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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1834
ER BOJA.
Er guajo1 nun è mmica che cqui oggn’anno
Ar Governo2 nun fiocchino3 proscessi:
Li delitti, ppiù o mmeno, so’ l’istessi,4
E, ppe’ ggrazzia de Ddio, sempre se5 fanno.
Ècchelo6 er punto indóve sta er malanno,
Che mmo li ggiacubbini se so’7 mmessi
Drent’a li lòro scervellacci fossi8
Ch’er giustizzià la ggente è da tiranno.
No cch’abbino9 li preti st’oppiggnóne:10
Sempre però una massima cattiva,
Dajje, dajje,11 la fa cquarch’impressione.
E accusi, ppe’ llassà12 la ggente viva,
S’innimicheno er boja, ch’è er bastone
De la vecchiaja de li Stati. Evviva!
18 marzo 1834.
- ↑ Il guaio: la sventura.
- ↑ Il Governo è qui inteso pel Palazzo della Giustizia, chiamato con quel nome.
- ↑ Non abondino.
- ↑ Sono nello stesso numero.
- ↑ Si.
- ↑ Eccolo.
- ↑ Si sono.
- ↑ Stravaganti.
- ↑ Non già che abbiano ecc.
- ↑ Questa opinione.
- ↑ Dagli dagli: a forza di operare; col ripetersi di frequente.
- ↑ E così, per lasciare.
Note
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