< Edipo a Colono (Sofocle - Romagnoli)
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Sofocle - Edipo a Colono (401 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1926)
Prefazione
Edipo a Colono (Sofocle - Romagnoli) Personaggi



Se noi volgiamo le forze evocatrici del nostro spirito all’«Edipo a Colono», su lo schermo della fantasia vediamo prima disegnarsi il gruppo del cieco Edipo e della pietosa Antigone. Ma, quasi simultaneamente, dietro le loro immagini si compone un meraviglioso paesaggio.

La configurazione generale ne è data da poche efficacissime parole di Antigone al vecchio padre:

          È sacro questo luogo, e florido
tutto d’allori, pampani ed ulivi;
e fittissimi dentro vi gorgheggiano
i rosignoli.

Il primo piano è roccioso. Edipo siede fin da principio sopra una scabra roccia, e, quando se ne allontana, si trova, dopo pochi passi, ad un altro margine di rocce sporgenti. E in fondo, lontano, si vedono le torri d’una città: Atene.

Ma la parete di alberi che fa da cortina, nasconde un bosco orrido insieme e meraviglioso, i cui particolari, via via, attraverso le parole dei personaggi, si disegnano nitidissimi alla fantasia degli ascoltatori. Se ne intravvede prima il carattere misterioso. È un bosco inaccessibile, dove i terrazzani passano senza guardare né pronunciare parola, perché è sacro alle Eumenidi. Nei suoi misteriosi anfratti sgorga una fonte sacra alla celebrazione di arcani riti, di lustrazioni compiute con acqua e miele, senza vino. Presso alla sua scaturigine, sono brocche apposite, di opere di egregi artefici».

Inoltrandosi anche piú, la via piomba in un burrone, ove s’apre l’accesso ad una misteriosa caverna: la scala che vi si inabissa, ha gradini di bronzo. A questa caverna fanno corona molti sentieri; e in uno d essi si vede ancora il vetusto cratere su cui Teseo e Piritoo strinsero un patto d’alleanza. E, qui presso, un tumulo di marmo, una rupe leggendaria, e un antichissimo pero selvaggio dal tronco incavato.

Questo è il lato orrido, a cui si accenna qua e là in tutto il dramma. Ma poi, proprio al centro dei tragici eventi, come una rosa di fuoco in mezzo al fitto intrico del cupo fogliame, si schiude una meravigliosa pittura, che, varcando di secolo in secolo, sembra vivificar sempre i suoi colori. È la boscaglia che coi suoi incanti circonda e maschera gli àditi paurosi. Su tutti i tronchi corrono i ramicelli e le foglie purpuree dell’edera. Dai rami pendono innumerabili pomi. Al suolo corrono fonti errabonde, che mai non iscemano d’acqua; e dalla terra che esse irrorano, si levano, a mille a mille, i grappoli del narciso, del fiore cantato con tanta esaltazione nell’inno omerico a Demetra.

Posta nel cuore della tragedia, questa flora mirabile piove le sue ombre, effonde le sue fragranze per tutte le sue parti. E allacciandosi, da un lato, nei brevi accenni d’Antigone, alle prime battute, dall’altro, con la narrazione dell’araldo, al fine, compone a tutti gli episodi una mirabile cornice silvestre, da cui la tragedia riceve un singolare vaghissimo carattere.

Il medesimo senso pittoresco che anima il paesaggio, ispira anche la concezione degli episodii scenici: tanto di quelli realizzati nell’azione, quanto di quelli affidati alle parole dei personaggi. Dal primo gruppo del vegliardo e della tenera fanciulla nella solitudine boschiva, all’ingresso dei paesani, all’irrompere dei guerrieri di Creonte, al contrasto fra Creonte e Teseo, alla partenza ultima di Edipo, fra il crosciar dei tuoni e lo scintillar dei lampi, al prosternarsi del popolo esterrefatto, è una sequela di quadri meravigliosi e di gran potenza suggestiva: tanto, che è facile ritrovarne gli echi in molte e molte altre opere d’ogni arte. E, superiore a tutte, la scena narrata, e quasi realizzata nel racconto della fine di Edipo.

Il fondo, nascosto da una arcana oscurità impenetrabile. Rilevata su questa, la figura di Teseo, che, esterrefatto dal prodigio, leva le mani a schermo degli occhi; e, al primo piano, il gruppo delle fanciulle ploranti. C'è lo spirito di Michelangelo.

Su questo sfondo pittoresco e in mezzo a così magistrali composizioni di gruppi, campeggiano, con rilievo impareggiabile, le figure principali. Sei: Edipo, Antigone, Ismene, Teseo, Creonte, Polinice. E di queste, tre capitali: Antigone, Edipo e Teseo.

Non indugio in analisi che non potrebbero riuscire se non doppioni del limpidissimo testo.

Solo merita qualche considerazione, e, infatti, è continuo soggetto di discussioni critiche, il mutamento del carattere di Creonte. Quasi simpatico nell’«Edipo re», è odioso nell’«Antigone», esecrabile nel l’«Edipo a Colono».

Il mutamento in sé non vorrebbe dire. Uno scrittore scolastico può stabilire a priore i «caratteri» dei suoi personaggi, e mantenerli identici per qualsiasi numero di drammi. Ma un poeta è innanzi tutto dominato via via dalla visione poetica di ciascun dramma che s’impone alla sua fantasia, e che non è mai volontaria, né preordinata sopra elementi razionali, bensí
deriva dalla irrazionalissima ispirazione. E se le vicende del nuovo dramma implicano un mutamento di carattere in qualche personaggio già messo in scena altre volte, non ci pensa due volte. Si ricordi l’Ulisse del «Filottete», cosí diverso da quello dell’«Aiace». Senza contare che, una volta creati i personaggi d’un poeta seguitano a vivere per proprio conto nella sua subcoscienza; e qui vanno soggetti alla legge eterna della natura, che vuole la trasformazione perenne di tutte le cose.

La difficoltà è piuttosto un’altra. Secondo la cronologia comunemente accettata, l’«Antigone» sarebbe stata composta intorno al 440, l’«Edipo» intorno al 430, l’«Edipo a Colono» al 400. Sicché, Creonte, concepito una prima volta odioso, dieci anni dopo sarebbe divenuto quasi simpatico, per poi, dopo altri quaranta, ridiventare addirittura esecrabile. Questo ricorso mi riesce assai meno convincente. Nella coscienza, o, come dicemmo, nella subcoscienza d’un poeta, un personaggio può divenire da buono tristo, o viceversa; ma non già ondeggiare continuamente fra i due poli del bene e del male.

Questo inconveniente non esisterebbe più, se si supponesse l’«Edipo» scritto prima dell' «Antigone». Esiste, per dire la verità, qualche intima caratteristica che non incoraggia questa supposizione. Ma, insomma, sulla cronologia dell’«Edipo re» non esistono sicure notizie obiettive; né l’opera dei poeti e degli artisti in genere è sottoposta a leggi così precise che dall’esame del contenuto si possano trarre sicure induzioni sopra dati materiali.

Del resto, nell’«Edipo a Colono», Sofocle deve essere stato indotto quasi suo malgrado a gravar la posizione di contrasto in cui esso si trova con Edipo e con Teseo. E una considerazione analoga converrà fare per Polinice. Dalla leggenda non risulta che Polinice fosse così colpevole verso il padre. Ma Sofocle aveva bisogno di una mira per le imprecazioni paterne; e, perché queste non sembrassero esagerate o addirittura fuori di luogo, caricò le tinte su Polinice. Anche una volta, l’atteggiamento trascina l’artista. Osserviamo, infine, l’altezza ideale, assoluta, immacolata, in cui si libra la figura di Teseo. Veramente, sembra che non lo tanga miseria umana. E certo questa sua concezione è frutto del noto campanilismo a cui non poteva sottrarsi neanche il genio di Sofocle.

Su tutte e tre queste figure, pure cosí rilevate e vive, è dunque l’ombra d’un preconcetto non interamente artistico. Libere interamente sono invece le figure di Edipo e di Antigone.

Ma in questo dramma, Antigone è un po’ in ombra. La figura veramente grande, quella che assorbe tutto l’interesse, ed eclissa tutte le altre, è Edipo. L’Edipo di questa tragedia è, per molti aspetti, superiore anche a quello dell’«Edipo re». Quest’ultimo è immenso per l’orrida tragicità in cui si trova coinvolto. Ma, come ho già osservato, per la violenza, appunto, e per la rapidità degli eventi che lo trascinano, le note profonde e salienti del suo carattere non hanno neppur tempo di determinarsi. Qui, invece, la stretta del Destino è rallentata, e l’animo che lí era compresso, si dispiega liberamente, e ci svela tutta la sua complessità. Anche qui, non indugio in superflue analisi. Tutti, leggendo la tragedia, vedranno chiaramente espressa, nella limpida sequela delle scene, la multiforme gamma dei suoi sentimenti, che ondeggiano fra i due poli, pur sempre immoti, d’una implacabile tenacia, d’una tenerezza commossa.

E in questi sentimenti riesce adombrata tutta una filosofia di vita.

Dolorosa filosofia, che riceve certo il suo tòno generale dall’amara sentenza:

Vano è vecchio innalzar chi cadde giovane;

ma che è tuttavia ascesa ad un vertice dal quale tutta la vita umana, con le sue illusioni, le sue virtù, i suoi vizi, gli entusiasmi, gli errori, è contemplata e giudicata mirabilmente. Da questo vertice, volgendo le pupille alla sua vita trascorsa, Edipo repudia implicitamente anche il folle atto compiuto accecandosi, e dichiara che i proprii peccati furono in fondo scusabili, perché li commise ignaro; e compie cosí una specie di autocatarsi, rispondendo egli medesimo al dubbio angoscioso che nel cuore di tutti gli spettatori permane dopo il tremendo finale dell’«Edipo re».

Se poi consideriamo l’«Edipo a Colono» dal lato più strettamente tecnico, vediamo che in esso sono giunti a completa maturazione tutti gli elementi caratteristici della drammaturgia sofoclea.

Il contrasto, innanzi tutto. Qui, ne abbiamo due di tipo classico, uno fra Edipo e Creonte, l’altro fra Edipo e Polinice; e quest’ultimo è forse il più terribile dei sofoclei. Ma dal tipo classico, vediamo qui sviluppate forme assai più complesse. Per esempio, nella gran scena del ratto delle fanciulle. Qui, tutti i personaggi, Edipo, Creonte, Antigone, Ismene, Teseo, i Corifei, si trovano in urto violento, da due punti antitetici, ma con varie posizioni.

Ne consegue un cozzo di passioni e di parole complicato e meraviglioso. Il contrasto diviene, togliendo alla parola quanto essa ha di meno elevato, baruffa. E l’effetto scenico è meraviglioso. A produrlo, è concorsa l’abilità che Sofocle ha via via acquistato, in tutto lo svolgimento della sua opera, nella «polifonia dialogica».

Una parte di questo complicato contrasto è affidata, come dicemmo, al corifeo, o, meglio, a varii elementi del coro.

Il coro nell’«Edipo a Colono», è oramai ben altra cosa dal coro originario.

Notiamo, innanzi tutto, che non è, come quasi sempre è, piú o meno larvatamente, nelle tragedie greche, un’eco del protagonista. Qui, fin da principio, è in antitesi. E anche se, dopo lunga discussione, e dopo l’intervento di Teseo, si calma, infine, quando incomincia il prodigio dei tuoni, riprende il suo atteggiamento di diffidenza e di ostilità.

E del resto, il suo carattere originario appare qui alterato in ogni sua nota.

Nella celebre descrizione del bosco di Colono, è descrittivo, in funzione di paesaggio. Novità, in fondo, euripidesca.

Dopo la partenza di Teseo con Edipo, è bensí, come era in origine, e poi per tradizione rituale, preghiera; ma preghiera non rivolta direttamente dal coro ai Numi, per conto proprio, indipendentemente dalle vicende del dramma, bensí preghiera connessa con l’azione, preghiera a Edonèo, re dei defunti, che tra poco deve accogliere Edipo nei suoi regni di tenebre. Insomma, è inserito nel dramma.

Quando Teseo parte con Creonte, per recuperare le fanciulle rapite, descrive, prevedendola con la fantasia, la lotta dei cavalieri attici coi predoni di Tebe. Non è dunque né descrizione mitica, né antefatto. È una parte del dramma, recata innanzi agli spettatori per mezzo del racconto. Parallela alle narrazioni dei nunzi. Dunque, anche qui, in funzione drammatica.

Gli altri canti del coro, poi, sono piú che in funzione di dramma. Sono dramma addirittura. Cosí le strofe che seguono gli scoppii dei tuoni. Cosí quelle che succedono alla partenza d’Ismene, e che nella loro simmetrica precisione accolgono tanto le battute del corifeo quanto quelle di Edipo. Cosí, specialmente, la pàrodos.

In questa troviamo sviluppato al punto massimo il frazionamento del coro. Qui è scomparsa ogni traccia di compattezza e di rigidità arcaica. Anzi, è sostanzialmente repudiata la convenzione che divideva nettamente i coreuti dagli attori: i coreuti sono anch’essi veri attori. E quella originaria unità, spezzandosi, introduce di colpo nel dramma tanti interlocutori quanti non avrebbe osato mai accoglierne dal di fuori una tradizione che su questo punto si dimostrava così timida.

Tale conversione del coro all’ufficio drammatico, non era certo una novità assoluta. Altri esempii ne abbiamo veduti in Sofocle, e ne avevamo veduti in Eschilo. Ma in Eschilo sporadici; e negli altri drammi di Sofocle, non così largamente, e non con tanto visibili effetti come nell’«Edipo a Colono». E in arte conta solo ciò che risulta.

E qui si chiederà forse come Sofocle non abbia compiuto l’ultimo passo, e non lo abbia liberato dalle strettoie della strofe.

Si risponde facilmente che un grande artista non abbandona mai tanto alla leggera le forme sanzionate e quasi santificate dall’uso dei grandi. E qui si può sicuramente soggiungere che Sofocle ha fatto bene. Non riesce facile immaginare che senza il legame delle strofe sarebbero ugualmente pervenute a un tale fascino quelle battute che sopra i volanti precisi schemi dei ritmi s’inseguono, si alternano, s’intrecciano, si confondono. Anche una volta, la musica fa brillare, traverso la maschera delle parole, le sue luminose pupille; e i nostri cuori rimangono arcanamente affascinati.

Del resto, una musicalità profonda, che si sente assai piú che non se ne possano fissare i tratti in una disamina critica, investe da cima a fondo tutta questa tragedia. E alla musicalità si aggiunge, suo germano, il mistero. Lo scoppio improvviso della meteora, coi suoi barbagli di folgori, e con la romba dei tuoni a ciel sereno; la trasfigurazione di Edipo, che dalla disperazione passa ad una sicura baldanza, e, quasi, tornato veggente, guida, lui cieco, quelli che lo dovrebbero guidare; la voce misteriosa, che suona non si sa d’onde, per chiamarlo nei regni della tenebra; la sua scomparsa improvvisa: sono altrettanti elementi di terrore e di magia, onde la tragedia si conclude in un prodigioso irraggiamento fantastico. D’un fantastico moderno, quasi shakespeariano. E in esso si concreta, o, meglio, si effonde piú ampia, quella preziosa vena di sensibilità moderna che sporadicamente abbiamo vista qua e là affiorare nelle altre tragedie. E anche per questo lato, nell’«Edipo a Colono» sembrano assommarsi e mostrarsi nel loro massimo fulgore tutte le supreme caratteristiche dell’arte e del genio di Sofocle.

Non vedo ragione per respingere la notizia data nel secondo «argomento» antico dell’«Edipo a Colono», e secondo la quale il dramma sarebbe stato composto dal poeta negli ultimi anni della sua lunghissima vita. Il «Falstaff» di Verdi c’insegna che, come Ercole vinse Tànato, cosí il genio riesce a trionfare anche sulla mortificatrice potenza del tempo.

EDIPO A COLONO

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