< Epistolario (Leopardi)
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Al padre conte Monaldo Leopardi
1810-1819 2
1. Al padre conte Monaldo Leopardi. — Recanati.1

[Recanati] Di casa ai 24 Decembre 1810.


Carissimo e stimatissimo signor Padre. Il ritrovarmi in quest’anno colle mani vuote non m’impedisce di venire a testificarle la mia gratitudine augurandogli ogni bene dal Cielo nelle prossime festive ricorrenze. Certo che ella saprà compatirmi per la mia sventura,2 lo faccio colla stessa animosità, colla quale solea farlo negli anni trascorsi. Crescendo la età crebbe l’audacia, ma non crebbe il tempo dell’applicazione. Ardii intraprendere opere più vaste, ma il breve spazio, che mi è dato di occupare nello studio,3 fece che laddove altra volta compiva i miei libercoli nella estensione di un mese, ora per condurli a termine ho d’uopo di anni.4 Quindi è che malgrado le mie speranze, e ad onta del mio desiderio, non mi fu possibile di terminare veruno di quelli, che mi ritrovo avere cominciati.5 Tuttoché però mi vedessi inabile ad adempiere all’atto di dovere, che la costumanza fra noi da qualche tempo addottata ha congiunto alla Sacra vicina festività; fece nondimeno la viva gratitudine ai di lei beneficj, da me gelosamente serbata nell’animo, che osassi anche in quest’anno di presentarmi a lei per augurarle a viva voce quella prosperità che di continuo le auguro nel mio cuore. I vantaggi da lei proccuratimi in ogni genere, ma specialmente in riguardo a quella occupazione, che forma l’oggetto del mio trastullo, mi ha riempito l’animo di una giusta gratitudine, che non posso non affrettarmi a testimoniarle. Conosco la cura grande, che ella compiacesi di avere pei miei vantaggi, e dietro alla chiara cognizione, viene come indivisibile compagna la riconoscenza. Se ella non conobbe fin qui questo reale sentimento del mio cuore, a me certo se ne deve il rimprovero, sí come a quello, che non seppe verso la sua persona mostrarsi cosí ossequioso come ad un figlio sí beneficato era convenevole di fare con un Padre sí benefico. Amerei, che ella illustrato da un lume negato dalla natura a tutti gli uomini potesse nel mio cuore leggere a chiare note quei sentimenti, che cerco di esprimerle colle parole. Non v’ha in esse né esagerazione, né menzogna. Non potendo ella penetrare nel mio interno, può sicuramente riposare sulla testimonianza della mia penna.

Rinnuovati i voti sinceri per la sua perpetua felicità, mi dichiaro col piú vivo sentimento Suo U.mo Obb.mo Figlio.

  1. Dall’autografo conservato in casa Leopardi. — Monaldo Leopardi (1776-1847) è uno dei più notevoli personaggi che figurano nell’Epistolario leopardiano, non solo perché fu il padre del grande Scrittore, ma anche per la singolarità del suo carattere e del suo ingegno. Nato in Recanati dal conte Giacomo, uomo cólto e amante degli studi, che morí ancor giovane, e da Virginia Mosca di Pesaro, fu educato alle idee proprie di tutti quei nobili provinciali, contrarii alla Rivoluzione francese, e devoti al trono e all’altare, le due cose che in quella regione si assommavano nella sacra persona del Pontefice. Si aggiunga la circostanza ch’egli, giovanissimo e primogenito, per l’immatura morte del padre venne improvvisamente a trovarsi a capo della famiglia; e troppo fidando nella quadratura della sua testa, volle far tutto da sé, e commise molti errori, dei quali ebbe poi lungamente a subire le conseguenze; quando cioè, ammogliatosi con Adelaide dei marchesi Antici, dové cedere a questa donna di ferro la domestica amministrazione, e anche buona parte della sua autorità, per vedersi sollevato dalle terribili angustie del suo dissestato patrimonio, e dalle molestie incalzanti dei creditori usurai. E sebbene avesse dovuto mordere spesso il freno sotto l’inflessibile regime di economia instaurato dalla moglie, non ebbe a pentirsi di averle ceduto, in vista degli ottimi effetti che, dopo circa quaranta anni, da quel regime derivarono. Cosí egli potè soddisfare la sua brama di apprendere, direttamente dai libri, dei quali era appassionatissimo; poté fondare e ampliare via via una cospicua biblioteca, da servire a sé, ai figli, agli amici, ai concittadini; e con scritti di varia natura accarezzare la speranza di farsi un nome illustre. Cominciò con tragedie e commedie, che furon di modello ai figli, e specialmente al primogenito, del quale Monaldo indovinò primo l’altissimo ingegno, e dei cui studi si prese, insieme col cognato Carlo Antici, cura costante e affettuosa; seguendo giorno per giorno le occupazioni, le inclinazioni, le predilezioni del figlio, e agevolandolo con ogni sorta di aiuti e incoraggiamenti. L’affetto smisurato di Monaldo per Giacomo lo fece sempre restío a separarsi dal figlio, ch’egli teneva come un amico e un compagno di studi. E solo verso la fine del ’22 cedette alle insistenti premure del cognato Antici, che condusse con sé Giacomo a Roma e lo tenne in sua casa circa cinque mesi. Ma frattanto le idee del padre e del figlio, che pure avevan grandi somiglianze nel carattere e nell’ingegno, eran venute gradatamente divergendo, specie nel campo religioso e nel politico. Svanita la vocazione di Giacomo allo stato ecclesiastico, e uscito questi ormai definitivamente dalla casa paterna, non potè aver più, dai frequenti contatti col padre, troppa unione di spirito con lui; ma non cessò mai dall’amarlo con affetto tenero e grato, e dall’avere per lui un rispetto non mentito, come apparve precipuamente in alcune notevoli circostanze della sua vita. E questo affetto gli fu ricambiato ad usura dal padre, non ostante la distanza che ormai lo separava dal figlio.
         Dopo aver dato l’opera sua efficace a reggere il governo del Comune, ritraendone più delusioni e amarezze che soddisfazioni, forse a causa di quel suo spirito autoritario ed esclusivo, Monaldo continuò negli ultimi anni alacremente i suoi prediletti studi, specie nel campo della storia regionale e comunale, conducendo assai innanzi il più importante di tutti i suoi lavori, quello degli Annali recanatesi; e nello stesso tempo non cessò d’interessarsi alle vicende politiche, e a combattere per la «buona causa», sia con pubblicazioni polemiche (la più celebre di tutte furono i Dialoghetti), sia con lo scrivere nei giornali; anzi, per aver la mano del tutto libera, fondò e scrisse quasi da solo La Voce della Ragione, dove dal 31 maggio ’32 per circa quattro anni esercitò un’arditissima foga polemica non solo contro i dichiarati avversari, ma spesso anche contro quelli del suo medesimo partito, e toccando perfino i più alti papaveri; al punto che dovette vedersi sospeso il giornale e sentirsi tagliata la lingua. Dopo la morte del figlio Luigi nel ’28, dopo il matrimonio di Carlo nel ’29, da lui invano avversato, dopo la morte di Giacomo nel ’37 che, avendo coinciso con la fuga di Pierfrancesco dalla casa paterna, recò al cuore del padre una doppia simultanea ferita, parve che la famiglia Leopardi avesse a godere, con le bene auspicate nozze di Pierfrancesco e di Cleofe Ferretti, un periodo di pace e di serenità. E di questo periodo si avvantaggiarono gli ultimi anni di Monaldo; il quale, costretto all’inazione della penna e già minato dal male che doveva spegnerlo, fu tuttavia confortato dal vedere il suo patrimonio interamente ricostruito mercé l’inflessibile regime economico della moglie, dall’affetto di Pierfrancesco e della nuora, dall’assistenza continua di Paolina, dalla gioia dei nipotini. Ma questa tregua non fu di lunga durata: cessò con la morte di Monaldo nel 1847; alla quale dovevan seguire a breve intervallo nuovi lutti, e con essi la desolazione e il silenzio nel vasto e severo palazzo comitale. — Vedasi specialmente l’Autobiografia di Monaldo Leopardi, completata e illustrata da Alessandro Avòli, Roma, Befani, 1883.
  2. Intende quella di non potere in quest’anno offrire al padre nessuna produzione letteraria, come n’era invalso l’uso in casa Leopardi.
  3. Forse vuol dire dello «studio libero», a differenza dello «studio scolastico» che gli assorbiva la più parte della giornata.
  4. Le produzioni, meno vaste ed audaci, compiute fin qui dal prodigioso fanciullo, possono vedersi elencate da lui stesso in un Indice, pubblicato in Scritti vari inediti di G. L. dalle carte napoletane (Firenze, Lo Monnier, 1910), e meglio ancora tra i Nuovi documenti intorno agli scritti e alla vita di G. L., raccolti e pubblicati da Giuseppe Piergili, 3ª ediz. (Firenze, Success. Le Monnier, 1892). Quelle che gli avrebbero richiesto non un mese ma anni, e che ora andava concependo, sono specialmente i lavori di carattere erudito e filologico.
  5. Non saprei dire con precisione quali lavori d’una certa importanza G. si trovasse avere incominciati. In quest’anno 1810, egli aveva compiuti molti e vari componimenti poetici, in italiano e in latino; le Notti puniche; il Balaamo, poemetto in tre canti in sesta rima; il Catone in Affrica; oltre a molti altri scritti aventi l’impronta di esercitazioni scolastiche. E nei due anni seguenti, oltre a varie Dissertazioni filosofiche, anch’esse di carattere scolastico, abbiamo di notevole La Virtù Indiana, tragedia in tre atti, e l’Arte poetica di Orazio travestita in ottava rima (1811); la tragedia Pompeo in Egitto e un primo tentativo di Istoria dell’Astronomia (1812), ampliato nell’anno appresso. Può darsi che a questi lavori, o ad alcuni di essi, G. avesse cominciato a por mano fin da quando scriveva questa lettera al padre; e che ad essi alluda come alla causa della sua presente «sventura».

IL CONTE MONALDO LEOPARDI


Note

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