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Alla fine di questo dramma, il re Teoclimeno, ai Dioscuri che l’inducono a non perseguitare Elena e Menelao fuggiaschi, dichiara:
E voi sappiate
che la vostra sorella, il sangue vostro,
è la piú saggia e virtuosa donna
che sia. V’allegrin d’Elena gli altissimi
sensi, che in poche donne si riscontrano.
E, a considerar la condotta d’Elena in questo dramma, il giudizio di Teoclimeno parrà equo. Che si scherza? Anche nutrendo la convinzione quasi assoluta che il suo sposo non è piú tra i vivi, piuttosto che partecipare il talamo d'un uomo che non è proprio quello che dice lei, sceglie la morte. E rimane coerente dal principio alla fine, senza macchia, né d’opera, né di parola, né di pensiero. Forse nessun'altra eroina d’Euripide appare cosí immacolata, cosí noli me tangere.
E perché mai il poeta ha voluto, su l'orme di Stesicoro, creare un’Elena tanto differente da quella della tradizione? Per semplice amor di paradosso? O per ragioni politiche? Ci proporremo ancora il problema, del resto difficilmente solubile. Ma súbito osserviamo che il tentativo non gli è riuscito troppo bene, e che questa Elena non c’interessa. Non c’interessa, perché non la pigliamo sul serio. Anzi, non riusciamo a credere alla sua esistenza. Essa ci sembra il fantasma; e la vera Elena quell’altra, quella che andò a Troia in carne ed ossa, che probabilmente ebbe reale esistenza, e che ad ogni modo aveva ricevuta vita nel mondo del mito e dell’arte, per opera di Omero.
L’adultera. Ma l’adultera tanto bella, che strappava parole d’ammirazione perfino ai vecchioni di Troia, che tanto pativano a causa del suo peccato:
Biasimo no, non è, pei Troiani e gli Achivi guerrieri,
se per tal donna tanti patiscono lunghi travagli:
troppo l’aspetto suo somiglia alle Dive immortali.
E poi, le oneste matrone che stanno in casa e filano la lana, vanno benone per la famiglia e pel tranquillo assetto sociale; ma ai fini del dramma tragico, valgono assai meno: l'interesse, e sia pur morboso, degli spettatori, s’è concentrato sempre, immancabilmente, sulle grandi peccatrici.
E, per giunta, Euripide ha voluto strafare. La sua Elena dice:
Oh, se potessi perdere,
come un quadro, le tinte, e una parvenza
piú brutta, invece della bella, assumere.
Non è facile attingere un piú alto grado di falsità. E quanto non c’interessa piú l’Elena delle Troiane, che, anche in un momento per lei fatale, non dimentica di farsi bella; e quella dell’Oreste, che, per il lutto della sorella, recide, sì, le chiome; ma solamente agli apici, per riguardo alla propria estetica. Tratti che spingono la tragedia verso i confini della commedia, siam d’accordo. Ma mille volte piú veniale, nel campo dell’arte, questo peccato, che non l’indeterminatezza e l’insipidità, e siano pure addobbate di alte frasi e di sentimenti solenni. Priva di qualsiasi rilievo è costantemente questa Elena. E sfumerebbe, essa vero fantasma, dal nostro ricordo, se non ve la mantenesse, alla meglio, la singolarità della sua situazione.
Un po’ piú caratterizzalo appare Menelao. Ma non già in virtú dell’eroismo onde ha voluto circonfonderlo il poeta, e che sfuma anch’esso nel generico (quel tanto di fanfaronismo che lo distingue è comune a molti eroi d’Euripide); bensí per effetto di due tratti esterni e negativi.
Il primo è la comica facilità con cui presta fede al prodigio del fantasma di Elena. A proposito dei razionalisti personaggi di Euripide si può sillogizzare. Ora, l’annunzio del messo che la Elena A è scomparsa, dovrebbe insospettire un uomo provvisto di raziocinio; perché la prova provata del fatto inverisimile potrebbe essere offerta solo dal confronto fra le due Elene; e il confronto è reso impossibile dalla scomparsa d’una di esse. Invece, Menelao accetta la scomparsa come prova esauriente; e non tanto riesce comica la sua buona fede, quanto le parole con cui esprime la sua convinzione:
Dunque, è cosí: collimano i discorsi:
il vero essa m’ ha detto.
E non meno piacevoli sono quelle con cui prende atto del nuovo stato di cose:
E io che te credea venuta ai tristi
spalti di Troia, e alla città dell’Ida!
Ma dalla casa mia come partisti?
Ma non per nulla è personaggio euripideo. Mentre accetta con tanta buona grazia il punto piú difficile, sfodera il suo scetticismo riguardo alla condotta che Elena può aver tenuta con Teoclimeno.
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Sembrano le parole di Ione a sua madre Creusa. Ed anche qui, hanno sapore di comicità, sebbene quasi di certo involontaria.
Il secondo tratto che caratterizza Menelao è la sordidezza dell’aspetto. Fin dal suo primo apparire, egli si palesa per uno di quegli eroi pitocchi euripideschi, che davano tanta noia ai personaggi d’Aristofane.
Giunge tutto sporco, appena coperto da pochi cenci di vela, è affamato, bussa alla reggia per chiedere un tozzo di pane, è bruscamente discacciato da una serva. E le allusioni ai suoi stracci non finiscono piú. Ci torna e ritorna egli stesso nel suo discorso d’uscita. Elena, al suo primo apparire, rimane sgomenta dal suo misero aspetto:
Eppur, la veste che tu indossi è sconcia.
Teoclimeno, appena lo vede, esclama:
Apollo, come in quelle vesti è orrendo!
.....e poiché tu recasti
buone novelle, dei tuoi cenci in cambio
tu vesti avrai, provianda avrai, che basti
a ricondurti in patria: ora li vedo
proprio in miseria.
Ed Elena anche lo esorta a mettersi in uno stato più decente; e, quando lo ha fatto, lo narra alle amiche:
e pepli assunse, ch’io gli cinsi, invece
dei suoi cenci di naufrago.
E il messaggero, narrando la fuga dei due sposi, dice che:
alcuni Ellèni,
di Menelao compagni, al lido giunsero,
belli di forme, ma di cenci avvolti
di naufragio, e d’apparenza sordidi.
Degno coro a tanto corifeo. E a un certo punto abbiamo anche noi la sensazione che questi stracci siano un po’ troppi: pare anche a noi che Aristofane non avesse poi tutti i torti lagnandosi che Euripide venisse a sbandierarli tanto proprio nel dramma tragico, reso quasi sacro dalle alte celebrazioni di Eschilo e di Sofocle.
Molto piú di Menelao, dà un tuffo nella comicità l’insidiatore del suo onore, Teoclimeno.
Buffa è la sua impostatura fin dal suo primo apparire. Si accorge che Elena non è piú sulla tomba, immagina che sia fuggita, e ordina che sia subito riacciuffata. E l’ordine sembra la mobilitazione d’un esercito:
Oè, famigli, sfilate le spranghe,
le stalle aprite dei cavalli, i carri
recate fuor, sí, che, se fugge, almeno
non fugga, quella che sposare io bramo,
per negligenza mia, da questa terra.
Ma non ha finito di dar l’ordine, che Elena esce dal palazzo. Ond’egli deve subito impartire un contr’ordine:
Fermi: che quella che inseguir volevo
è dentro casa, vedo, e non fuggiasca.
E tutto quello che gli racconta Elena, lo crede come vangelo. E la donna non si lascia sfuggire alcuna occasione di dargli la berta, con le amfibologie tanto care ai personaggi d’Euripide.
— Sarà cosí: né mai potrà lo sposo biasimo appormi; e tu, stando a me presso, ben lo vedrai.
— In me tu avrai la sposa che tu meriti.
— Tornino a ben per te, per me, tali ordini.
— Oggi stesso vedrai quanto io son grata.
E ce ne sono altre ed altre. Ma davvero impagabile è la sua uscita a capo dei servi che portano sulla festa gli arredi e tutto l’occorrente per le esequie marine. Fa pensare alla scena del Miles gloriosus, nella quale, al cospetto di Pirgopolinice, esce Filocomasio, e la seguono i servi carichi di tutto il ben di Dio regalatole dall’amante citrullo, che favorisce, come qui Teoclimeno, la fuga della donna col rivale preferito.
E qui la comicità è certamente voluta. E Teoclimeno è fratello del Toante della Ifigenia in Tauride. E nell’uno e nell’altro, come nel Menelao dell’Elena e nello Xuto dello Ione, appare, tratteggiato magnificamente, il tipo del marito babbeo, ingannato e soddisfatto, che figurerà poi infinite volte nel teatro comico, sino alle recenti e recentissime incarnazioni di George Dandin e di Boubourouche.
Inutile soffermarci sulle altre figure. Teonoe è tanto piena di nobiltà e di solennità quanto priva di caratteristici attributi scenici. Paludamento magnifico, e volto senza espressione, non riesce a provocare, non dico la simpatia, di cui l'ha pur voluta circonfondere il poeta, ma neppure il nostro interesse. E un’ombra di comicità si stende anche su lei, quando essa dice: farò di tutto per rimaner sempre vergine. Si suole espungere questo verso. Sarà. Ma sa d’Euripide un miglio distante.
E cosí, non meritano troppa considerazione, né Teucro, semplice manichino, che serve al poeta per sostenere una scena di preparazione nella quale prenda in qualche modo vita e rilievo ciò che nel prologo Elena ha semplicemente narrato, né l’ancella di Teoclimeno, semplice macchietta, sebbene non destituita di qualche vivacità.
⁂
L’intreccio è quello medesimo della Ifigenia in Aulide. E abbiamo veduto (Euripide, IV, pag. 203 sg.), che, secondo ogni probabilità, l’Ifigenia diede il modello all’Elena.
Però, come dissi, l’intreccio che nella Ifigenia è appena proposto, qui è sagacemente svolto. Da questo lato, l’Elena appare veramente egregia.
La scena di Teucro è un’abile e convincente preparazione ed esposizione di antefatti. Quella fra Menelao e l'ancella di Teoclimeno, serve anch’essa a graduare l’azione, preparando l’incontro fra Menelao ed Elena. Poi, quando si sono incontrati, Menelao, pur riconoscendo che la donna è in tutto simile alla sua sposa, troppo sicuro d’aver la vera Elena entro la sua tenda, sta per abbandonarla. E si rimane in questo dubbio, sinché non giunge il messo ad annunciare la scomparsa dell’Elena fantasma.
Ma siamo ancora in alto mare. Tutto dipende, come dice Elena, dalla sorella del re, la veggente Teonoe. Ed ecco, questa esce. E sta lungamente fra due, se debba o non debba denunciare l’arrivo di Menelao. Decide pel sí:
Al fratel mio chi annuncerà che questi
è qui? Val meglio mettersi al sicuro.
Sembrano perduti. Se non che, entrambi rivolgono alla vergine profetica lunghe ardenti preghiere. E noi rimaniamo nuovamente perplessi. Si commoverà? Non si commoverà?
Si commuove. — Eccoli salvi — pensiamo. Ma solo pel momento. Perché Teonoe rinuncia a denunciarli, ma non prende parte attiva alla loro salvezza, e li abbandona alle loro risorse. Or voi
trovate dunque alcuno scampo, ed io
lontana andrò, muta sarò.
Eccoci, dunque, ancóra nell’incertezza. Ma non è certo uno stratagemma, una mechané, che possa dar da pensare ai personaggi d’Euripide. Quello che escogita Elena, per quanto Menelao lo battezzi un vecchiume1, è veramente ingegnoso. Ma abboccherà Teoclimeno?
E Menelao ed Elena svolgono la loro trama da maestri. Elena prima esprime il desiderio generico di dar tumulo allo sposo. Poi, giunta al punto di precisare, dichiara che le manca l’esperienza specifica, e cede la parola a Menelao, il quale si comporta con molta abilità, parlando prima di ciò che non può dar sospetto — vittime, letto, armi di bronzo, frutta — poi, quasi fosse un semplice accessorio, di quello che gli sta veramente a cuore: della nave che insieme con tutta quella roba deve portare a salvazione lui e la sposa.
Teoclimeno abbocca, e concede tutto. E noi crediamo infine salvi i due sposi, massime quando, nella scena che segue, sappiamo che Teonoe s’è decisamente schierata per essi, e ha detto al fratello che Menelao è morto.
Se non che, Teoclimeno, uscendo a capo dei servi che portano tutto l’occorrente pel sacrificio, manifesta il timore che Elena, per l’ambascia della perdita, covi il disegno di gittarsi in mare; e insiste perché rimanga. Dette da un innamorato, queste parole fanno temere un nuovo intralcio. Non si verifica: Teoclimeno, anche una volta, cede.
Gli sposi partono. E poco dopo giunge il messo a narrare la loro fuga. E non dobbiamo piú temere per loro, perché Teoclimeno sembra convinto della inutilità d’un inseguimento. Ma il poeta cerca di farci ancor trepidare per Teonoe. Il fratello vuole ucciderla, il coro tenta invano di richiamarlo a mitezza, a indulgenza. E stiamo per piangere sulla sorte della fanciulla, quando, alti nell’ètere, appaiono i Dioscuri.
E questa volta è la buona. Teonoe è salva anch’essa. Teoclimeno si calma, Elena e Menelao si allontanano dall’Egitto col vento in poppa. Anzi, per dolcificazione finale, sappiamo che Elena sarà fatta Diva, e che Menelao andrà nell’isola dei Beati.
A guardar bene, il mezzo e la risorsa di sviluppo è sempre la sospensione dell’esito. Uno, ma certo il piú efficace; ed egregiamente trattato: chi s’interessasse ai personaggi, dovrebbe rimanere durante tutto il dramma in continua trepidazione. Il guaio è che i personaggi non interessano. Abbiamo visto perché. E dobbiamo soggiungere che, anche se fossero meglio caratterizzati, difficilmente potrebbero interessare. L’abbiamo già detto: di fronte a una tradizione tanto radicata nel sentimento e nella fantasia di tutti, questa favola paradossale ha troppo carattere d’inverisimiglianza, di beffa. Non ci crediamo. E dove non c’è fede, non ci può essere commozione.
⁂
Ma se ci volgiamo alle parti liriche, súbito ci parrà di essere trasportati in un’altra sfera. Sono fra le piú ricche ed ispirate di tutto il teatro euripideo. Come un’azzurra scaturigine alpestre zampilla, dopo la grande scena fra Menelao ed Elena, l’invocazione all’usignolo:
Tu che in fondo a vallèe chiomate d’alberi
abiti, in sedi armoniche,
re d’ogni melodia,
canoro augello, rosignolo flebile,
vieni, ed il canto dalla gola fulvida
sgorghi, compagno alla querela mia.
Ed altri ed altri echi rispondono, in tutto il dramma, a questa voce mirabile.
Sarà, nel terzo stasimo (1455 sg.), la vaga pittura del mare in bonaccia. Saranno, poco dopo (1478 sg.), le gru che d’inverno migrano in Libia: il loro capo è detto pastore, il suo lagno, zampogna: umanizzazione strana, efficace e poetica.
E a un certo punto, la immedesimazione del loro volo col volo delle nuvole, sotto le stelle, assume un tono veramente aereo e musicale:
O collilunghe aligere,
compagne al corso delle aeree nuvole,
volate fra le Plèiadi
sotto il notturno scintillar d’Oríone.
E, balzato cosí in cielo, il poeta v’indugia. La volta siderea appare sobriamente, come sempre è dell’arte greca, nella invocazione ai Dioscuri. E alla visione siderea, súbito segue una nuova balenante apparizione dell’Oceano. Dice il coro:
Accorrete, di Tíndaro
figli, che in ciel, dei fulgidi
astri sottessi i turbini,
dimora avete, a salvazione d’Elena!
Venite, sopra i glauchi
marosi, e i flutti ceruli
del mar che bianchi spumano,
brezze impetrate prospere
pei nocchieri, da Giove.
Ma la pagina meravigliosa, la gemma del dramma, è il secondo stasimo: vero poemetto, che rievoca il mito di Demetra in cerca della perduta Persèfone. Nell’ultima parte il poeta si apre la via ad una pittura del mundus dionisiaco: nèbridi, fèrule redimite d’ellera, timpani, chiome squassate all’indietro, luna che piove dal cielo il suo fulgore d’argento: motivi prediletti, che vediamo serpeggiare qua e là in altri drammi del poeta, e che trovano il loro pieno, sinfonico svolgimento, ne Le Baccanti. Ma specialmente ammirevole è la prima parte. La visione della Dea che va errando per tutta la terra, e si abbatte infine, prostrata, sopra una vetta alpestre, fra boscaglie e rupi aspre di ghiaccio, è tra le cose mirabili della poesia greca.
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E dobbiamo soggiungere che, esaminando i brani lirici cosí come ci sono giunti, cioè privi della musica, riceviamo necessariamente l’impressione che nella generale economia del dramma avessero una parte inferiore a quella che ebbero in realtà. Perché la nostra sensibilità non rimane colpita se non dai brani che contengono qualche fulgida immagine, qualche veemente apostrofe, qualche ondata melodica chiaramente percepibile anche nelle nude parole; ma in realtà, anche molte parti che alla semplice lettura non svelano alcun afflato lirico, lo possedevano, nella realizzazione integrale dell’opera, per virtú della musica: la quale, anzi, spesso e volentieri, poteva indurre il poeta a trascurare un po’ le parole.
E nell’Elena le parti cantate sono fittissime. Dopo la scena con Teucro, Elena canta. Canta dopo la scena col coro, e senza che si ritrovi la menoma giustificazione del canto nelle parole, che sono in pura funzione logica:
O amiche, persuasa
fui dal vostro consiglio.
Entrate or nella casa,
entrate, alfin ch’edotte
siate delle mie lotte.
E quando Menelao si convince delle parole del nunzio, e la riconosce sposa, canta; e persevera nel canto, sebbene non le tenga bordone Menelao, che, almeno a giudicar dal suo insistere nel trimetro giambico, séguita per un bel po' a declamare senza note (627 sg.). Poi canta anche lui. E notevole è l’attacco del canto di Elena. Due trimetri giambici — dunque, semplice recitazione — , e poi la strofetta lirica, il recitativo e la cabaletta.
elena
recitando.
Alle amiche, cantando.
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Non importa qui caratterizzare a fondo questa musica (vedi l’introduzione generale). Ma anche dalla semplice analisi metrica risulta che dové avere carattere di aerea levità, con un disimpegno dalla parola per cui essa imponeva le sue leggi e le sue forze, balzando spesso al primissimo piano.
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E la nobiltà artistica e il carattere principale dell’Elena risiedono forse in questa parte lirico-musicale, che, anche quando pare — e pare spesso — remota dall’azione, influisce a colorirla e a modificarne l’essenza: amalgama, e non combinazione.
Anche nell’Ifigenia in Aulide ho rilevato qualche cosa di simile. Se non che, in questo dramma gli eventi sono rappresentati con tanta evidenza, che la parte lirica, aggirandosi intorno ad essi come intorno ad una tangibile realtà, sembra quasi un alone, mirabile, ma un po’ inconsistente. Ed anche nello Ione è da principio creata intorno ai fatti un’atmosfera pittoresca, che li imbeve della sua luce, e a momenti sembra modificarli. Ma ben presto si dissipa, e non torna piú per tutto il resto dell’azione, che si svolge liberamente, nella luce comune.
Nell’Elena, invece, è mantenuta dal principio alla fine questa singolare atmosfera lirico-musicale, mirabile ed irreale, nella quale l’inverosimile ha maggior diritto — o pieno diritto — di cittadinanza.
Onde in essa riescono a prendere forma piú definita e rilievo le figure evanescenti della favola paradossale. Un po come avviene delle meduse, che fuori dell’acqua sono masse informe gelatinose, e immerse nell’acqua acquistano forma, movimento e mirabili iridescenze. Ecco perché, ad onta dei difetti, ovvî al piú modesto acume critico, il dramma si legge con interesse e, insomma, diletta. Non per nulla Wieland se ne innamorò al punto da scriverne una imitazione.
E per questo singolare amalgama, l’Elena rimane isolata ed unica nel teatro d’Euripide.
Ed è insieme il primo esempio di dramma fiabesco; nel quale i personaggi sono fantasmi, e la loro anima si confonde e si identifica con l’anima del ritmo e della melodia. Le loro passioni, anche se dichiarate veementi, le vicende da cui sono travolti, anche se tragiche ed orride, non ci commuovono a fondo, perché sappiamo che tutto finirà in cabalette. Ma non è detto che quelle figure, che, tolte dalla loro sfera, non ci interesserebbero o ci annoierebbero, non possano invece, immerse nella loro luce, darci qualche diletto. Come per esempio, le luminose ombre della lanterna magica.
⁂
La data dell’Elena è ritenuta sicura. Nelle Tesmoforiazuse d'Aristofane troviamo parodie dell’Elena e dell’Andromeda. Di quest’ultima tragedia Aristofane dice espressamente che fu recitata l’anno prima2; e io scoliaste soggiunge che entrambe furono presentate al medesimo agone 3. Le Tesmoforiazuse sono del 411: dunque l’Elena è del 412.
Ma c’è una difficoltà. Nell’Elena, tanto Menelao quanto la sua sposa sono dipinti con colori estremamente simpatici (almeno nelle intenzioni). E con ciò Euripide urta non solo contro la tradizione, bensí anche contro le sue stesse simpatie; perché in tutti gli altri drammi ha trattati ben altrimenti gli eroi spartani (si pensi al Menelao e all’Ermione dell’Andromaca). E accanto a questa implicita manifestazione di simpatia, c’è l’esplicito entusiasmo del coro per il paesaggio, pei miti, pei riti e le feste di Sparta.
Un tale atteggiamento si può spiegare solo con una ragione politica. L’Elena sembrerebbe proprio composta in un periodo di tenerezza con Sparta: di pace imminente o comunque sperata. E con tale ipotesi concordano i sentimenti pacifisti espressi nel primo stasimo:
O stolti, quanti van cercando gloria
nelle pugne, e nell’impeto
delle lancie, e non tentano
senza dolore un termine degli uomini
porre alle doglie amare.
Ché, se il sangue decidere
deve, qual mai città potrà desistere
dalle cruente gare?
Ma intorno al 412, invano si cercherebbe un tale periodo di spartanofilia; e non convince il Patin, quando dice che Euripide potè aver lo scopo di preparare gli animi alla pace. Con gli umori che dovevano correre in Atene quasi subito dopo il tremendo rovescio di Sicilia, ci sarebbe stato da farsi lapidare. Vero che anche la Lisistrata, anch’essa del 411, è un’apologia della pace. Ma non un’apologia di Sparta; e poi, il tèma, del resto abituale nel teatro d’Aristofane, è svolto e graduato con somma abilità. E poi, la commedia era la commedia.
D’altro lato, mi sembra assai significativa una somiglianza che intercede fra le due invocazioni all’usignuolo dell’Elena e degli Uccelli d’Aristofane. Tutti, credo, ne rimarranno colpiti anche leggendo le versioni; ma la portata della somiglianza si rivela assai maggiore se si leggono i testi; e qui citerò alcune espressioni quasi identiche:
Elena, 1110:
Ἐλθ´ ὦ διὰ ξουθᾶν γενύων ἐλελιζομένα
θρήνοις ἐμοῖς ξυνεργός.
Uccelli, 213:
ἐλελιζομένης δ´ἱεροῖς μέλεσιν
γένυος ξουθῆς.
La derivazione sembrerebbe evidente. E se ci fu, certo fu derivazione di Aristofane da Euripide. Allora, pensando che, in fondo, l’unica garanzia cronologica posa sulla testimonianza dello scoliaste, il quale potè essere indotto a stabilire una uguale cronologia per l’Elena e per Andromeda dal fatto che vedeva i due drammi parodiati nella stessa commedia, si potrebbe congetturare che l’Elena fosse anteriore agli Uccelli (414). Se non che, per ritrovare un clima politico favorevole all’Elena bisognerebbe avvicinarsi alla pace di Nicia. Ma il 421 sembra veramente una data un po’ troppo alta per il tipo romantico lirico a cui appartiene il dramma. Meglio forse varrà attenersi alla data tradizionale, senza però dissimularsi le difficoltà che si oppongono ad una sua pacifica accettazione.
ELENA