< Elogio della vecchiaia < VII
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Capitolo settimo: La pazienza
VII VII - L'indulgenza

All’economia ho già dedicato tutto un capitolo. Vediamo di studiare le altre virtù negative, che indorano l’orizzonte del vecchio sano e felice.

Il giovane è per sua natura poco paziente. Ha la pelle fina e irascibile e ogni puntura di spillo è per lui un’offesa fatta alla sua dignità e contro cui reagisce violentemente. Non offende e non vuol essere offeso; cerca la gioia e la vuole piena, festante. Ha molto da fare e non vuol esser seccato. Quando sulla via trova un seccatore o una seccatura, getta l’uno e l’altra da parte; senza badare se il suo pugno abbia fatto male a qualcuno o a qualche cosa.

Non essendo paziente, non è tollerante, né indulgente; dacché la tolleranza e l’indulgenza sono figliuole legittime della pazienza.

Il vecchio invece ha imparato con una lunga e spesso dolorosa esperienza che molte seccature sono necessarie condizioni della vita, e che il volerle abbattere con la violenza è lo stesso che dare un pugno ad un tronco, che ci contende il cammino. Il tronco rimane al suo posto e la nostra mano ne rimane ferita o storpiata. E il vecchio si guarda bene dal voler abbattere la pianta, ma la gira, continuando il suo cammino.

Il giovane quando coglie le rose è ben raro che non si punga e non ne abbia insanguinate le mani. Il vecchio coglie le rose e non si punge mai.

La pazienza è buaggine, quando si sopportano i dolori, senza calmarli o guarirli con l’igiene della filosofia o con la terapeutica delle forze avverse.

La pazienza è virtù, quando si sopportano i dolori non sanabili né con l’igiene né con la terapia.

Il lamento breve, automatico può essere il grido spontaneo e irresistibile della natura offesa; ma quando dura, è la confessione umiliante della nostra debolezza, della nostra impotenza.

È verissimo che la pazienza è resa più facile al vecchio, perché in lui è minore la sensibilità; ma non cessa per questo di essere una virtù, ch’egli è andato acquistando con lunga fatica.

Egli ha anche imparato a sue spese che nulla è più prezioso del tempo e le ore o i giorni spesi nel lamentarsi sono una pura perdita del più prezioso dei capitali. I grandi uomini hanno trasformato i loro dolori in grandi opere d’ingegno o in alti eroismi. Goethe guarisce da un amore infelice scrivendo il Werther; e Garibaldi fulminato da una sventura crudele e umiliante pel suo cuore, guarisce con la spedizione dei Mille.

Senz’essere né Goethe né Garibaldi tutti i vecchi trasformano i loro dolori, i loro disinganni in pazienza; in una pazienza non vile, ma saggia, in una rassegnazione che non è soltanto cristiana, ma umana; in una forza d’inerzia che resiste al male e lo vince. Ad impossibilia nemo tenetur: egli ripete a se stesso e più volte questo assioma, che diventa guida fedele nel cammino della vita, così pieno di spine, di ostacoli e di inciampi.

Molti anni or sono alle mie lezioni pubbliche di antropologia non mancava mai una vecchia signora, che mi ascoltava con viva attenzione e a cui io guardava più volentieri che a cento altri uditori perché aveva nel volto un eterno sorriso, fatto di bontà e di contentezza.

E speravo sempre che mi si offrisse un’occasione per conoscerla da vicino e scoprire il segreto di quella felicità, che irradiava intorno a sé la simpatia e l’ammirazione.

Un giorno essa venne a domandarmi uno schiarimento ed io non potei resistere alla tentazione di confessarla.

"Ella deve essere ben felice, cara signora, perché le si legge in faccia una perpetua giocondità e fa tanto piacere il guardarla, ch’io nelle mie lezioni spesso non parlo che per lei."

La buona signora si mise a rider forte, ma non disse verbo.

Ed io:

"Ella deve avere una famiglia, che la circonda di tenerezze e di amore, dei nipotini che giocano con lei..."

E la buona signora, ridendo ancora, si scoprì un braccio: "Ella già è medico e non avrà ribrezzo di vedere una cosa molto brutta..."

Aveva una piaga cancerosa estesissima, che le divorava pelle, muscoli, ossa...

"Oh povera signora, quanto deve soffrire... Ma come può ella assistere alle mie lezioni col volto sempre sorridente... perché ella deve soffrire dolori atroci..."

"Sì, ma non sempre. Ed io sorrido, perché sono paziente e non voglio ispirare compassione o ribrezzo ad alcuno. So che di questo male devo morire e cerco di passare meno male possibile i miei ultimi giorni. Assisto a molte lezioni, vado in teatro e soprattutto mi diverto con me stessa, mostrandomi più forte del mio male. È una specie di amor proprio, di eroismo modesto quello di vincere il dolore e di mostrargli, che io sono più forte di lui. Quando non ne posso proprio più e mi scappa un lamento, anche quando nessuno lo sente, io mi trovo avvilita; quasi come deve esserlo un generale, che ha perduto una battaglia, o un avvocato che ha perduto una causa, e mi propongo di essere più brava un’altra volta. L’assicuro che son riuscita a stare sette giorni intieri senza dire un ahi o un oh. E godo di questa mia bravura e quando mi vedono sempre sorridente e mi sento dire, come mi ha detto lei: quanto deve esser felice! godo, godo assai, perché vedo di essere riuscita non solo a nascondere la mia lurida piaga, ma anche i miei dolori. E son fiera di me stessa... Dirà, caro professore, che la mia è una mania singolare, ma è però una mania che mi tien viva e mi fa superba di essere un po’ diversa da tutti gli altri, che con un male molto minore non fanno che lamentarsi, seccando tutti..."

Strinsi la mano più volte a quella brava donna, dimostrandole tutta la mia ammirazione.


Ebbi anche un amico, che è morto di 82 anni e senza malattia, passando dal sonno alla morte, senza che nessuno se ne accorgesse. Egli non aveva nessuna piaga sul corpo, ma soffriva di qualche acciacco dell’estrema vecchiezza. Eppure era sempre gaio, sempre disposto a sorridere a tutte le infinite bellezze della natura e a ridere cordialmente e senza fiele delle più che infinite ridicolezze umane.

Egli mi diceva sempre: se il fiato che sprecano nel lamentarsi tutti i vecchi lo adoperassero a soffiar via lontan lontano da sé fastidi e i pensieri di color oscuro, non maledirebbero la vecchiezza, che ha per sé tante care e buone cose. Contro i mali inevitabili io ho il contravveleno della pazienza, che adopero in diversa dose a seconda della importanza del veleno. E poi a furia di ottimismo son riuscito a scoprire che un uomo tutto quanto perfido e un fatto intieramente sciagurato son due cose che non esistono in natura e credo non potranno mai esistere. Ogni uomo ha un lato buono e ogni disgrazia porta seco qualche bene; ed io mi ingegno a trovare il buono e il bene, e più è nascosto e più mi diverto a trovarlo; precisamente come le sciarade più difficili a spiegarsi son quelle che più ci divertono. Invece purtroppo la maggior parte degli uomini fa ogni sforzo per ingrandire il lato cattivo degli uomini e delle cose, trascurando e dimenticando del tutto il lato buono.

Vi sono uomini disgraziati, che impiegano tutta la loro vita in questa sola pazza, stupida e fedele occupazione di trovare il pelo nell’uovo; mentre quei pochi, che sortono da natura la fortuna di esser felici, è perché cercano l’uovo nel pelo; fanno cioè l’opposto dei primi. Voi mi direte, forse ridendo, che nessuno dei due riesce nel suo intento, ma io che son vecchio posso assicurarvi, che col microscopio dell’ottimismo o col telescopio dell’idealità son sempre riuscito a trovare l’uovo nel pelo; cioé dovunque e sempre un germe di meditazione o una scusa del peccato; un lato estetico anche nei gobbi.... Ho trovato sempre il filo tessile nell’ortica e il profumo nell’assenzio.

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