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Alla fine di questo dramma, i Dioscuri, congedandosi, dicono:
Sopra il mar di Sicilia, in gran fretta
noi moviamo, a salvare le prore
ch’ivi inoltrano.
I critici osservano giustamente che questi vascelli da tutelare non possono essere se non quelli d’Atene. Ma non già la flotta del 415, che salpò da Atene il mese di Giugno, quando le Grandi Dionisie erano state già celebrate da un pezzo; bensí quella spedita in soccorso di Nicia il 413, al principio della Primavera, e, dunque, in coincidenza con le rappresentazioni tragiche. La comandava il generale Demostene, pel quale sembra che Euripide nutrisse una stima particolare.
D’altra parte, gli stessi Dioscuri narrano il ratto d’Elena secondo la versione stesicorea, che Euripide svolge nella sua Elena, rappresentata, qui abbiamo la data sicura, il 412. Sicché, questa narrazione de l’Elettra sarebbe uno di quei preannunci, frequenti nei poeti tragici come nei comici, di lavori già vagheggiati. E non sogliono precedere di molto le relative realizzazioni.
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Certo, questo dramma appartiene ad un momento in cui il poeta piú decisamente si orientava verso la nuova formula d’arte, che dicemmo romantica (vedi prefazione allo Jone). Ad una metamorfosi romantica, poco si prestava l’argomento, troppo rigidamente fissato dalla tradizione. Ma, senza dubbio, con le risorse del suo libero e multiforme ingegno, Euripide riuscí ad infondere un senso di freschezza nell’antichissimo soggetto.
E non tanto coi mutamenti di particolari introdotti nello svolgimento delle vicende: Egisto ucciso nei campi anziché nella reggia: il riconoscimento tra Oreste ed Elettra, che non avviene spontaneamente, bensí per opera del vecchio servo: l’insidia (una delle tante mecanài aborrite da Aristofane) tesa da Elettra alla madre; e neppure con la trovata, che dové sembrare arditissima novità, di fare Elettra sposa d’un bifolco: bensí con la fondamentale concezione dei caratteri.
Perché tanto ne Le Coefore d’Eschilo, quanto nella Elettra di Sofocle, la miserevole sorte a cui la madre snaturata e il suo drudo sottopongono la misera fanciulla, non intaccano, anzi neppure sfiorano l’altera regalità del suo spirito. Stato servile, sordide vesti, esclusioni, codardi affronti, scivolano su lei lasciandola intatta, come un lutulento rigagnolo sopra un blocco di lucido oro. Verso tutti e contro tutti essa ha cuore e parole di regina, sorda, non solo ai comandi, bensí anche alle amorevoli suasioni. E chi tenta distoglierla dai suoi fieri propositi, sia pure per affetto, diviene oggetto del suo odio. Nella Elettra, in una scena violentissima, dice alla sorella Crisotèmide:
T’invidio il senno; ma sei vile, e t’odio.
Ma ben altra è l’Elettra d’Euripide. Non solo si rassegna alle nozze con un bifolco (l’Elettra di Eschilo o di Sofocle avrebbe prima affrontate cento morti); ma, riconoscente per il rispetto che le dimostra il brav’uomo, finisce, insomma, per adattarsi alla sua misera sorte, e sobbarcarsi alle faccende domestiche. È suo dovere, dice ad Auturgo che tenta distoglierla:
per quanto posso, alleggerir ti devo
dalle fatiche, sí che men ti pesino,
partecipare i tuoi travagli. Assai
tu lavori pei campi: spetta a me
la cura della casa: a chi lavora,
piace, tornando, trovar tutto in ordine.
Saggissime riflessioni, da brava donna; ma non da eroina. E questa Elettra non sembra parente, neppure alla lontana, di quelle di Eschilo e di Sofocle. La novità è raggiunta.
Ma sulle labbra di una tale fanciulla sembrano poi stonate le atroci affermazioni: — l’eccidio di mia madre io compierò — ch’io sgozzi, sveni mia madre; e poi muoia. — E poco convincono i suoi feroci insistenti incitamenti ad Oreste.
Ad ogni modo, le parole son parole. Ma come reggerà poi all’urto dei fatti?
Non regge, infatti. Appena compiuto il delitto, la assale il pentimento. E chiama lagrimevoli gli eventi, e rivolge a sé stessa l’accusa di avere istigato Oreste, e si rammarica che nessuno l’accoglierà piú fra le danze, nessuno vorrà piú sposarla. Il mutamento è tale, che il coro lo sottolinea.
Di nuovo, ecco, il tuo spirito
muta: col vento va.
Pia ti dimostri adesso;
ma pia non fosti: il tuo fratel perplesso
era, e la tua parola indotto l’ha.
Questa esitanza, questo perpetuo volere e non volere, rientrano perfettamente nel quadro della psicologia umana. Un critico moderno, il Parmentier, ha definito Elettra una impulsiva, e ha detto bene. E di fronte alla Elettra di Eschilo, e, quasi piú, a quella di Sofocle, le cui prime parole, quando vede Oreste con le mani intrise del sangue materno, sono: «Morta è l’indegna?», questa Elettra sembra piú umana, e, se volete, piú simpatica.
Ma infinitamente meno tragica. E nessun dubbio che femmine impulsive dovettero esistere anche ai tempi di Euripide e d’Elettra, e che il poeta, ispirandosi, per foggiare la sua eroina, ad un tipo studiato dal vero, fece opera sostanzialmente legittima. Ma nelle ineliminabili angustie della realizzazione scenica, queste contraddizioni della impulsività, troppo crude e messe troppo a contatto, si risolvono in una disuguaglianza ed una irrequietudine che nuoce alla illusione, e, in ultima analisi, all’opera d’arte.
E altrettanto bisogna dire per Clitemnestra. Essa non è piú la terribile viragine d’Eschilo, che, saputa la morte di Egisto, chiede una scure, pronta a cimentarsi, e se occorra, ad uccidere il figlio, come già uccise il padre, e che avanti a tutto il popolo d’Argo ostenta il suo adulterio, e quasi le turpi voluttà del suo talamo peccaminoso. E neppure la feroce spudorata di Sofocle, che gareggia di contumelie con la figlia, e la chiama svergognata e mostro, e le lancia odiose minacce:
Scontar dovrai, lo giuro per Artèmide,
tanta insolenza, come Egisto giunga.
Invece la Clitemnestra di Euripide si vergogna di farsi vedere in pubblico con Egisto. E appena sente che sua figlia è fresca di parto, accorre, e mostra pietà del suo stato; e ai suoi rimproveri risponde ragionando punto per punto; e alla fine del suo discorso, senza richiesta, spontaneamente, le concede libertà di parola. E perché quella dimostra il timore che, sentendola parlar troppo liberamente, vorrà poi punirla, risponde:
No: voglio opporre ai sensi tuoi dolcezza.
E dopo la requisitoria di Elettra, che, per essere meno tragica, non è però meno feroce di quella dell’Elettra di Sofocle, non trova parole di risentimento e di biasimo, ma solo di compassione. Persino di rimorso.
Ma cosí, senza bagno, e in vesti misere,
figlia, ti trovo, quando sei puerpera,
fresca di parto. Oh me misera, quanto
male avvisata fui! Troppo oltre il segno
mi spinse l’ira contro il mio consorte.
Umana, e infinitamente meno odiosa delle figure di Eschilo e di Sofocle. Ma l’eroismo è sfumato. E con l'eroismo, la tragicità.
E cosí in Egisto. Si rilegga la scena del messo che narra la sua morte. Tutta la sua condotta è ispirata ad una gentilezza signorile, che d’altronde discorda stranamente col contegno di profanatore, che, a dire d’Elettra, soleva tenere verso la tomba d’Agamennone. E quando lo vediamo, prima offuscarsi per un triste presentimento, e poi procombere, muta vittima, colpito dal ferro d’Oreste, e a tergo, e, insomma, a tradimento, difficilmente riusciamo a vincere un senso di pietà.
Ma la maggior gentilezza e umanità conferita a queste figure tradizionalmente odiosissime, non concorre ai fini ultimi della tragedia. La tragedia di Eschilo e di Sofocle si regge sull’esatta proporzione fra l’orrore, per l’animo nostro intollerabile, degli eventi rappresentati, e l’immane ferocia degli animi che devono affrontarli. Questi spiegano quelli; e reciprocamente. In Euripide, invece, l’equilibrio è rotto. Quelle psicologie sono impari a quegli eventi. Anime non tragiche fra tragicissime vicende. Disagio, disequilibrio, e, in conclusione, difetto estetico.
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Del resto, qualche luce di pura tragicità non poteva mancare in un dramma tragico, e del poeta, per giunta, che fu dagli antichi salutato «tragicissimo». E la troviamo, infatti, e assai rifulgente, alla fine del riconoscimento tra i due fratelli. Oreste, Elettra e il vecchio servo invocano Giove, Era, e il padre defunto, perché dal cielo e di sotterra soccorrano alla loro battaglia. Questo terzetto è veramente di altissima efficacia, e sposa l’impeto lirico a una gran tragicità. Ma, ahimè, non è se non l’eco, e, tutto sommato, un po’ languida, della prodigiosa implorazione de Le Coefore. Poche battute prima Euripide aveva scorbacchiato Eschilo. Ora il Titano d’Eleusi s’insinua nell’opera del suo critico, e conia del suo spirito immenso l’unica scena che in questo dramma sembri veramente ispirata dal Diòniso tragico. Allegra vendetta del genio.
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S’intende poi che, se, con uno sforzo d’astrazione, riusciamo a strappar questi personaggi dalla compagine drammatica, e a considerarli in sé, riescono forse piú interessanti dei personaggi puramente tragici; tanto, quanto sono piú vicini alla comune verità, alla media degli spiriti.
Perché, se il sovrumano ci può sorprendere e colpire di piú, l’umano, puramente umano, e, se si vuole, meschinamente umano, riesce a cattivare piú a lungo la nostra attenzione, il nostro interesse. Questa è la ragione per cui gli antichi poterono preferir Menandro ad Aristofane, e, anche ai nostri giorni intollerantissimi, Goldoni si regge cosí mirabilmente sulle scene. Certo le fiere invettive che nel dramma di Sofocle Elettra scaglia contro la madre, ci fanno inorridire, e toccano assai profondamente la nostra sensibilità; e quando, invece, in Euripide, sentiamo Elettra ricordare a Clitemnestra che, appena partito lo sposo, ella correva ad agghindarsi e a vagheggiarsi allo specchio, ci sentiamo un po’ urtati, perché la tragedia sembra inclinare, e fuori di tempo, verso la commedia. Eppure, mentre dopo un certo tempo le invettive della prima sfumano nel nostro ricordo, e vi rimangono con impronte languide e generiche, le immagini borghesi e quasi comiche evocate dalla seconda vi persistono indelebili, con ciascuno di quei futili particolari.
E lo stesso si può ripetere, su per giú, pel discorso di Elettra sul cadavere d’Egisto. Anche qui, al fatto eroico è applicata la morale borghese, implacabilmente. Tristo l'amante d’una moglie altrui, che poi è costretto a sposarla. Vergogna, quando in casa fa da padrona la donna e non l’uomo. Stolto chi sposa una donna piú celebre di lui, e diviene cosí il marito di sua moglie. — Tutte considerazioni terra terra, d’accordo, ripetute sino alla nausea da tutti i borghesucci d’Atene. Ma tant’è: c’interessa un mondo vedere che, applicate ai grandi, ai potenti, agli eroi della storia e del mito, non fanno una grinza, anzi spesso e volentieri servono a spiegare tante circostanze e tanti dubbî che altrimenti sembrano oscuri e inesplicabili.
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E poi, come accade, il poeta esagera. Quando, nelle prime scene, Elettra, appena entrati Oreste e Pilade, comincia a pensare alla difficoltà di ospitarli, e rimprovera il marito di averli invitati, e lo manda a cercar provviste, e tutto senza economia di particolari, ci vien fatto di pensare che davvero la corda tragica sembra troppo rallentata, e che non fossero destituite d’ogni fondamento le acerbissime critiche di Aristofane.
E cosí, pare che qualche volta, veramente, il tòno del linguaggio declini troppo. «Donde ti giunge — chiede Oreste ad Elettra — questo rudere d’uomo?» — «Pare — dice quando il vecchio lo osserva — che scruti il bollo dell’argento». C’è l’ombra della commedia.
E poi la logica diventa sofistica, e cosí, non di rado, involontariamente comica. «Se — dice Clitemnestra per togliere ogni attenuante allo scempio d’Ifigenia — avessero rapito Menelao, io avrei forse dovuto uccidere Oreste?» — Ora, con questa ipotesi di un «ratto di Menelao», siamo nella parodia, a momenti nella farsa.
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Naturalmente, i vantaggi della concezione borghese, che nelle figure tragiche rimangono mortificati e menomati, assumono nelle figure medie il loro pieno valore.
Cosí, è figura artisticamente perfetta, sebbene affatto secondaria, il vecchio servo salvator d’Oreste pargolo, che giunge a recar le provviste chieste da Elettra.
E addirittura meraviglioso Auturgo. Superfluo aggiunger parole al concorde coro d’ammirazione che i critici levaron sempre, giustamente, per questo personaggio. Non solo è il piú simpatico dell’Elettra, ma è anche, nel teatro d’Euripide, l’unico immune da macchie.
Il poeta che per eccessivo amore di analisi va a scoprir la fodera dei sentimenti anche piú generosi, che non sa resistere alla tentazione di gittare qualche ombra anche sulla divina figura di Alcesti, di fronte a questo campagnuolo rinuncia a questa sua non simpatica mania, e vuole anzi bene specificato che nella sua condotta cavalleresca Auturgo agisce solo per nobiltà d’animo.
oreste
elettra
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Sicché, per lui bisogna fare un ragionamento in certo senso contrario a quello fatto per Elettra, per Clitemnestra e per Egisto, e che si può anche ripetere per Oreste. Mentre Auturgo non ha verun obbligo d’essere eroe, personaggio da tragedia, la sua condotta invece è tale che lo eleva sicuramente alla sfera dell’eroismo. È difatti la figura che piú ci rimane impressa. E vederlo sparire, appena presentato, ci lascia insoddisfatti e delusi. Fra gli oblii letterarii è questo uno dei piú incresciosi.
Meno nel vero mi sembrano i critici (a capo il Weil) che vogliono ravvisare in lui un simbolo della democrazia, che dunque Euripide avrebbe qui esaltata, ponendola di fronte e a detrimento della aristocrazia, con una intenzione esplicitamente messa in rilievo nel monologo d’Oreste. Non mi sembra che sia proprio cosí. In quello stesso monologo, Oreste non conclude, come tanti illusi della democrazia, che il buono c’è solamente nel popolo: anzi dice chiaro e tondo che nella povertà è già insito un morbo, e che il bisogno è consigliere di mali. E conclude, assai filosoficamente, che
tutti gli eventi regge il caso, e al caso
bisogna abbandonarli.
E, senza paradosso, mi sembra, se mai, qui, come in altri luoghi spesso addotti come indici di spirito democratico, che Euripide si dimostri piuttosto aristocratico. Ricordiamo che Auturgo proclama d’esser nato
di padri micenèi, di stirpe illustri,
ma di sostanze poveretti.
A guardar bene, queste parole mi sembrano ispirate alla medesima tendenza per la quale, in tutti i racconti popolari, l’eroe che da principio si presenta in vesti di povero e di plebeo, alla fine, quando, novantanove su cento, sposa una reginetta, si scopre che anche nelle sue vene scorre un sangue piú azzurro dell’indaco. Non dunque democrazia, bensí omaggio reso dalla democrazia ad una aristocrazia contemplata con un po’ d’invidia e con molta ammirazione. Diciamo la parola: con spirito borghese.
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Di queste figure medie e comicizzanti si avevano già esempii in Eschilo (Cilissa, la nutrice de Le Coefore) e in Sofocle (guardiano dell’Antigone). Ma sporadiche, e non mai portate al primo piano; né la loro psicologia stingeva su quella degli altri personaggi. Invece qui nell’Oreste ce ne son due, ed una di esse ha quasi le proporzioni d’un protagonista; e tutti gli altri personaggi presentano con loro un’aria di famiglia.
Se poi sullo schermo della nostra fantasia tentiamo un confronto fra i personaggi che dicemmo medii o borghesi, e gli altri, puramente tragici, questi ci parranno simili a marmorei candidi altorilievi, e quelli a figure di intensa e minuta policromia, minuziosamente rifinite in ogni particolare. Deliziosi fittili alessandrini di fronte alle statue del secolo V. Ed hanno maggiore illusione di vita, e, se volete, incatenano di piú la nostra curiosa attenzione; ma son prive della virtú idealizzatrice che coglie la quintessenza delle cose, e lascia cadere le contingenze, anche graziose, anche meravigliose, compiendo opera semplificatrice, ma insieme purificatrice e conservatrice. La virtú per la quale vissero nei secoli le figure di Fidia.
Dalle varie combinazioni e contaminazioni di questo duplice ordine di figure riesce determinato, per buona parte, il carattere dei varii drammi d’Euripide.
Né diremo che la prevalenza dei tipi medii segni un decadimento. Ma certo è uno dei principali fattori di trasformazione: è una delle crepe dalla quale piú largamente effluisce e si perde, senza piú recuperamento, il puro lirismo tragico, dal quale ebbe vita, nei suoi tempi gloriosi, il sacro dramma di Diòniso.
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Tra i principali fattori del romanticismo d’Euripide abbiamo annoverato (prefazione allo Ione) il paesaggio. Rievochiamo alla nostra fantasia il quadro complessivo della Elettra, e avremo l’impressione che qui abbondi piú che in qualsiasi altro dramma d’Euripide.
Anche in altri drammi, non solo d’Euripide, ma anche dei suoi predecessori si trovano lunghe pitture di paese (incomparabile quella del bosco di Colono). Ma tutte, tranne lievissimi accenni, affidate a cantici del coro. E allora, sia perché, confinate in tale ufficio lirico, rimangono come isolate ed incapsulate, sia, in primissimo luogo, perché giungono quando il dramma è già in pieno avviamento, e gli animi sono protesi all’interesse dell’azione, non hanno la virtú, che ad ogni modo non potrebbe essere retroattiva, di creare intorno alle vicende un’atmosfera paesistica, una scena.
Questo intese Euripide, oscuramente o coscientemente. E qui, come nella Ione, come nella Ifigenia in Aulide, pone súbito in principio gli elementi paesistici; i quali servono cosí ad integrare la scena reale, schematica e sommaria, prima che s’inizi la vicenda drammatica, preoccupando gli spiriti degli spettatori sensibili — e sappiamo che la folla, nel suo spirito collettivo possiede sempre una squisita sensibilità — e creandovi la precisa immagine dello sfondo sul quale il poeta ha visto nella sua fantasia agitarsi i personaggi del suo dramma. Sfondo che nella concezione d’un vero poeta ha sempre grande importanza.
E dopo questa pittura, qui, come nello Ione, come nella Ifigenia in Aulide, non si trovano piú altri accenni. Ma i primi bastano per tutto il dramma: tanto energica è la loro impronta. Anzi soggiungo che, siccome non c’era cambiamento di luogo, una qualsiasi nuova intromissione paesistica, mentre gli animi di tutti erano intenti e trepidi dietro lo svolgersi del dramma, sarebbe riuscita superflua, se non addirittura inopportuna e fastidiosa. Pensiamo a quanto avviene oggi, con le perfettissime scene moderne. Servono ad impressionare un primo momento, e l’impressione perdura tutto l’atto. Ma chi pensa piú ad ammirarle, durante lo svolgimento dell’azione?
Ciò premesso, osserviamo che in nessun dramma forse Euripide ha cosí felicemente risoluto il problema di questa scenografia suggerita dalla parola.
Rievochiamo in noi la prima scena; e vedremo che pochi brani di poesia rendono con tanta efficacia l’incanto delle ultime ore notturne, quando la tènebra è già corsa dal presentimento della luce imminente. Di giorno, e in una scena all'aperto, sembra impossibile crear l’illusione della notte. Eppure, qui, dalle parole del poeta vapora una magia, e si determina una scenografia che per essere di sole parole non riesce meno efficace, per ogni spirito sensibile, di qualsiasi altra, realizzata per il senso della vista.
E la nostra ammirazione pel poeta cresce se consideriamo la sobrietà dei suoi mezzi. Un saluto d’Elettra alle «stelle d’oro». L’annunzio che tra poco i bovi andranno al lavoro. Poi sappiamo che il fiume è poco lontano; e la brocca sul capo della fanciulla quasi ce ne fa sentire il mormorio. Si istituisca il confronto con la prima scena dello Ione, efficacissima anch’essa, ma tanto piú ricca di particolari. E si avrà la precisa sensazione della sobrietà di questa Elettra, che non riesce punto inferiore per suggestione poetica.
E nei cori, come abbiamo già detto, non c’è piú quasi verun tratto di paesaggio. C’è la millesima rievocazione dell’impresa di Troia, e di lí si risale alla storia del vello d’oro e dello scempio d’Atreo. Nel complesso, servono, come già gli altri drammi, a disegnare come un ultimo piano quel quadro scenico. Ma è abbozzato fugacemente. Ad altro è rivolto, evidentemente, l’interesse del poeta.
⁂
Il trattamento della musica è anche qui quello che abbiamo dichiarato caratteristico della trasformazione romantica (prefazione allo Ione, etc.). Anche qui troviamo monodie, in punti nei quali sembrerebbe piú opportuna la semplice declamazione. Ma, innanzi tutto, mi sembra notevole la forma della pàrodos, che qui, come nello Ione, è convertita in monologo lirico di un personaggio.
Però, mentre nello Ione tutta questa pàrodos è affidata a Ione, e poi entra il coro, cantando una quantità di strofe in funzione lirica, in maniera da costituire come una seconda pàrodos, qui nell’Elettra, quando il monologo della fanciulla si è effuso per due coppie strofiche, entra il coro. E non entra in funzione lirica, bensí in funzione drammatica, recando notizie di avvenimenti futuri.
O figlia d’Agamènnone,
al tuo tugurio questa schiera d’amiche or viene.
Un uomo giunse, un uomo solito il latte a mungere
sui monti di Micene:
reca l’annunzio che ad offrire vittime
s’appresta la città,
come tre giorni volgano;
e al tempio d’Era ogni fanciulla andrà.
Né qui segue, come nello Ione, una seconda pàrodos. Qui una parte che la tradizione riserbava al coro e ad un ufficio lirico, è usurpata da un personaggio; e il coro interviene in funzione drammatica. L’ottica è addirittura capovolta: alla tragedia è subentrato il melodramma.
Ed anche qui, come in altri drammi, si presenta alla nostra sensibilità il problema come in alcuni punti, per esempio all'uscita di Oreste, dopo lo scempio materno, il canto potesse accrescere l’intensità passionale del dramma.
Ma in arte non si può dar giudizio se non sull’opera compiuta. E anche qui, per decidere, dovremmo possedere la musica, e sapere con precisione come fu eseguita.
E neppure dobbiamo dimenticare il coro di antiche testimonianze, che esaltano, in genere, il potere della musica. E, venendo specialmente a questa Elettra, va ricordato un aneddoto riferito da Plutarco nella vita di Lisandro (XV). Nel banchetto di Lisandro e dei generali, un musicista di Focide cantò il brano della pàrodos, nel quale le donne del coro compiangono Elettra. E i vincitori, commossi dal confronto fra la decadenza della figlia d’Agamènnone e quella d’Atene, rinunciarono al proposito di distruggere la città.
Un’altra novità appare realizzata nell'Elettra col taglio generale del dramma. Infatti, l’uccisione d’Egisto avviene a metà: sicché, con l’arrivo di Clitemnestra, si inizia quasi un secondo atto, il cui principio è segnato da un lungo saluto anapestico del coro. Cosí, il duplice omicidio è sfruttato per la costruzione di due catastrofi, ben distinte, conclusa la prima dal lungo discorso di Elettra sul cadavere di Egisto, l’altra dal mirabile terzetto fra i due fratelli ed il coro.
⁂
L’apparizione, cosí pittoresca, del vecchio aio d’Oreste, le sue parole, cosí semplici e commoventi, son guastate dalla scena che segue, nella quale, per mezzo delle risposte di Elettra al buon vecchio, si effettua la critica ai mezzi escogitati da Eschilo per documentare ad Elettra la reale essenza di Oreste: il colore delle chiome, l’orma del piede, il tessuto del peplo.
Il Parmentier, giudice pieno di finezza e di gusto, difende Euripide. «In genere — egli dice (op. cit., 184) — i moderni hanno commesso l’errore di prender troppo sul serio la caricatura d’Euripide, considerandola come vera critica drammatica. In verità questo intermezzo non è altro se non una innocua parodia; e la parodia, per sua propria essenza, è aliena dalla riflessione seria. Bastava ad Euripide che la sua si presentasse con una apparenza momentanea di verisimiglianza, e producesse un certo effetto di sorpresa e di buon senso. Il suo giuoco consisteva nel divertire il pubblico, sconcertando per un istante la sua ammirazione verso un capolavoro che non aveva mai analizzato».
Sta benissimo. Ma le medesime determinazioni di questa difesa, facilmente si ritorcono in accuse. Euripide, dunque, non va preso sul serio; questa scena, è una parodia; cioè un gioco, uno scherzo. — Ma in arte non si gioca, non si scherza fuori di luogo. L’arte non è meno seria della vita. Nella illusione, nella convinzione infusa in cuore agli spettatori che essi assistono a veri eventi, e non già a finzioni, consiste il fàscino supremo d’un dramma. Ma se l’autore mostra di non credere alla verità dei suoi fantasmi, perché ci dovrà credere lo spettatore, perché dovrà commuoversi? Qui acquista il suo pieno diritto il si vis me flere d’Orazio. E con l’intrusione d’una polemichetta, d’un pettegolezzo, Euripide frange l’illusione, senza riparo. Non avrà peccato contro Eschilo, ma ha peccato contro l’arte.
E il dramma ne riesce macchiato. E questa mancanza di serietà, che non di rado si riscontra nell’opera d'Euripide, ne costituisce una delle innegabili debolezze.
E c’è anche l’aggravante che i suoi appunti ad Eschilo sono d’un gretto razionalismo. E poi, si potrebbe rispondere con Figaro: a pedante, pedante e mezzo. Se è inverosimile che Elettra accetti per segno di riconoscimento il colore dei capelli, neppure convince che accetti come prova definitiva l’unica offertale del vecchio servo: una cicatrice sul ciglio.
⁂
Ed ora si potrebbero allineare i soliti difetti, comuni a tutto il teatro d’Euripide, e alcuni dei quali, per esempio lo spirito sofistico e razionalistico, appaiono qui in buona misura. Ma lo abbiamo già fatto altre volte; e ciascun lettore potrà facilmente rilevarli, e valutarne l’importanza.
Piuttosto, potrebbe riuscire specialmente interessante, per questo dramma, una antologia di giudizi critici: perché a proposito dell’Elettra la teratologia filologica ha compiuti, dallo Schlegel in poi, alcuni dei suoi piú brillanti prodigi. Atteniamoci a un paio dei piú recenti.
Si sa bene che i critici modernissimi sono tutti filosofi. Ed anche è risaputo che un filosofo è un cacciatore di perché, di warum. Anche il signor Steiger è andato a ricercare (Philologus, 1897) warum schrieb Euripides seine Elektra.
Noi profani risponderemmo che la scrisse perché lo seduceva il soggetto che aveva sedotto i suoi grandi predecessori, e che sedusse tanti altri, grandi e piccoli, suoi successori. Ma il signor Steiger istituisce, assai piú filosoficamente, il processo alle intenzioni. E scopre che la scrisse per l’indignazione di aver visto presentar sulla scena, senza una parola di biasimo, una leggenda che repugnava alla sua illuminata coscienza; e assunse il còmpito di abbassare al suo giusto livello l’eroina che i suoi predecessori avevano fatta ammirare.
A cacciatore, cacciatore e mezzo. Il Wilamowitz cerca anch’egli il suo bravo perché; ma lo cerca alle spalle di Sofocle. Il quale avrebbe scritta la sua Elettra dopo quella di Euripide, per rendere la sua grandezza eroica e sacra ad un soggetto umiliato e profanato da Euripide.
Ora, lasciando le celie, che i drammaturghi non si vedessero l’un l’altro troppo di buon occhio, s’intende. Che non si lasciassero sfuggire l’occasione di tirarsi frecciate, è piú che naturale, e, d’altronde, comprovato. Ma che affrontassero la grave fatica di costruire tutto un dramma poetico musicale per far dispetto ad un rivale, o per confutare la tendenza d’un suo dramma, mi parrebbe assai meno ammissibile. Certo, poi, sembra piú che imprudente farne la supposizione, per fondarvi e trarne conclusioni cronologiche, o che comunque aspirino alla obiettività.
E, ad ogni modo, bisogna far quasi completa astrazione dai difetti di particolari, tanto presunti, quanto reali, se si vuol tentare una valutazione artistica del dramma. Il punto capitale, è vedere se e come sia riuscita l’applicazione della formula romantica a questo soggetto ultra-classico.
E da quanto fu discorso, ci sembra risulti chiaramente che, pesati i vantaggi e gli svantaggi, il bilancio riesca nel complesso favorevole ad Euripide.
Egli è già qui sulla via che batterà poi con passo franco e vittorioso nella Ifigenia in Aulide. Scoprire nel soggetto prescelto gli elementi di commozione umana, e lavorar su quelli direttamente, togliendo di mezzo, spesso con ostentazione, ogni speciosa vernice d’eroismo. Se ne va, cosí, lo spirito dionisiaco; ma l’interesse rimane; e quando un’opera d’arte riesce ad interessare, si sottilizzi finché si vuole, ma è opera riuscita. E questa Elettra è, per consenso comune, uno dei drammi che piú incatenano il nostro interesse.
E, a parte ciò, bisogna rilevare che in esso abbondano i luoghi insigni per pura eccellenza artistica. Il discorso di Elettra sul cadavere di Egisto è quanto si può immaginare di piú vibrante e drammatico. La strage di Clitemnestra è descritta, nel kommòs, con una evidenza di particolari drammatici emula della rappresentazione diretta. Il duetto finale, per la sua virtú di commozione, va annoverato fra le gemme del teatro d’Euripide. E notevole è tutto il finale, in cui, con effetto che ritroveremo poi nelle Baccanti, ma che qui forse era nuovo, si effettua la catarsi — se per catarsi intendiamo una purificazione dal culmine dell’orrore tragico, ottenuta col ritorno di una piena ondata di sentimenti umani, dopo la furia sfrenata della disumana ferocia inerente alla tragedia.
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