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EPISTOLA CONSOLATORIA
In queste lettere mie deliberai, quanto io stimai essere mio officio, scrivere a te come ad omo quale io conoscea dotto ed erudito e in prima prudente e ben consigliato, non tanto per adurti nuovi e da te non prima conosciuti argomenti accomodati a levarti dall’animo, se in te forse fosse, alcuno dolore, quanto per ricordarteli, e insieme a me stessi repetendoli minuire el dispiacere quale io in me presi udendo la calamità tua; ché conoscea te, quanto se’ omo, tanto non potevi non sentire la gravissima tua ricevuta avversità, quale infrangerebbe qualunque altro in sé la sofferisse. Onde arbitrai forse a te, benché tu sia d’animo fermissimo e costantissimo pur in qualche parte perturbato, fussero e’ nostri amonimenti utili a ricordarteli. Adonque, raméntati quanto appresso e’ litterati nostri maggiori, omini sapientissimi, comune si scrive imprima precetto contro ogni avversa molestia. Riconosciamo noi stessi essere né d’altra materia procreati né con altra condizione produtti in vita che fussero e’ sacri passati filosofi e profeti e gli altri simili iusti e santi amati da Dio. Tutti, naturale nostra legge, soffersero in vita varie infermità, molti dolori, grande calamità, grave miseria. Per questo sarebbe stoltizia la nostra recusare in noi quello nulla possiamo negare alla natura; e sarà laude soffrire con pazienza quello a noi non lice distorlo con alcuno consiglio nostro o ragione umana. Le acerbità e gravezze quali te ne’ dì passati premerono, niuna testé tua lacrima o dolertene puote distorle. E le molestie presenti provi tu quanto stieno a te più gravi pel tuo non ben saperle sofferire; ché vedi forse ad altri simile aversità essere lieve, ove la soffra con modo e regge sé stessi con ragione e virile pazienza. E hanno questa possanza e’ casi avversi, che a chi li teme, benché siano non presenti e ancora sieno levissimi, molto nuoceno; ma a chi contro loro s’apparecchia con virtù d’animo quanto e’ debba a non li temere, chi sé stesso conferma e vole di sua virtù quanto e’ puote, a costui nulla nuoceno, ma e ancora presenti e gravi che siano, giovano. Però che, quanto più sentiamo le tribulazioni, tanto più s’appruova in noi la nostra virtù. Comune proverbio: «l’oro al fuoco»: così la virtù nostra in cose ov’ella abbi da essercitarsi e purificarsi da ogni corrotta oppinione. Quinci Paulo Apostolo godea gli fusse dato questo sentire le sue molestie, gli stimoli, le ansietà e pericoli. Piaceali questa concertazione contro al dolore, ed eccitamenti pestiferi, ove el perseverasse in officio di vera pazienza, per quale la sua virtù si rendesse molto perfettissima; e affermava che chi volea vivere in pietà grata a Dio, li si convenia soffrire persecuzioni e acerbità, acciò che a lui non fusse detto come a quel delicato ricco: «Avesti tu in vita e’ tuoi piaceri». Ma Lazzero de’ suoi allora sofferti mali ora ne riceve etterna gloria, ed è in cielo reposta la grillanda sua, segno di vittoria, premio della giustizia, laude della virtù a chi bene concertò in questo nostro brevissimo corso della nostra vita infra e’ mortali. Adonque si lodava in simili modi Paulo Apostolo essere corretto da Dio, per non seguire la dannazione e tenebre del mondo: al quale esso ne ammonisce dobbiamo come a ferocissima bestia resistere, perseverando con vera fede e intera religione, sempre persuadendoci che in Dio, in cui manifesto conosciamo essere infinita intelligenza, poiché ci fece noi ornati di tanto intelletto, simile sia bontà infinita; veduto quanta carità fu la sua verso de’ mortali, farsi di Dio omo, soffrire per noi morte ignominiosissima: ché certo non tanto desideriamo noi la nostra salute quanto Dio proccura di dì in dì averci salvi in etterna nostra felicità e vera beatitudine. Isaias profeta: «Può la madre tua forse dimenticarti. Io, disse Dio, di te mai mi dimenticherò». Non ci fece Dio, ottimo padre, alla sua similitudine, non ci ricomperò col suo sangue, per non si ricordare di noi, opera degnissima delle sue mani. Noi simile, stiaci a perpetua memoria in Dio essere somma bontà, infinita misericordia, inestimabile dilezione verso di noi. Insieme con David profeta riputiànlo quanto elli è amantissimo padre, e misericordioso a chi lo teme. Né possiamo affermare in noi sia vero timore se saremo contumaci, non sofferendo con pazienza sue discipline. E se non ti scorderai che ogni correzione viene da carità e amore, così come el lasciare errare viene da odio, statuirai simile che come insieme non si può amare e odiare, così Dio gastigando te ama te, e amandoti si ricorda di te; e così affermerai che crescendoti calamità, o ti s’apparecchia maggior merito, o ti si compensa maggior tua meritata pena. E se tu di te stessi sarai giudice non iniquo, troverrai in te errori da meritare maggiore molto più pena che questa e quest’altra quale tu soffristi. E quando tu pur fussi fra ’l numero de’ iustissimi, comincia con teco stessi a racontare di tutto il numero de’ iusti e diletti da Dio, qual sia uscito di vita sanza sentire le condizioni de’ mortali: essilio, povertà, pericoli, infermità, ignominia, carcere, e l’altre simili cose acerbe e gravi ai fragili ed effeminati animi. Ma quelli che con fede sono ben confermati da Dio, a costoro nulla può parere non da sé meritato, nulla non da sofferirlo, nulla non adiudicato a chi sia in vita fra’ mortali.
E così sempre fusse condizione degli uomini, giovi discorrere brevissimo la sacra istoria, quale a te sempre parse degnissima. Vederai niuno libero di innumerabili tribulazioni. Adam, quel primo quasi per cui Idio fece tanta e sì maravigliosa opera, a cui el sottomise ogni moltitudine e varietà d’animanti, passò egli sua vita sanza dolore? Proscritto, esterminato da sì felicissima patria ove erano tutte le amenità e diletti, uscì errando a vivere del suo sudore e fatica. Dirai: «Questo fu per suo peccato». Né tu però ardirai dirti iusto e puro più che lui. Una inobbedienza a lui diede perpetuo essilio. Tu racconta quante sieno ogni ora le tue contumacie a chi ti donò tanti beni quanti a te abundano. Abel, perché fu iustissimo, da’ fratelli sofferì cose iniustissime. Noé, quello uno quale Dio per la sua bontà molto amava, quale stimi tu a lui fusse quel carcere suo tra le fere, in quale e’ sentiva dintorno furiare la natura irata, con tuoni, con fragore de’ venti insieme e delle onde, sotto le quali la stirpe umana e tutti li animanti periano? Quale stimi tu fosse el suo dolore pensando quanto in un tratto perdea tanto numero di suoi noti e familiari? Agiungi le contumelie quali el ricevette dal figliuolo. Abraam, piissimo, uscì peregrinando in essilio per terre disertissime, in quale e le difficultà de’ luoghi e la cura di ben guidare e’ suoi el tormentavano. Grave fame sofferse appresso e Palestini e appresso gli Egizi: fu in acerbissimi travagli e molestissime suspizioni temendo grave pericolo alla salute sua e alla pudicizia della sua amantissima moglie. Convenneli armarsi e concertare contro a’ Persi, superbissimi vincitori e crudelissimi. Fu a lui quel desiderio quasi in tutta la sua età d’avere figliuoli iusti eredi un tormento inestimabile. Supervenneli incendio de’ suoi finittimi popoli, quale accrebbe cagione alle sue lacrime. Isaac, in pari maninconia, desiderando vedere nato di sé chi doppo a sé servasse el nome suo, più età visse, né li fu permesso sentirsi esaudito in tanta espettazione e iusto desiderio sanza molestia, ove la moglie a lui partorì con tanto suo pericolo, e quasi con la morte della madre uscì in vita quel tanto bramato figliuolo. In casa sua vide moglie a’ figliuoli a sé mal grata e aliena da’ suoi santissimi instituti: sofferse in casa assidue gare e contenzioni di quelle mal costumate femminelle; e per accrescerli tedio, udendo tutto el dì cose a sé moleste, perdé il vedere, e cieco potea prendere consolazione niuna di guardarsi innanti le cose a sé grate e iocunde; onde li seguitò che per fraude della moglie benedisse chi el non volea. Iacob sofferse gravissime inimicizie dal suo fratello, tale che fuggendo dalla patria sua in somma povertà, non senza molte fatiche schifò gravissimi apparecchiati contro a sé pericoli; qual cosa lo strinse a vivere servo fra gente barbara anni non meno che venti. Non racconto e’ superchi caldi, le lunghe vigilie, e’ molesti freddi, giacci, venti, polvere, quali lo atterravano, e giusti premi tanto amati, la promessa e dovuta moglie a tante fatiche sue, in quante el visse anni due volte sette in infima servitù beffato. Pur, quando che sia, gli ottenne; ma fu a lui pienissima di molestia, ove ella sterile e per questo indegnosa a lui troppo, era meno ch’el non desiderava ioconda. Vide rapita la sua figliuola festivissima; pianse el caso della moglie tanto da sé amata, quale partorendo perì; e fu tutta la sua vita tale che né morendo ancora li fu licito non dolersi di nuova e acerbissima ricevuta iniuria, quale tanto era maggiore, quanto e’ la ricevea da persona certo più indegna e in cosa più a sé cara. Appetette il suo figliuolo la sponda del padre. Aggiugni qui el dolore a lui fu udendo da’ suoi perfidi figliuoli la perdita del carissimo e ottimo figliuolo, quale enunziarono fusse stato ucciso dalla fera, e monstrorongli e’ panni sanguinosi. Iosef, adunque, persino da puerizia sofferse avversa, come e’ dicono, fortuna, grave iniuria da’ suoi propri fratelli, onde entrò in servitù. Ebbe e lunga e grave concertazione contro lo infestissimo amore in giovinile età: puro e senza vizio comorò in prigione tra quelli impurissimi e viziosissimi scellerati. Moises, educato tra’ barbari, né padre conobbe né madre; vide in sua servitù uccidere da’ suoi tiranni e’ suoi cittadini, onde per el dolore sé misse errando e fuggendo perfino che venne in ospizio di colui, omo pestifero, quale sacrificava a’ demoni. Visse anni quaranta pascendo le turme, omo nato di re per essere re. E quando poi fu in migliore stato e più amplitudine, visse accerchiato e molestato da maledici e detrattori ingrati e iniquissimi, quali per loro vizi tanto li furono a dolore che ruppe indegnato le tavole in quali erano scritte le santissime legge. Vide varie e inaudite strage de’ suoi. Iesus adolorò vedendo e’ suoi superati dalli inimici. David sofferse suoi iniquissimi fratelli, grave ingratitudine de’ suoi, insidie e tradimenti. Fulli refugio contro alla crudelità del tiranno fingersi senza mente e stolto. Tornando, fuggiti tanti pericoli, e credendo riposarsi tra’ suoi in tranquillità, trovò la sua famiglia ita in servitù. Aggiugni quelli anni in quali irato gli mancò il figliuolo; aggiugni la fame, la peste in quale el si trovò, che in un mezzo dì vide cadere de’ suoi a miserabile morte uomini settanta volte mille.
Simile qual vuoi de’ profeti: a tutti fu la loro vita acerba, e sofferendo tribulazioni ed espettando e desiderando la salvazione d’Isdrael. Fu di loro niuno non beffo da’ suoi cittadini: battuti, trattoli e’ sassi, tenuti in prigione, datoli grave tortura, uccisi crudelissime. Tutti vissero in povertà e ultima necessità di tutte le cose; vestiti di una spoglia di capra riposavansi in terra. Ma tutte queste cose loro, stima, furon nulla a pari al dolore ch’egli aveano vedendo errare e’ suoi, conoscendo le vendette quali erano apparecchiate a’ popoli; onde piangeano e diceano: «Eh che gente prava, piena di biastemme, falsità, furti, omicidi! Non è secco il sangue in terra, che nuovo sangue lo ricopre». Piangeano insieme la rarità dei buoni. Ma per nominarti di loro qualche uno, Ezechieles, immobile in un lato, afflitto e adolorato, giacette clxxxx dì. Voglio esser breve. Di costoro, amicissimi a Dio, e di molti altri quali interlassai, fu niuno a cui non intervenissero quante vedesti, e molte più ch’io non racontai, avversità. Vinserole sofferendo, e stimoronle in sé o legge de’ mortali o volontà di Dio: non le recusorono, ché intendeano giovarli o a imminuire le meritate pene o ad accrescere suoi meriti in etterna gloria. Potrei con costoro raccontarti Iob, contro al quale tutte le miserie e tribulazioni coniurate e infeste s’affaticorono. Nudo e in terra derelitto, destituto, beffato, indegnato, calunniato; niuno refrigerio, niuna parte del suo corpo libera dalle molte piaghe, dal fastidio, dal dolore: nota istoria. E Paulo Apostolo, quale di sé stesso testifica suoi pericoli, non dice: «Non mi dolgo», ma gloriasi averli materia a riconfermarsi a virtù. Potrei adurti quel Demofilo di Crisostomo, quale anni dieci iacea, né avea in sé parte alcuna di vita, altro che quanto per el dolore tremava.
Ma delibero non mi estendere in provar cose a te, omo litteratissimo, notissime. Tanto ti ramento essere tuo debito ripensare a te stesso, e riconoscerti omo nato per sofferire quello sofferano gli altri posti in questa vita de’ mortali; stimarti né di più merito che quale si sia uno di quelli io raccontai, né meno omo che qualunque altro nato e atto a sofferire quello che già soffersero gli altri più giusti e più di te religiosi. Può, adunque, con ricordarti di questi e di loro avversità insieme e colla ragione asseguire quello asseguirebbe el tempo; ché se non domani, l’altro, o poi un altro dì si dimenticherebbe ogni tuo ostinato dolore. Tu con tua virtù, ponendo modo a te stessi, usurpa a te questa lode d’avere acquietato in te l’animo tuo, ed espurgatone ogni perturbazione. Gioveratti insieme redurti a memoria le cose contrarie al dolore, ripensare a quante grazie e doni a te fece Dio. Traducesti tua gioventù sana, lieta, formosa, amata; fra’ tuoi, non in essilio; non in povertà, non in servitù; non odiato da’ tuoi; non escluso, non afflitto da tante miserie e continui dolori. E queste tribulazioni, quali tu testé sofferi, gioverà con pazienza meritarne grazie e premio da Dio, più tosto che con indegnazione accrescerne a te stessi molestia; ché sai lo indegnarsi e attediarsi nulla minuisce el male, anzi ogni calamità quanto tu meno la sofferi, più ti nuoce.
Spera in Dio, e godi esserli a mente, e non dubitare che se vedrà te nulla contumace a sue discipline, di dì in dì te renderà migliore, e meno bisognerà gastigarti sotto el giogo. Ancora ti gioverà avere sofferte queste tue miserie, ché conoscerai te stessi quanto tu possa in virtù, e conoscerai la grazia di Dio e pietà inverso di te essere non minore che tu e io a te la desideri; ché sai io te amo quanto me stessi. Vale.