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Questo testo fa parte della raccolta Poesie inedite (Pellico)


EBELINO.





Cantica.

L’idea di questa Cantica non è tutta mia. Il tema vennemi fornito da un romanzo storico tedesco, ch’io lessi già tempo, e di cui ignoro l’autore. Il merito letterario di quel libro mi pareva debole, ma il personaggio d’Ebelino vi spiccava con tratti forti, e mi rimase vivamente impresso nella fantasia, come nobile modello di pazienza ne’ dolori. Ivi narravasi d’Ebelino, non so con qual fondamento, ch’ei fosse un povero cavaliero scacciato nell’adolescenza con atroci minaccie di morte da sette disumani fratelli, e divenuto uno de’ liberatori della regina Adelaide. Questo giovane prode passato in Germania coll’illustre vedova di Lotario, allorch’ella sposò in seconde nozze Ottone I, dipingevasi dal mio autore quale un nuovo Giuseppe alla corte d’Egitto, potentissimo e sapientissimo; e a fine di meglio somigliare al vicerè di Faraone, Ebelino scopriva anche i suoi fratelli, venuti d’Italia a Bamberga senza che immaginassero chi egli fosse, e perdonava loro. Conservata alcun tempo la sua alta fortuna sotto Ottone II, cadeva poscia vittima d’un traditore collegato a molti invidi rivali; ma il traditore stesso, agitato da visioni spaventevoli, confessava indi a poco l’innocenza dell’immolato Ebelino.






EBELINO.





Si bona suscepimus de manu Dei, mala
     quare non suscipiamus ?

(Job. 2. 10).



Inno d’amore e di compianto al giusto,
     Al giusto denigrato! Ebelin, fido
     Campion del magno Ottone e consigliero,
     Colui che al generoso Imperadore
     5Verità generose favellava,
     E i biasimati torti indi con mente
     Pronta e amorevol correggea e sagace;
     Colui, che, senza ambizïon nè orgoglio,
     Spesso invece del sir ponea la destra

     10Al timon dell’impero, e lo volgea
     Del sir con tanta gloria e securanza,
     Che questi, anco in cimento arduo serrando
     Le auguste ciglia al sonno, a lui dicea:
     « Vigila or tu, che il signor tuo riposa »;
     15Quell’Ebelin, che, lagrimato il sacro
     Cener del magno Otton, d’Otton novello
     Fu parimente lunghi anni sostegno
     Di giustizia nel calle, e guida e sprone;
     Sì che a nessun parea che dilettoso
     20Ne’ poveri tuguri e nelle sale
     Fervesse crocchio, ove lodato il nome
     Non fosse d’Ebelin, — quell’Ebelino
     Morì esecrato, ed era giusto! Amore
     E compianto agli oppressi!
                                                             Un dì l’Eterno,
     25Come a’ giorni di Giobbe, al suo cospetto
     Avea tutti gli spirti, e a Sàtan disse:
     — Onde vieni ?
                                      E il maligno: — Ho circuita
     Dell’uom la terra, e non rinvenni un santo.
          Ed il Signore: — O di calunnie padre,
     30Non vedestù l’amico mio Ebelino,
     Ch’uomo a lui simil non racchiude il mondo,
     Tanta in prosperi di serba innocenza ?

     E l’angiol di menzogna ambe le labbra
     Si morse, e crollò il capo, e disdegnoso
     35Disse: — Ebelin? Dov’è il suo pregio? Ei t’ama
     Perchè di beni è colmo. Il braccio or alza,
     Percuotilo, e vedrai s’ei non t’imprechi.
          Ed il Signor: — Giorni di prova a’ retti
     Forse non io so stabilir? Va; pongo
     40Entro a tue mani dispietate or quanto
     Agli occhi della terra Ebelin porta,
     Fuorchè la vita.
                                          L’avversario allora
     Avventossi precipite dal grembo
     Della nembosa nube, onde i mortali
     45Atterrìa lampeggiando; ed in un punto
     Fu su roccia dell’alpi. Ivi gigante
     Si soffermò, e da questo lato i campi
     Della lieta penisola mirando,
     E dall’altro le selve popolose
     50De’ boreali, l’una all’altra palma
     Battè plaudendo al sovrastante lutto
     D’entrambo i regni, ed esclamò: — Vittoria!
          La più squisita voluttà del male
     Pensò un momento qual si fosse, e al giusto
     55Fermò ignominia cagionar per mano. . . .
     Di chi? — D’amico traditore! Il colpo

     Più doloroso e a dementar più adatto
     Chi molto amando irreprensibil visse!
          — Un Giuda voglio! Il dèmone ruggìa
     60Giù dall’alpe scagliandosi e correndo
     Pe’ teutonici boschi, e visitando
     Con infernal, veloce accorgimento
     Città e castella.
                                    Iva ei cercando l’uomo,
     In cui scernesse il dolce volto, e i dolci
     65Atti, e l’irrequïeto occhio geloso
     Del venditor di Cristo; e non volgare
     Mente si fosse, ma gentil, ma calda
     Di lodevoli brame, ed inscia quasi
     Di sè si pervertisse, e vaneggiasse
     70D’amor per tutte le virtù, e seguirle
     Tutte paresse, e infedel fosse a tutte.
          Tale, od un vero giusto esser dovea
     Chi affascinasse d’Ebelino il core;
     E Sàtan nol trovava, e con dispregio
     75Maledicea la lealtà nativa
     De’ figli del Trïon, popol rapace
     Nelle battaglie, e in sue pareti onesto.
     Ma quando già il crudel quasi dispera,
     Ecco s’incontra in uomo onde il sembiante
     80Tosto il colpisce; e fra sè dice: — « È desso! »

     Ed esulta, e più guata, e vieppiù esulta.
          Quel benedetto dall’orribil genio
     Era un prode straniero, e fama tace
     Di qual progenie, e nome avea Guelardo.
          85Sul suo destrier peregrinava, e ladri
     Or assaliva, degli oppressi a scampo,
     Or dispogliava ei stesso i passeggeri,
     Se mercadanti, e più se ebrei. Nè spoglio
     Pur quelli avrìa, se a povertà costretto
     90Non l’avesse un fratel, che del paterno
     Retaggio spossessollo.
                                                     A che di bosco
     In bosco errasse, ei non sapea. Sperava
     Dal caso alte venture, e perchè tarde
     Erano al suo desìo, volgea frequente
     95Il pensier di distruggersi; e più volte
     Dall’altissime balze misurava
     Coll’occhio i precipizi, e mestamente
     Rideagli il core, e si sarìa slanciato
     Nelle cupe voragini, se voce,
     100O aspetto di mortali, o speranze altre
     Non l’avesser ritratto.
                                                     — O cavaliero,
     Salve.
                    — Scòstati, scòstati, o romito;

 
     105Oro non tengo.
                                      — Ed oro a te non chieggo;
     Ben d’acquistarne santa via t’accenno.
     Vile è il mestier cui t’adducea sciagura,
     Ma nobile è il tuo spirto. A me tue sorti
     Occulta sapïenza ha rivelate:
     110Vanne a Bamberga; ad Ebelin ti mostra:
     Grazia agli occhi di lui, grazia otterrai
     A’ clementi occhi del regnante istesso.
          Così Satan, e sparve.
                                                     Incerto è quegli
     Se fu delirio o visïone. Al cielo
     115Volge supplice il viso: in cor gl’irrompe
     De’ suoi misfatti alta vergogna; aspira
     A cancellarli, e quindi in poi di tutte
     Virtù di cavaliero andare ornato.
          In quel fervor del pentimento, incontra
     120Un mendico, e su lui getta il mantello,
     E sen compiace, e dice: — Uom non m’avanza
     In carità e giustizia.
                                               E Sàtan rise,
     E non veduto gli baciò la fronte.
          Alla real Bamberga andò Guelardo,
     125Mosse alle auguste soglie, ad Ebelino
     Supplice presentossi, e pïamente

     Da quella bella e grande alma si vide
     Ascoltato, compianto, e di non tarda
     Aïta lieto. Un fascino infernale
     130Sovra la fronte di Guelardo imposto
     Ha del demone il bacio. Allo straniero
     Conglutinossi d’Ebelino il core
     In breve tempo; e nella reggia è in campo
     Quei Gionata parea, questi Davidde.
          135Mirabile brillava ad ogni ciglio
     Quella forte amistà: Satan fremeva
     Ch’ella durasse, e il volgersi degli anni
     Affrettar non potea. Nè ratto varco
     Sperabil era tra i pensieri onesti
     140Che Guelardo nodriva e la sua infamia,
     Tra l’amor suo per Ebelin, tra il dolce
     Nella virtù emularlo, e il desiderio
     Scellerato di spegnerlo. Ma il tristo
     Angiol si confortava misurando
     145L’immortal suo avvenire. Appo sì lunghi
     Secoli, breve istante eran poch’anni.
     Ed intanto ei godeva, a quell’imago
     Che tigre, sebben avida di sangue,
     Mira la preda, e ascosa sta, e sollazzo
     150Tragge di quella contemplando i moti
     E l’amabil fidanza, ed assapora

     Più lentamente la decreta strage.
          Dopo tanto aspettar, s’appressa il giorno
     Sospirato dall’invido. Al novello
     155Otton contrarie qua e là in Italia
     Eran le menti di non pochi, e speme
     Vivea secreta ch’italo Ebelino
     Secretamente lor plaudesse. Il core
     Di molti era per esso, e nelle ardite
     160Congrèghe entro a’ castelli, ed appo il volgo
     Susurravan, più splendido rinomo
     Non avervi del suo; null’uom più voti
     A suo pro rïunir; doversi acciaro
     Dittatorio offerirgli, o regio scettro.
          165L’augusto sir dalla germana sede
     Contezza ebbe di fremiti e lamenti
     Nell’alme de’ Lombardi esasperate,
     Ed a sedarle con prudenza invìa
     Ebelino e Guelardo.
                                                Alla venuta
     170Di questi sommi giù dall’alpe, e al grido
     Che fama addoppia de’ lor alti pregi,
     E più de’ pregi di colui, che sembra
     D’onnipotenza quasi insignorito,
     Ferve ognor più l’insana speme, e tutta
     175In congressi pacifici prorompe,

 
     Ove i duo messi imperïali invano
     Senno indiceano e obbedïenza.
                                                                      — O prodi !
     Così Ebelin risponde al temerario
     De’ corrucciosi invito; io condottiero
     180Mai contr’Otton non moverò, chè avvinto
     Gli son da conoscente animo e onore,
     E il portai fra mie braccia. E quando insieme
     Del moribondo padre suo le coltri
     Inondavam di pianto, il sacro vecchio
     185Nostre mani congiunse, e disse: — Un figlio,
     O Ebelino, ti lascio — ed a te lascio,
     O figlio, un padre in Ebelino! — Ed era
     In tai detti spirato. Allora il figlio
     Gettommi al collo ambe le braccia, e molto
     190Pianse, e chiamommi padre suo, e lo strinsi,
     E il chiamai figlio. Ove pur reo di patti
     Vïolati con voi fosse il mio sire,
     Biasmo sincer da mie labbra paterne
     Avriane, sì; retti n’avrìa consigli,
     195Ma non odio, non guerra, non perfidia!
          — Deh! tacciano, Ebelin, privati affetti,
     Ov’è causa di popoli. Ed ignota
     Mal tu presumi essere a noi l’ingrata
     Alma d’Ottone anco ver te, che dritti

     200Tanti acquistasti a guiderdone e lode.
     Ombra a lui fa la tua virtù: onorarti
     Finge, ma stolta è finzïone omai
     Ond’ogni cor magnanimo s’adira.
     Possente sei, ma più non sei quel desso
     205Che ne’ duo regni un dì tutto volvea.
     Tëofanìa il governa, e da Bisanzio
     Sul germanico seggio ov’ei l’assunse
     Recò le greche astuzie, e lo circonda
     Di greci consiglieri. Essi con lei
     210Van macchinando contro te ogni giorno;
     Che se finor cadute anco non sono
     Le podestà che a te largì il monarca,
     Della tua rinomanza egli è prodigio,
     E nel tiranno è di pudor reliquia.
     215Bada a’ perigli, a tua salvezza bada:
     D’Otton l’iniquità rotto ha i legami
     D’ogni giusto con esso.
                                                      Un de’ maggiori
     Così parlò fra gli adunati audaci.
     Nè, sebbene oltrespinta, era appien falsa
     220La parola di sdegno e di sospetto
     Circa l’imperadrice e i cortegiani
     Ch’ella a sue nozze addotti avea di Grecia.
          Ma la candida e ferma alma del pio

     Ebelin s’adirò. L’imperadrice
     225E Otton con nobil gagliardìa difese,
     E de’ Greci sorrise. Ei sì facondo
     Favellava, e amichevole e verace,
     Che i più irati l’udìan con reverenza:
     Con tenerezza quasi, ancor che invitti
     230Nel feroce astio e nell’ardente brama.
          Di Guelardo lo spirto a quel congresso
     Funestamente s’esaltò. Il diletto
     Ebelino ei vedea, nella commossa
     Fantasìa, re, suscitator di gloria
     235Ad un popol redento. Il vedea bello
     Giganteggiare in immortali istorie,
     Com’un di que’ supremi, onde la terra
     Lunghi secoli è priva; e sè medesmo
     Socio vedea di quel supremo, e a lui
     240Successor forse, e. . . . Che non sogna audace
     Ambizïon, se raggio ha di speranza?
          Quand’ei fu sol con Ebelin, ridisse
     Le voci insieme intese, e commentolle
     Coll’insistenza del favore; e aggiunse
     245Maligno esame de’ pensier, degli atti
     D’Ottone, e della Greca in trono assisa,
     E degli astuti amici ond’ella è cinta.
     Quasi certezza accolse i più irritanti

     Dubbi e i minimi indizi di periglio,
     250E gridò ingratitudine, e diritto
     Alla rivolta. E a grado a grado questa
     Ei necessaria osò chiamare, e il pio
     Ebelin concitarvi. Lo interruppe
     Finalmente Ebelin; duplice tela
     255Come già svolto aveva agli adunati,
     Svolse di novo al tentatore amico:
     Qua la turpezza del tradir, là i vani
     Sforzi a potenza e gloria, ove bruttata
     È nazïon da lunghi odii fraterni.
          260Negli aneliti suoi s’ostinò il core
     Di Guelardo in quel giorno, e seguì poscia
     A ridir con sofistica, inesausta
     Facondia per più dì l’empie sue brame;
     Sì che non poche volte il generoso
     265Ebelino in resistergli, dal mite
     Considerare e dai soavi detti
     Passò a dogliosa maraviglia e sdegno.
          Turbossene colui, ma il turbamento
     Ascose e il disamore, e da quel tempo
     270Crescente invidia in sen covò tremenda.
          Novi succedon fortunati eventi,
     Ch’ognuno attesta glorïosi al senno
     Dell’ottimo Ebelin; ma più Guelardo,

     Come negli anni primi, or della gloria
     275Del suo benefattor non va giocondo.
     Ei con geloso sospettante ciglio
     Mira la sua grandezza, e superarla
     Vorrìa e non puote; e detestando, sogna
     Dall’amico esser detestato; e pargli,
     280Laddove pria sì belle in Ebelino
     Virtù vedea, più non veder che scaltra
     Ipocrisia. De’ pervertiti è proprio
     Non credere a virtù; d’ogni più certo
     Generoso atto dubitar motivi
     285Turpi, ed asseverarli: in ogni etade
     Così abborriti fur dal mondo i santi.
          Da quello stato di rancor, di mente
     Ognor proclive a gettar fango ascoso
     Sovra l’opre del giusto, è breve il passo
     290Ad assoluto di giustizia scherno.
          In Lamagna Guelardo ad altri uffizi
     Di grande onor da Ottone è richiamato,
     Mentre Ebelin nell’itale contrade
     Resta moderator. L’ingrato amico
     295Sospetta ch’Ebelino abbia con arte
     Tal partenza promosso, a fin di trarsi
     Uom dal cospetto che in secreto esècri.
          Del congedo gli amplessi ei rende a quello,

     Ma senza avvicendar come altre volte
     300Palpiti dolci di desìo e di pena.
     Infinto ei crede ogni atto ed ogni accento
     Del più sincero degli umani, e parte
     Coi fremiti dell’odio, e maturando
     Di non avute offese alta vendetta.
          305— Cieco tanto io sarò che vero estimi
     Suo rifiuto ai ribelli? Or che sì vaste
     Son le congiure? Or che da lunghe e infauste
     Guerre è stanco l’impero? Or che d’illustre
     Nome a capitanarla, e di null’altro,
     310La penisola ha d’uopo? Or che oltraggiata
     Dalla superba, greca, invida nuora
     È quell’antica d’Ebelin fautrice,
     La vantata Adelaide, che alle umìli
     Ombre de’ chiostri dalla reggia mosse?
     315Or che Tëofanìa palesemente
     Lacci a lui tende e sua rovina agogna?
     Il menzogner di me diffida: i vili
     Diffidan sempre! Allontanarmi volle
     Non senza mira ostil: me di qui toglie
     320Per regnar sol, per non aver chi forse
     Sua sapïenza e sue prodezze oscuri.
     All’amico ei rinuncia; ei nelle schiere
     Del suo tradito Imperador mi brama,

     Nelle schiere d’Otton, contro a cui l’asta
     325Scaglierà in breve; e tanto orgoglio è in lui,
     Che nè lo sdegno mio, nè la sagacia
     Non teme, nè il valor! Perfido! io mai
     Stato non fora a tua amicizia ingrato;
     Alla mia ingrato ardisci farti: trema!
     330Valor non manca al vilipeso e senno
     Da smascherar tua ipocrisia. Ludibrio
     Ne fur bastantemente il sire, i grandi,
     Le sciocche turbe, e insiem con loro io stesso!
          Così nel suo vaneggiamento infame
     335S’agita l’infelice, e non s’accorge
     Che il re d’abisso più e più il possede;
     Così travolve le apparenze ogn’uomo
     Che a livor s’abbandoni!
                                                          Ecco Guelardo
     Giunto ai reali di Bamberga ostelli;
     340Eccolo assaporante i nuovi onori,
     Ma com’egro che, misto ad ogni cibo,
     Sente l’amaro della propria bile.
     Più sovra il labbro di Guelardo il nome,
     Come già tempo, d’Ebelin non suona,
     345O su quel labbro se talvolta suona,
     Laude non l’accompagna, e il favellante
     Impallidisce, e torvamente abbassa

     La pensosa pupilla irrequïeta,
     E la rïalza sfavillando; e ognuno
     350Scerne che di compressa ira sfavilla.
          Del mutamento avvedesi esultando
     Tëofanìa, s’avvedono i suoi fidi,
     E al convito di lei con gran decoro
     Visto sovente è quel Guelardo assiso,
     355Ch’ella tanto agli scorsi anni abborrìa.
     Ordiscono essi alcuna trama insieme
     Contro al lontano giusto? o la perfidia
          Tutta covossi di Guelardo in petto?
     Un dì da quel convito esce il fellone,
     360E quasi esterrefatto si presenta
     Agli occhi del monarca, e a lui si prostra,
     Ed esclama; — Ebelino è traditore!
     Le rivolte fomenta; alla corona
     D’Italia aspira: sciolta è l’amistade
     365Che a lui mi strinse! Eternamente è sciolta!
          E false carte adduce in prova, e adduce
     Di vili già ribelli, or prigionieri,
     Menzogne tai, che faccia avean di vero.
     Ed il monarca trabalzò, fu vinto
     370Dalle inique apparenze. Esitò ancora,
     Dubitar volle novamente; a novo
     Esame ripiegò la scrupolosa

     Afflitta anima sua; ma le apparenze
     Trionfaron più orrende e più secure.
     375Indi egli irato invìa turba di sgherri
     All’italo paese, onde sia tratto
     Carico di catene il formidato,
     Duce a Bamberga.
                                            L’innocente duce
     Stanza a que’ giorni avea in Milan. Posava
     380Una notte, ed in sogno a lui s’affaccia
     Lo stuol de’ cari, in varia guerra estinti,
     Fratelli suoi, col vecchio padre; e il padre
     « Fuggi, gridava, sei tradito! » E gli altri
     Con affanno e singhiozzi ad una voce
     385Ripetean: « Fuggi, fuggi! »
                                                              Ei si risveglia,
     E per quell’alme prega, e s’addormenta
     Un’altra volta. E in sogno ecco apparirgli
     Il magno Otton primiero ed Adelaide,
     Non cinta ancor di monacali bende,
     390Ma il serto imperïal sopra la fronte.
     Meste eran lor sembianze, ed a lui; « Fuggi,
     Fuggi, dicean, del figlio nostro l’ira!
     Ira per te sarìa mortal! »
                                                         Si desta
     Il nobil duce, e per quell’alme prega,

     E s’addormenta un’altra volta. E vede
     Il tempo antico e la città solenne
     Ove sorge il Calvario, e là pur vede
     Di Getsèmani l’orto, ed appressarsi
     400Una frotta d’armati, e Iscarïote
     Dare il bacio alla vittima! . . . Ed oh vista!
     Iscarïote era Guelardo!
                                                       Balza
     Spaventato destandosi Ebelino,
     E que’ tre sogni avvertimento estima
     405Dell’angiol suo. Fuggir vorrìa; ma dove?
     Ma perchè? Fugge l’innocente mai?
          Pochi istanti anelò fra que’ pensieri
     Di stupor, di tristezza, e piena d’armi
     Fu ben tosto la soglia. Udì Ebelino
     410Che dal suo Imperador venìan que’ ferri,
     E il cenno di seguirli; ai manigoldi
     Cesse con muto fremito la spada,
     E porse ai ceppi gli onorati pugni.
          Quasi ladro il trascinano, e Milano
     415E tutta Lombardia mira quel crollo
     Sì inopinato. Il prigioniero obbrobri
     Soffre inauditi; e non sarìagli pena
     Dagli sgherri soffrirli: itale voci
     Lo irridon per la via, maledicenti

     420Al passato suo lustro. E quale esclama:
     — Va, di rivolte eccitator maligno!
     Va, scellerata causa, onde su noi
     Cesare versa il suo tremendo sdegno! —
     Qual: — Va, codardo degli Otton mancipio,
     425Che d’Italia campion far ti negasti!
     Ben or ti sta de’ tuoi servigi il premio! —
     Qual più schietto prorompe: — Erami noia
     Udir chiamarti il giusto; alfin delitti
     Potrem di te sapere ed abborrirti!
          430Quant’è lunga la via sino a’ confini
     Delle italiche valli, Ebelin tacque
     Degli spregi sofferti. Allor che in cima
     Dell’alpe fu, rivolse gli occhi, e alzando
     Le incatenate braccia, — Oh maledetta
     435Troppo da’ vizi tuoi, misera patria,
     Sclamò, non io ti maledico! Il cielo
     Figli ti dia che s’amino fra loro,
     Ed amin te com’io t’amava e t’amo,
     E più di me felici acquistin gloria
     440Senza espïarla con dolori e insulti!
     — Maledicila! gridagli all’orecchio
     Una voce infernal.
                                            — Ti benedico
     L’ultima volta! ripres’egli.

                                                          E pianse
     445Siccome pio figliuol sulla ignominia
     D’una madre infelice; e gli sovvenne
     Quanto già quella madre avea prefulso
     In virtù fra le genti, e a depravarla
     Quante cagioni eran concorse! E grande
     450Su lei di Dio misericordia chiese;
     E dal dolce aer suo, dalle ridenti
     Tutte illustri sue sponde, ei nè le amanti
     Ciglia diveller, nè il pensier poteva!
          Satan che indarno occultamente spinto
     455Avealo ad imprecar la patria terra,
     Urlò di rabbia le sue preci udendo;
     E di Lamagna per alture e piani
     Corse con questo grido:
                                                       — È alfin caduto
     L’italo malïardo, il seduttore
     460De’ nostri augusti, il protettor di quanti
     Di Lombardia traeano ad impinguarsi
     Sul germanico suol, genìa predace
     Onde la tanta povertà cresciuta
     In quest’anni da noi! Tutti Ebelino
     465Nostri tesori al lido suo recava,
     E colà un trono alzar voleasi, allora
     Che ad atterrar le ribellanti spade

     Inetto fosse per miseria Ottone!
          — Ebelin mora! Universal risposta
     470Fu del tedesco volgo. Ed obblïato
     Da migliaia di cuori in un dì venne
     Quanto a lodarlo aveali invece astretti
     La sua mansüetudine, il modesto
     Non curar le ricchezze, il riversarle
     475Sulle infelici plebi, il non mostrarsi,
     Benchè pio verso gl’itali, men pio
     Ver gli stranieri. Quella dianzi nota
     Serie di virtù splendide cotanto,
     Un incantesmo vil parve ad un tratto
     480Una menzogna. Convenìa disdirla:
     Riconoscenza è grave pondo ai bassi.
     Esultan se pretesto a lor si porga
     Di rigettarla, e attaccaticci morbi
     Son odio, ingratitudine e calunnia.
          485Conscio de’ benefizi innumerati
     Ch’egli avea sparso, avea creduto ognora
     L’irreprensibil cavalier che stretti,
     A lui fosser d’amor cuori infiniti.
     Le ripetute indegne contumelie
     490Lo sorpreser, ma tacque; e sovra tanta
     Pravità de’ mortali meditando,
     Arrossì d’esser uomo, e innanzi a Dio

     Umilïossi. E vanamente ancora
     Stette Satan mirandolo e aspettando
     495Il desìo di vendetta e le bestemmie.
          Chiama l’Onnipossente al suo cospetto
     Tutti i ministri spirti, e a Satan dice:
     — Onde vieni?
                                   E il maligno: — Ho circüita
     Dell’uom la terra, e non rinvenni un santo.
          500Ed il Signore: — O di calunnie padre,
     Non vedestù l’amico mio Ebelino,
     Ch’uomo a lui simil non racchiude il mondo,
     Tanta nel suo dolor serba innocenza?
          E l’angiol di menzogna ambe le labbra
     505Si morse, e disse: — Ov’è il suo pregio? Ei t’ama,
     Perchè, in tuo amor fidando, ei palesata
     In breve spera sua innocenza. Il braccio
     Estendi, e più percuotilo, e vedrai
     Se non t’impreca.
                                          Ed il Signor: — Non forse
     510Giorni di prova assegno a’ retti? Vanne:
     Ebelino è in tua mano; anco sua vita,
     Anco la fama sua, perchè maggiore
     Torni suo vanto e tua immortal vergogna.
          L’avversario precipite avventossi
     515Dal grembo della nube, onde i mortali

     Atterrìa lampeggiando, ed in un punto
     Fu su roccia dell’alpi. Ivi gigante
     Si soffermò, e da questo lato i campi
     Della lieta penisola mirando,
     520E dall’altro le selve popolose
     De’ boreali, l’una e l’altra palma
     Battè plaudendo al sovrastante lutto
     D’entrambo i regni, ed eslamò: — Vittoria!
          Di là scagliossi alla città del trono
     525E de’ cento felici incliti alberghi,
     E delle orrende mura ove trascina
     Sua catena Ebelin. Desta il demonio
     Ne’ giudici, che Ottone a indagin chiama
     Dell’alta causa, aneliti vigliacchi.
     530Temon, se reo non trovan l’accusato,
     L’ira d’Otton, l’ira d’Augusta, l’ira
     Di quel Guelardo che per essi or regna;
     E dove il trovin reo, speran più pingui
     Gli onorati salarii, e maggior lustro.
          535Chi primiero è fra’ giudici? Oh impudenza!
     Guelardo stesso!
                                         Oh come il core all’empio
     Nondimen trema, udendo che s’appressa
     L’irreprensibil catenato! E questi
     Entra con umil, sì, ma non prostrato

     Animo, e reca sulla smorta fronte
     Quell’alterezza ch’a innocenza spetta.
          Cela Guelardo il suo tremore, e prende
     Così ad interrogar:
                                            — Qual è il tuo nome,
     545O sciagurato reo?
                                          — Sono Ebelino
     Da Villanova, amico tuo.
                                                         — Rigetto
     L’amistà d’un fellon: giudice seggo.
     Che macchinasti co’ Lombardi?
                                                                      In viso
     L’accusato guardollo, e non rispose.
          550E Guelardo: — A lor trame eri secreto
     Eccitator; t’offrìan lo scettro, e pronta
     Stava tua destra ad accettarlo in giorno
     Ch’ansio esitavi a stabilire, in giorno
     Che, la mercè di Dio, non è spuntato.
     555V’ha fra i complici tuoi chi tua perfidia
     Al tribunale attesta.
                                                E poichè muto
     Serbavasi Ebelin, vengon a un cenno
     Que’ testimonii nella sala addotti.
          Eran duo di que’ truci esclamatori
     560Di libertà, di civiche vendette,

     Di patrio amor, che ne’ consessi audaci
     Della rivolta più fervean, più scherno
     Scagliavan sui dubbianti e sovra i miti,
     E più capaci d’affrontar qualunque
     565Parean supplizio, anzi che mai parola
     Di codardìa pel proprio scampo sciorre.
          Questi eroi da macelli, questi atroci
     Ostentatori d’invincibil rabbia,
     Come fur tolti a lor gioconde cene,
     570E gravato di ferri ebbero il pugno,
     E il patibolo vider, — tremebondi
     Quasi cinèdi, le arroganti grida
     Volsero in turpi lagrime e in più turpi
     Esibimenti di riscatto infame,
     575Altre teste al carnefice segnando.
     Ad Ebelino in riveder coloro
     Isfuggì un atto di stupor: — Voi dunque?
     Voi? . . . Ma, qual maraviglia? Oh! ben a dritto
     Io sempre le feroci alme ho spregiato,
     580E ben diceami il cor quali voi foste!
     Ed appunto perchè troppe vid’io
     Alme siffatte là nelle congrèghe
     Ove il mio plauso si cercava indarno,
     E pochi vidi eccelsi petti, avversi
     585Ad insolenza e a stragi, io mestamente

     Presentii di mia patria obbrobri e pianto,
     S’ella sorda restava a’ preghi miei,
     E alle minacce mie, quando insensata
     Io vostr’impresa nominava e iniqua.
          590I testimonii balbettaro, e fisi
     Gli occhi loro in Guelardo, il concertato
     Calunnïar sostennero. Ebelino
     Più non degnolli di risposta, e chiese
     D’esser condotto anzi ad Ottone a cui
     595Parlar volea.
                                 Respinge inutilmente
     Guelardo quest’inchiesta, e così forte
     La ripete Ebelin, ch’un de’ seduti
     A giudicarlo generoso alzossi,
     Sclamando: — La tua brama, o il più infelice
     600Fra gli accusati, porteranno al trono
     Le labbra mie.
                                      Null’uom potè di quella
     Anima schietta rattenere i passi:
     Move all’Imperador, franco gli parla,
     E il pio monarca inducesi al colloquio.
          605Mentre dunque l’afflitto incoronato
     Nelle regali, splendide pareti
     Aspettava che a lui tratto venisse
     Il già caro Ebelin, nella memoria

     Gli ritornavan gli alti e numerosi
     610Servigi di quel prode, e l’amicizia
     Che al magno Otton, suo padre, avealo stretto;
     E commoveasi ripensando quante
     Volte quell’Ebelin con tenerezza
     Lui prence fanciulletto infra le braccia
     615Portato avea, quante paterne cure
     Prese per lui, quanti affrontati in guerra
     Per sua difesa ardui perigli, — e il core
     Gli si volgea a clemenza.
                                                        Ode sonanti
     Nelle vicine sale i trascinati
     620Ferri del prigioniero, e gli si gela
     Di pietà il sangue. E quand’entrare il vede
     Pallido, smunto, gli si gonfia il ciglio,
     E magnanimo pianto a stento cela.
          Ebelin pur commosso era, calcando
     625Con vincolato piede oggi i tappeti,
     Che tante volte avea con dominante
     Passo calcati, e intorno a sè veggendo
     Tanti, che in altro tempo a lui dinanzi
     S’inchinavan temendo, ovver felici
     630Andavan s’egli a lor stringea la destra,
     E ch’or s’atteggian contegnosi, e quali
     A sterile pietà, quali ad insulto.

          Giunto Ebelino alla presenza augusta,
     Piegasi reverente, e aspetta il cenno:
          635— Favella, sciagurato: uom con più caldo
     Fervor non brama tue discolpe.
                                                                       — Sire,
     La mia innocenza esser dovriati scritta
     Ne’ lunghi intemerati anni ch’io vissi
     Di tua casa al servizio e dell’onore.
     640In inganno te volto han miei nemici,
     E me calunnia opprime.
                                                       — A tue parole
     Aggiungi prova, e riputato il sommo
     De’ tuoi servigi questo fia da Ottone.
          — Se a te prova non son gli atti che oprai
     645Alla luce del sol, l’abborrimento
     Sperimentato mio contra ogni fraude,
     Contr’ogni ingiusta ambizïon; se nulla
     A te non dicon queste mie sembianze
     Imperturbate in così ria sventura,
     650Preclusa è a me di scampo ogni fiducia;
     Anzi alle leggi mia supposta colpa
     È attestata abbastanza. Altro non posso
     Se non gli estremi del mio zelo sforzi
     In quest’istante consecrarti, o sire,
     655Tai verità parlandoti, che forse

     Più non udresti, se da me non le odi.
          — T’ascolto, disse il rege.
                                                                 Ed Ebelino
     La propria causa obblïar parve, e diessi
     A svolgere di stato alti consigli,
     660I bisogni quai fossero additando
     Delle schiere, del popol, dell’altare,
     De’ tribunali, e della reggia stessa:
     Quali i provvedimenti unici, retti
     Ed efficaci ad impedir l’ebbrezza
     665Delle rivolte, a raffermar lo impero:
     Quali de’ prischi imperadori, e quali
     Del magno Otton le più laudabili opre,
     E quai le insane; e come arduo ognor sia
     Seguir le prime e non errare; e come
     670Gli egregi prenci a errar tragge talvolta
     Adulante caterva. Accennò alcuni
     Del sir lusingatori, accennò il vile
     Cangiarsi di Guelardo: e brevi furo
     Su lor suoi detti, e non degnò que’ nomi
     675D’anime basse proferir neppure.
     Ma que’ rapidi detti eran gagliardi,
     Siccome piglio di paterno braccio,
     Che sovra l’orlo d’un dirupo afferra
     Perigliante figliuolo.

                                             Otton si scuote.
     680Da verità sì energiche, da senno
     Sì giusto e luminoso ed esaltante
     Non era stato mai colpito. In altri
     Colloqui a’ dì felici il buon ministro
     Parlava il ver, ma forse in più gradita
     685Guisa, sparmiante del suo re l’orgoglio.
     Ora è il parlar solenne, il grido urgente
     D’uom, che vicino a morte anco un tributo
     Di fedeltà solve al monarca e al dritto,
     Tutto dicendo che giovar del pari
     690Sembrigli al trono e alle regnate genti.
          Alla beltà del vero e del coraggio,
     E di quel dignitoso intenerirsi
     Che da alterezza vien compresso, e pure
     Nella voce si sente e ne’ benigni
     695Sguardi si vede, unìasi in Ebelino
     Da natura sortita un’armonìa
     Di nobili sembianze e di contegno,
     Talchè valor più prepotente dava
     A sua favella, ed escludea il supposto
     700D’ogni viltà, d’ogni codarda astuzia,
     E facea forza a Otton. Perocchè Ottone
     Stranier non era a simpatìa per cuori
     Di grandissima tempra. E fu vicino

     A cedere, a gettare ambe le braccia
     705Del prigioniero al collo, a gridar: — Falsa
     Tengo ogni accusa contro al mio fedele!
          Ma Sàtan vide quell’istante, e spinse
     Tëofanìa d’Augusto in cerca.
                                                                 Bella
     Era la greca donna e di vivaci
     710Grazie adorna, e scaltrissima e pungente
     Ne’ suoi sarcasmi, ed irridea talvolta
     La bonaria alemanna indol con motti
     Quasi di spregio; e di que’ motti spesso
     Arrossìa Ottone. E perocch’egli amava
     715L’affascinante sposa, ambìa piacerle
     E far pompa d’accorta alma inconcussa,
     E a tal cagion solea de’ generosi
     Sensi in cor frenar gl’impeti al suo fianco.
          Salutata dall’armi, il passo inoltra
     720Fra le colonne di que’ regii lochi
     La incoronata, e strabilisce e freme
     In vedere Ebelino; e sovra Ottone
     Lancia quel guardo che dir sembra: — Stolto!
     Sedur ti lasci?
                                   Tanto, oimè, bastava
     725A confondere il sire! Eccol a un tratto
     Con più severa maestà atteggiarsi

     Verso il captivo, e dir: — Riedi: a me il vero
     Tutto paleserassi; e tu, innocente,
     Gloria n’avrai; prevaricato, morte.
          730Torna Ebelino al carcere, e già scerne
     Che inevitata è per lui morte. Oh come
     Lenti di nuovo i dì, lente le notti
     Volgon per lui! Quel sempre assomigliarsi
     D’una all’altr’ora, e la perpetua veglia,
     735Ed il perpetuo tenebrore — e i cibi
     Immondi e scarsi — e l’aspreggiante voce
     Di questo o quello sgherro — e il frequent’urlo
     D’altri prigioni disperati, in cupe
     Vicine volte seppelliti — e il suono
     740De’ ceppi loro, e quel de’ propri — e il canto
     Osceno del ladron che, bestemmiando,
     La forca aspetta — e i gemiti dell’egro
     Forse non reo che sulla paglia spira —
     E il sollecito passo delle guardie
     745Che dicono: « È spirato! » — e questo detto
     Che l’echeggiante corridoio in guisa
     Ripete orrenda — e il pianto d’un amico
     Che, udendo il nome dell’estinto, grida
     Dal fondo d’un covile: « Ahi! gli sorvivo! » —
     750E per dispregio di quel pianto il ghigno
     Od il sibilo infame di coloro

     Che trascinano il morto — e, con siffatta
     Serie d’inenarrabili vicende
     Di castel, che i perenni affigurava
     755Dell’abisso tormenti, il ricordarsi
     De’ dì sereni che svanìr, de’ plausi,
     Delle liete speranze, e, più di tutto,
     De’ dolci affetti — ah! quella è tale immensa
     Congerie di dolori e di spaventi,
     760Che dissennar minaccia ogni più forte
     E sdegnoso intelletto! E se si ponno
     Da intelletto simìl serbar talvolta
     Contro all’empia fortuna altero scherno,
     O pensieri di pace e di perdono,
     765E di fede nel cielo, ahi! pur quell’ora
     Amarissima vien che ineluttata
     Mestizia il cor miseramente serra,
     E non v’è chi consoli! Ed altre pari
     A quell’ora succedono, e d’angoscia
     770In angoscia si cade! Ed un’ardente
     Smania investe il cervello, ed impazzato
     Esser si teme o brama! E il generoso
     Petto chiuder non puossi all’irrüente
     Piena dell’odio che in lui versan mille
     775Della viltà degli uomini memorie!
     E feroce si resta, e di sè stesso

     S’inorridisce e sclamasi: — « Son io,
     Benchè non conscio di mie colpe, un empio? »
     E chiedesi all’Eterno, e lungamente
     780Chiedesi invan, d’amore una scintilla!
          Quelle angosce conobbe anco Ebelino,
     Ed allora invisibile al suo fianco
     Sàtan sedeva, e gli pingea coll’arte,
     Ch’è propria a lui, tutto che meglio ad ira
     785E a disperazïon trarlo potesse.
     Ed Ebelin pur resistea, e pensava,
     In mezzo alle sue smanie, all’Uomo-Iddio,
     Che sublimò i dolori, e fu ludibrio
     D’ingrati e di crudeli: e quel pensiero,
     790Che insensatezza all’occhio è de’ felici,
     Insensatezza non pareagli, ed alta
     Storia pareagli che gli oppressi in tutti
     Lor martirii nobilita; e volgendo
     Quella storia ammiranda, a poco a poco
     795Ammansava gli sdegni e perdonava.
          Ma la parte del cor, che più dolente
     Sanguinava, era quella ove scolpite
     Stavan due care fronti. Una è la fronte
     Della madre decrepita che in pace,
     800All’ombra degli altar, da parecchi anni
     Viveasi in Quedlimburgo, e l’altra è quella

     Della madre d’Augusto. Ambe le antiche
     Serrava il chiostro istesso, e raramente
     Alla reggia venìan; chè ad Adelaide
     805Odïosa la reggia erasi fatta
     Per l’imperar della superba nuora.
          — Qual sarà stato di mia madre, e quale
     Dell’onoranda Imperadrice il core,
     Allorchè udìr la mia sventura? Iniquo
     810Esse, no, non mi tengono! Esse almeno,
     Mentre a tutti i mortali il nome mio
     In abbominio fia, caro l’avranno!
          Così geme Ebelino. Un dì, ottenuto
     La madre alfine ha di vederlo, e scende
     815Alla prigion del figlio. Oh inenarrati
     Di quel colloquio i sacri detti e i sacri
     Abbracciamenti! Oh qual pietà! Una madre
     Che riscattar col sangue suo non puote
     Di sue viscere il frutto! ed il più amante
     820Figlio che di sua madre, ahimè! in secreto
     Deplorar dee la lunga vita!
                                                              Il giorno
     Che dalla inconsolabil genitrice
     Fu Ebelin visitato, oh da qual notte
     Seguìto fu! L’espandersi de’ cuori
     825Nella sventura, è de’ sollievi il sommo;

     Ma dopo tal sollievo, allor che mesto
     Il prigionier dalle pietose braccia
     Di persona carissima è staccato,
     E solingo riman, quanto più dura
     830Gli è solitudin! Quanto più affannoso
     Il desiderio de’ bei tempi in cui
     Fra gli amati vivea! Quanto più viva,
     Più lacerante la pietà ch’ei sente
     Di sè stesso e d’altrui!
                                                    Me a tal dolore
     835Stranier non volle il Cielo, e in ripensarti,
     O decennio del carcere, infiniti
     Strazi ricordo, ma il più acerbo è forse
     Quand’io, abbracciato il genitor, partirsi
     Da me il vedea; quand’io, calde le labbra
     840Del bacio suo, dicea: — Questo è l’estremo!
          Non un decennio, ma più lune ancora
     Duràr gli affanni d’Ebelino. Ei forse
     Nel giudizio di Dio gli accusatori
     Sperava iniqui col possente acciaro
     845Düellando atterrar. Chi d’Ebelino
     Avea la forza e la destrezza? E quanta
     Forza e destrezza in düellar non dona
     Senso d’intemerata anima offesa!
     Ma tai giudizi Iddio forse abborrendo,

     850Non volle che sancito il reo costume
     Per Ebelin venisse; o del demonio
     Opra fu l’impedirlo. Il pestilento
     Aere del carcer nell’oppresso infonde
     Maligni influssi, ed eccolo abbattuto
     855Da insanabili febbri. Il derelitto
     Pur talvolta illudeasi, immaginando
     Che alcun de’ tanti, su cui sparsi avea
     Suoi benefizi, or con repente mossa
     D’onore e gratitudin s’offerisse
     860A combatter per esso; ― attese indarno.
          Spunta il dì della morte, ed Ebelino
     Vien tratto innanzi a’ giudici; e Guelardo
     La sentenza gli legge! Il condannato
     Udì, chinò la fronte, e rese grazie
     865Tacitamente a Dio che al sacrificio
     Termine alfin ponesse; e bramò ancora
     Una volta veder la genitrice.
          Venne l’antica, e insiem si consolaro
     Con nobil forza alterna, e con alterne
     870Religïose cure. Ella ed un pio
     Ministro del Signor soli eran consci
     Dell’innocenza d’Ebelin. Veloce
     Scorre quel sacro tempo, e omai gl’istanti
     Sovrastan del patibolo. Umilmente

     875Prostrasi ancora innanzi al sacerdote
     Il giusto cavalier; quindi si prostra
     Anzi alla madre, ed ella il benedice,
     E si dividon sorridendo, e in cielo
     Rïabbracciarsi in breve speran.
                                                                      Move
     880Per le vie tra i carnefici, agguagliato
     Al più vil masnadiero, e contro a lui
     Insane urla di scherno alzan leturbe.
          Di quegl’ inverecondi ultimi segni
     Dell’odio altrui stupìa, ma per le turbe
     885Egli pregava. Ed arrivato al palco,
     Con fermo passo ascese, e parlar volle;
     Ma sue parole non s’udìr, sì orrendi
     Vituperi sonavano. Ed allora
     Accennò egli medesmo al percussore,
     890E siedè sullo scanno, e tosto il collo
     Mise sul ceppo — e la mannaia cadde!
          L’angiol della calunnia, abbenchè indurre
     Non avesse potuto alla bestemmia
     Il retto cavaliero, e or si rodesse
     895Invido i pugni, l’alta anima a Dio
     Salir veggendo — audacemente « Ho vinto! »
     Volea sclamar. Ma pria che la menzogna
     Intera uscisse dell’infame petto,

     Piovver dal cielo i fulmini, e il bugiardo
     900Spirto ravvolser negli eterni abissi.
          Ov’è il Giuda novel? — Perchè perduto
     Delle guance ha il vermiglio, e la baldanza
     Della voce e del guardo? — E perchè al riso
     Che da Tëofanìa volto gli è spesso
     905Non ride, e gli occhi abbassa, o spaventato
     Mira a destra e sinistra? — E perchè a sera,
     Se in luoghi oscuri passa, affretta il piede
     A illuminata parte, e ansante giunge
     Quasi inseguito fosse? — E perchè cerca
     910Talor per via i mendici, e su lor versa
     A piene mani l’oro, e di lor preci
     L’aiuto invoca, e inefficaci poscia
     Di quei le preci ei furibondo chiama? —
     E perchè ne’ festini alcune volte
     915Cionca e sghignazza, e intrepido si vanta
     Contro a tutte paure, e quando a letto
     Va nell’ebbrezza, trema ed urla, e al fido
     Servo chiede il cilicio e se lo cinge?
          Pentimento ei bramava, e scellerata
     920L’alma era fredda, e a pentimento chiusa.
          Un dì, colui con altri sommi duci
     Passò a fianco d’Otton sovra la piazza,
     Ove ancor d’Ebelino ad alto palo

     Vedeasi infisso il teschio. Il traditore
     925Volea finger letizia, e le pupille
     Miseramente stralunava, e insieme
     Forte i denti batteangli. Ottone il guarda,
     E vacillar sovra l’arcione il vede,
     E a sostenerlo accorre.
                                                       — Oh! che ti turba?
     930Oh! che ti turba? Gli ripete.
                                                                 — È desso!
     Sclama Guelardo, il mio tradito amico!
     Chi dal giusto immolato mi sottragge?
          E prepotenza di rimorso invitta,
     Ma non pia, lo costringe. Ei maledice
     935E terra e ciel, ma l’alto arcano svela.
     Folto drappello d’ottimati, e folta
     Moltitudin di volgo al confessante
     Fa cerchio, e inorridisce a sue parole,
     Tutta imparando la esecrata istoria.
     940Da tanti petti universal s’innalza
     Un lamento: — Oh sventura! oh atroce colpa!
     Il caduto Ebelino era innocente!
          Ed Otton più che gli altri inconsolato
     Raccapricciando grida: — Oh me infelice!
     945Era innocente, e trarre a morte il feci!
          Il traditor nel suo sangue stramazza.

     Qual mano il colpo diè primier? Mal puote
     Fama saperlo. I più disser che ratto
     Un ferro in cor si configgesse il tristo,
     950Altri che Otton percosselo. Il tumulto
     Ferve con rabbia orrenda. In cento brani
     Ecco lacero, pesto, annichilato
     Il cadavere infame. E s’inchinaro
     D’Ebelino anzi il teschio e imperadore
     955Ed ottimati e popolo, e nel tempio
     Dato fu loco alla reliquia santa.
          Altro clamor di giubilo e di rabbia
     Rimbombò nell’inferno, al piombar quivi
     Il traditor, ma sol menonne festa
     960L’abbietta e sciocca de’ demonii plebe:
     Il lor superbo re, poste con ira
     Su Guelardo le luci e le calcagna,
     Urlò: — Che gloria alma sì vil mi reca?


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