fratello naturale del nostro buon re don Filippo, e divulgossi tosto il grandissimo apprestamento di guerra che si faceva. E tanto quella notizia m’incitò e commosse l’animo, che per desiderio di trovarmi nella giornata che con grande impazienza era attesa da tutti, sebbene io avessi fondate, e posso dire, quasi certe speranze di essere promosso nella prima occasione al grado di capitano, tutto abbandonai ad oggetto di portarmi in Italia; e volle la mia buona sorte che il signor don Giovanni d’Austria fosse di recente arrivato a Genova per indi passare a Napoli ad unirsi coll’armata dei Veneziani, siccome poi fece a Messina. Nella giornata più avventurosa che abbiano avuto le armi cristiane, io salii al grado di capitano di fanteria, e più che ai miei meriti ho dovuto un tal posto alla mia buona fortuna; ma io solo fui poi lo sfortunato in quel giorno che riescì per la cristianità si felice, essendosi disingannato il mondo intero dell’errore in cui stava che i Turchi fossero invincibili in mare. In quel giorno dunque in cui l’orgoglio e la superbia ottomana rimasero fiaccati, tra tanti avventurati che vi furono (perchè sorte migliore ebbero i Cristiani che caddero estinti, degli altri che vivi e vincitori uscirono dalla battaglia), io mi trovai infelicissimo. In cambio di riportare una navale corona, come sarebbe avvenuto ai tempi di Roma, nella notte che seguitò al dì della vittoria, mi trovai colle catene ai piedi e coi ceppi alle mani; ed ecco in qual modo. Avendo l’ardito e fortunato Ucciali re d’Algeri investita e presa la capitana di Malta, dove non sopravvissero se non tre cavalieri, anch’essi gravemente feriti, accorse per darle aiuto la capitana di Giannandrea Doria, dove io mi trovava colla mia compagnia. Facendo ciò che m’indicava il dovere in somigliante occasione, io saltai nella galea nemica, la quale, allontanandosi da quella da cui era stata investita, impedì ai miei soldati di seguitarmi, e per tal modo io restai solo in mezzo a nemici tanto numerosi che si rese inutile ogni mia resistenza. In fine carico di ferite mi arresi, e poichè siccome avrete già inteso dire, o signori, l’Ucciali si pose in salvo coll’intera sua squadra, io venni quindi a restare in suo potere, e fui solo doglioso fra tanti contenti, e solo schiavo fra tanti tolti alle catene: chè furono quindicimila i Cristiani che ricuperarono in quel dì memorando la libertà dopo essere stati vogatori al servigio dell’armata turchesca. Mi condussero a Costantinopoli dove il gran signore Selim fece generale di mare il mio padrone per avere dati contrassegni di bravura nella battaglia, riportato avendo a prova del suo valore lo stendardo della religione di Malta. Mi trovai in Navarino nell’anno secondo, che fu del settantadue, vogando nella capitana dei Tre fanali. Io potei vedere e notare l’occasione quivi perduta di prender nel porto tutta l’armata turchesca; perchè i levantini e i giannizzeri che la equipaggiavano, tenevano per indubitato di essere investiti dentro al porto medesimo, ed avevano pronte le robe e i passamachi (che sono le loro scarpe) per fuggire per terra senz’aspettare l’assalto: sì grande timore avevano essi della nostra armata. Dispose però il cielo altrimenti, non già per colpa o disattenzione del generale che comandava ai nostri, ma per i peccati della crislianità, e perchè vuole e permette Iddio che abbiamo sempre sopra di noi qualche ministro delle sue vendette. L’Ucciali dunque potè ritirarsi a Modone, ch’è un’isola presso a Navarino, e lasciando in terra le milizie, fortificò la bocca del porto standosene inerte fino al ritorno del signor don Giovanni. In qnesto viaggio avvenne il conquisto della galea, chiamata la Presa, capitano della quale era un figlio del famoso corsaro Barbarossa. Fu essa pigliata dalla capitana di Napoli, chiamata la Lupa, comandata da quel fulmine di guerra, dal padre dei soldati, dal fortunato e non mai vinto capitano don Alvaro de Bazan, marchese di Santa Croce; nè voglio ommettere di farvi sapere ciò che avvenne nel conquistare la Presa. Era sì crudele il figlio di Barbarossa, e faceva sì mal trattamento dei suoi prigionieri, che vedendo gli schiavi al remo che la galera, la Lupa, andava per abbordarli, e che loro era già addosso, tutti abbandonarono il remo e presero il loro capitano che stavasene all’albero fra la poppa e la corsia, gridando che si vogasse a tutto potere; e gettandolo da un banco all’altro, e da poppa a prora, gli diedero tanti morsi che discosto un passo dall’albero piombò l’anima sua all’inferno: conseguenza, come si è detto, della crudeltà con cui trattava, e dell’odio che tutti gli portavano. Ritornammo a Costantinopoli, e nell’anno successivo si venne a sapere che il signor don Giovanni avea conquistato Tunisi, tolto ai Turchi quel regno e messovi in possesso Muley Hamet, troncando la speranza di rimontare sul trono a Muley Hamida, il più valoroso Moro che il mondo abbia veduto.
“Il sultano sentì al vivo una tanta perdita, ma usando della sagacità propria di tutti quelli della sua casa, stipulò la pace coi Veneziani, che più di n’erano desiderosi; e l’anno seguente 1574, assaltò la Goletta ed il Forte che don Giovanni aveva lasciati mal difesi presso Tunisi. In mezzo a tanti avvenimenti, io condannato al remo, non avevo speranza alcuna di riacquistare la libertà, od almeno non mi attendeva di conseguirla col mezzo del mio riscatto, essendo risoluto di non far sapere a mio padre la mia disavventura. La Goletta si arrese ed anche il Forte; contro le quali piazze eranvi settantacinquemila soldati turchi pagati, e più di quattrocentomila tra Mori ed Arabi di tutte le nazioni dell’Affrica, e con essi tante munizioni e tanti strumenti di guerra e tanti guastatori, che colle mani gettando pugni di sabbia avriano potuto seppellirle. La prima a cedere fu la Goletta tenuta fin allora per inespugnabile: e non si perdette già per colpa dei suoi difensori, i quali fecero prodigi di valore, ma perchè l’esperienza fece conoscere quanto facilmente potevansi alzare trincee in quella deserta arena, dove a due palmi sotterra si trovò l’acqua che i Turchi non seppero discoprire a due canne di profondità. Con molti sacchi di sabbia levarono dunque le trincee tant’alto che sormontavano le mura della fortezza, e tirandovi a cavaliere toglievano agli assediati ogni mezzo atto alla propria difesa. Fu universale opinione che i nostri non avrebbero dovuto chiudersi nella Goletta, ma attendere in campagna aperta lo sbarco dei nemici: ma questo è un ragionare proprio di chi è lontano ed ha poca sperienza di simili fatti; perchè se soli sette mila soldati erano alla difesa e della Goletta e del Forte, come poteano in sì piccolo numero, per quanto essi fossero valorosi, uscire in campagna e cimentarsi in confronto di sì grande quantità di nemici? E come può non restare soccombente una fortezza priva di ogni soccorso, tanto più se viene assediata da una moltitudine di accaniti nemici, e nel loro stesso paese? Parve però a molti, ed a me pare ancora, che fosse gran mercè del cielo e fortuna della Spagna il precipitare che fece quella officina, centro di malvagità, e quella voragine o spugna fatta per assorbire un’infinita quantità di danari, che si disperdevano senza profitto e senza altro oggetto che di conservare la memoria del conquisto fattone dalla felicissima memoria dell’invittissimo Carlo V; quasi che a farla eterna, com’è, e sempre sarà, fosse stato necessario che avesse ad essere sostenuta da quelle pietre. Si arrese eziandio il Forte, che fu guadagnalo palmo a palmo dai Turchi, mentre i soldati che n’erano alla difesa, pugnarono con tanta gagliardia e con tanto valore, che in ventidue assalti generali sostenuti restaronvi estinti più di venticinquemila nemici. Non fecero prigione uom sano dei trecento che vi rimasero: prova evidente ed indubitabile di lor gagliardia e costanza, e del distinto merito con cui si erano difesi. Si arrese a patti un piccolo forte o torre situata alla metà dello stagno, comandata da don Giovanni Zanochera, cavaliere di Valenza e famoso soldato, e si fece prigione don Pietro Portocarrero, generale della Goletta, il quale adoperato aveva ogni industria per difenderla; e tanto dolore gli arrecò il perderla, che ne morì mentre lo conducevano prigioniere a Costantinopoli. Restò eziandio in ischiavitù il generale del Forte, che chiamavasi Gabrio Serbelloni, cavaliere milanese, grande ingegnere e soldato valorosissimo. Perirono in queste due fortezze molti ragguardevoli personaggi, uno dei quali fu Pagano Doria cavaliere dell’abito di San Giovanni, di animo generoso; di che n’è stata prova la somma liberalità da esso usata a favore di suo fratello il famoso Andrea Doria: e ciò che rese più lagrimevole la sua morte si fu l’essere stato ucciso da alcuni Mori, ai quali si era affidato, poichè vide perduto il forte, e che se gli offrirono di condurlo in abito di Moro a Tabarca, ch’è un piccolo porto o casa tenuta dai Genovesi in quella riviera, ed ove si esercitano nella pesca del corallo. Troncarono la testa al capo dei Mori, e la offrirono di poi al generale dell’armata turchesca, il quale rese sempre più vero il nostro proverbio castigliano: Che quantunque piaccia il tradimento, si abborrisce sempre il traditore; che il generale fece appiccare chi gli recò quel presente per non averglielo portato vivo. Fra i Cristiani che rimasero vittime nel Forte, uno si fu don Pietro l’Aghillar, nativo di non so qual paese d’Andaluzia, già alfiere nel forte stesso, soldato di molta considerazione e di raro intelletto, e che aveva altresì molta grazia e spontaneità nella poesia. Io aggiungo questa particolarità perchè il suo destino lo trasse alla mia galea e al mio banco, e lo fece schiavo del mio stesso padrone. Prima che noi salpassimo da quel porto compose questo cavaliere due sonetti a foggia di epitafi, uno per la Goletta, e un altro pel Forte, e in verità che ve li voglio recitare avendoli a memoria, persuadendomi che potranno recare diletto piuttosto che noia.
“Quando lo schiavo nominò don Pietro d’Aghillar, don Fernando guardò i suoi compagni, e tutti tre ne sorrisero: e quando parlò dei sonetti disse uno di loro: “Prima che vossignoria li reciti, favorisca dirmi ciò ch’è avvenuto di questo don Pietro. — È a mia cognizione, rispose lo schiavo, che dopo due anni passati in Costantinopoli, fuggì in abito d’Arnauta2 con un greco esploratore, ma non so se abbia ricuperato la libertà, lo che però credo avvenuto, giacchè dopo oltre un anno ho veduto il Greco in Costantinopoli, ma non mi venne fatto di domandargli l’esito di quel viaggio. — Gli andò bene il tentativo, rispose il cavaliere. Sappiate che questo don Pietro è mio fratello, e trovasi al presente in patria sano, ricco ed ammogliato con tre figliuoli. — Sia lode al cielo, disse lo schiavo, pel favore che gli ha concesso, non essendovi quaggiù alcun contento che a quello si agguagli di ricuperare la libertà perduta. — E c’è di più, replicò il cavaliere, che so a memoria i sonetti composti da mio fratello. — Li faccia sentire la signoria vostra, disse lo schiavo, che li reciterà meglio di me. — Ben volentieri, soggiunse il cavaliere: quello per la Goletta è il seguente: